"Agora" (Alejandro Amenábar, 2008)

AgoràPartiamo da un semplice dato di fatto, che comunque niente toglie al fondo di verità che quest’opera contiene, come le alterne vicissitudini della sua distribuzione (si dice, ma non fatico a crederci, avversata dalle Gerarchie ecclesiastiche: ricordate? Ne avevamo già parlato qui), per la quale si sono dovuti mobilitare quotidiani (come La Stampa) e popolo della rete (vedi Facebook), dimostrano pienamente: Agora contiene inesattezze storiche, piccole e grandi, ed una certa tendenza “cinematografica” alla semplificazione ed alla spettacolarizzazione. Probabilmente non è nemmeno un grande film, tecnicamente parlando, e di certo non un capolavoro, ma, e qui sta il fulcro, è Grande Cinema, nel senso di "cinema di cui abbiamo un maledetto bisogno".
La storia è semplice e ben nota: Ipazia, filosofa e scienziata (ma all’epoca non vi era molta differenza), entra in conflitto con le gerarchie religiose della città di Alessandria, nella figura del vescovo Cirillo. In realtà l’intolleranza e le “guerre religiose” erano già iniziate molto prima tra cristiani e pagani e avevano condotto, per decreto di Teodosio e su forti pressioni dell’allora vescovo di Alessandria Teofilo, alla distruzione di tutti i simboli religiosi elleni e, soprattutto e ben più tristemente, del Serapeo contenente la Biblioteca di Alessandria, rinomata in tutto il mondo antico e già precedentemente protagonista di “sfortunate” vicende. Con sistematica applicazione, i vescovi procedono, dopo l'annientamento del paganesimo, alla cacciata degli ebrei e infine alla condanna di Ipazia, lapidata al grido di “strega” e “pagana” dai parabolani, ordine dedito alla cura di poveri e malati ma contemporaneamente autentico “braccio armato” del vescovo, lapidazione che avviene per ragioni strettamente politiche e legate al forte conflitto di potere in atto tra il vescovo Cirillo e il prefetto Oreste, sul quale pare che la filosofa esercitasse un forte ascendente.
Amenábar ci racconta una storia che, purtroppo, è stata a lungo ed è in larga parte tuttora attuale, e lega a doppio filo l’affermazione delle credenze religiose monoteiste con il serpeggiare incontrollato dell’intolleranza nei confronti dell’Altro: non è un mistero che l’alterità abbia spaventato in passato e spaventi tuttora le gerarchie religiose, siano essere cristiane, ebraiche o musulmane (solo per restare nell’ambito dei tre grandi culti monoteisti). La vicenda di Ipazia è in tal senso letteralmente esemplare: perseguitata inizialmente in quanto pagana e restia a convertirsi al cristianesimo in ascesa, ma non per questo accecata dall’odio e dall’intolleranza (ricordando come siano molte più le cose che ci uniscono che non quelle che ci dividono, per quanto nella storia dell’uomo è sempre sembrato che quest’ultime fossero più importanti), si ritrova ad essere indigesta alle gerarchie ecclesiastiche a causa dei suoi approfonditi studi astronomici che finiscono per andare contro l’imperante verbo tolemaico. Quello che guida la ricerca di Ipazia, contrariamente a quanto avvenga con la cecità imposta dal verbo religioso, è la capacità di mettere in discussione le cose in cui crede, capacità senza la quale nessuna maturazione, crescita o cambiamento può essere possibile, ma che finisce per costarle caro: il verbo religioso infatti mal s’adatta alla libertà di pensiero e all’approfondimento critico che davvero occorrono per raggiungere la conoscenza, e una persona che per sua stessa ammissione crede solo nella filosofia (ce ne fossero ancora oggi!) fa un po’ la fine del proverbiale vaso di coccio tra due vasi di ferro. Se a questo aggiungete il fatto che Ipazia era donna, e che la religione cristiana allora come adesso tende ad avere una visione molto subordinata del sesso femminile, non faticherete a capire quanto imbarazzo potesse generare la profonda stima ed amicizia instauratasi tra la filosofa e il prefetto Oreste, che nel film è un ex discepolo di Ipazia, di lei innamorato fin dalla giovane età, e come potesse diventare pretesto per colpire politicamente il prefetto stesso per assecondare la propria fame di potere. Le tensioni politiche tra il prefetto e il vescovo sfociano nella barbara esecuzione di Ipazia, nel film graziata dall’intervento di un suo ex schiavo convertitosi al cristianesimo che in un atto di estrema e sofferta pietà, non potendo fare null’altro, la soffoca affinché non debba patire la lapidazione da viva; un ex schiavo che, nel plot cinematografico, era stato a sua volta innamorato della filosofa e scienziata e si era in parte convertito alla nuova religione per rabbia e odio della propria misera condizione. Come sempre riassumere una trama o una storia tentando di farne convergere tutti i rivoli finisce unicamente per mettere più confusione che altro nella testa di chi legge, ne sono ben conscio. Quello che conta alla fine non sono i colpi di scena, o le trovate e le figure più o meno inventate o romanzate (ad esempio appunto la figura dello schiavo convertito Davus, che fa in qualche modo da trait d’union per l’intera vicenda e risulta dunque essere un necessario espediente narrativo per legare insieme gli avvenimenti, rendendo contemporaneamente complesse le divisioni mostrate nel film in quanto, con la sua umanità che si preserva fino alla pietosa conclusione e col racconto della sua vicenda di schiavo liberato che trova nei parabolani altresì fanatici e violenti una qualche forma di rifugio e rispetto, permette ad Amenábar di superare quel manicheismo in cui, in mani meno accorte, la sua opera avrebbe rischiato di scivolare), ma il valore che la vicenda di Ipazia ha ancora oggi, in un mondo che senza aver imparato niente dal suo passato continua a indulgere nell’odio e nell’intolleranza religiosa che mascherano la brama di potere delle Gerarchie: Ipazia è uccisa perché, storicamente, coinvolta in un conflitto di potere più grande di lei, ma la sua uccisione è contemporaneamente un paradigma delle tendenze religiose nei confronti della libertà di pensiero e di critica, negata allora come oggi semplicemente perché una massa di pecore obbedienti ed ignoranti è molto più facile da gestire che non una società di esseri senzienti e consapevoli e capaci di decidere per se stessi, “maturi” nel senso kantiano del termine, anche se seguendo quest’altro rivolo andremmo fuori strada e finiremmo per parlare di illuminismo, tradendo a nostra volta in parte la dimensione storica nella quale si colloca la vicenda narrata dal film. Eppure non è un caso che la chiesa ancora oggi condanni recisamente quell’illuminismo che ha saputo dare al mondo idee di tolleranza, libertà e rispetto dell’altro che la religione, pur nelle sue belle prediche, in realtà non è mai riuscita ad ispirare fin dai suoi più alti rappresentanti. Alla fine due sono le “sequenze” o se vogliamo i “momenti” del film che restano nella mente: il continuo richiamo alla distanza, che significa capacità di riflessione critica e scevra da preconcetti, espresso dalle inquadrature stranianti della terra vista dallo spazio, appunto messa in prospettiva di modo che le grida, la violenza e la sopraffazione che la abitano non siano altro che ciò che sono realmente, cicaleccio pericoloso e infondato; e la sequenza dello scempio del Serapeo e della Biblioteca, distrutta nell’irruzione dei cristiani, con le pergamene che vengono strappate ed arse in un’orgia di violenza ed ignoranza che, purtroppo, non ha mai smesso di echeggiare lungo i millenni della nostra Storia (a me vengono in mente i roghi nazisti del ‘900, e la censura dei regimi totalitari tutti che a lungo anche la Chiesa, forte del proprio peso politico, ha esercitato: traete le vostre conclusioni, perché certo non sta a me giudicare). In questa sequenza, di forte impatto emotivo, la telecamera ruota su se stessa fino a “ribaltare” la scena e la prospettiva, come davvero è avvenuto e avviene ogni giorno: il mondo capovolto, quello nel quale l’ignoranza come strumento di controllo sociale e politico schiaccia e distrugge la cultura, la ragione, il pensiero, la critica e alla fine schiaccia e distrugge la libertà stessa, che non è solo una parola che fa figo mettere in appendice a slogan, nomi di partito e quant’altro, ma una dimensione che si nutre di piccole cose irrinunciabili, come il diritto a conoscere ed a migliorarsi e a crescere nel solo e necessario rispetto della libertà altrui, concetto che “il cicaleccio” di cui sopra non può in alcun modo digerire. Alla fine la Biblioteca di Alessandria diviene una stalla, nella quale riposano capre, buoi, galline, e questa è una metafora dura da digerire e nemmeno troppo nascosta di ciò che diventa il mondo in cui viviamo quando rinuncia a ciò che ha di più prezioso, il pensiero. Viviamo come animali facendoci violenza l’un l’altro per egoismo, stupidità, intolleranza, razzismo, e dimentichiamo una volta di più come siano molto maggiori le cose che ci uniscono che non quelle che ci dividono. Ricordarci questa semplice verità per bocca della sua protagonista è ciò che fa di Agora un esempio di Cinema maledettamente importante, e con la C maiuscola.

3 Risposte a “"Agora" (Alejandro Amenábar, 2008)”

  1. Molto più di una recensione, un vero e proprio elogio della razionalità contro l'intolleranza e il fanatismo. Mi sono commosso.
    Ma ancora non mi è riuscito di vedere il film!

    quentin84

  2. Beh, ti ringrazio vecchio mio!
    Sono certo comunque che, la prossima volta che ci vedremo, ovvieremo al problema di "visionare" il film in questione… 😉
    Demetrio

  3. L'ho visto! Grazie per avermene fatto dono!
    M'è piaciuto un sacco. Film trascinante, emozionante, edificante.
    Un kolossal europeo moderno.
    Riuscito.

    quentin84

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