Area Reunion Tour 2012, Limonaia di Villa Strozzi (Firenze), 18/07: due parole inadeguate su una grande serata

Premetto subito che, per chi scrive, assistere ad un concerto degli Area costituisce un’emozione assolutamente senza eguali: chi di voi ha frequentato abbastanza questo blog negli anni passati e ha avuto l’occasione di imbattersi nei post che trattano di questo collettivo artistico e della sua opera capirà senza difficoltà di cosa parlo; chi passasse da qui solo adesso può fare una ricerchina per il tag area o la categoria Area- International Popular Group e tutto sarà chiaro. Non nasconderò quindi che quello cui ho assistito lo scorso mercoledì 18 Luglio presso la Limonaia di Villa Strozzi a Firenze è stato per me più di un concerto: è stato, forse melodrammaticamente, ve lo concedo, come incontrare di nuovo dei vecchi amici, rendersi conto di conoscere in anticipo ogni nota, stupirsi di poter parlare un linguaggio comune, forse (lo dico con un briciolo di imbarazzo per la probabile apparente esagerazione della cosa) sentirsi parte di qualcosa che è ancora vivo, che ancora ha qualcosa da dire. Sugli Area gruppo musicale, faro della sperimentazione in questo paese oggi così triste (non solo musicalmente) già tutto è stato detto, qui e soprattutto altrove: ripetersi sarebbe perfettamente inutile. Quello che resta negli occhi, nelle orecchie e nella mente, dopo una serata come questa e anche adesso, a qualche giorno di distanza, non è altro che la certezza della forza di questo veicolo espressivo, delle sue idee, forza che si è mantenuta intatta negli anni: un concerto degli Area, oggi come quarant’anni fa (anche se posso solo immaginarlo, dato che allora non c’ero) è qualcosa che va oltre la mimesi, qualcosa che rompe l’insensata barriera tra chi è autore dell’Arte e chi ne partecipa e ne fruisce, un’operazione di coinvolgimento che tracima dagli argini e tiene magicamente assieme pubblico e musicisti; una musica viva, vibrante, che respira con chi, curvo sugli strumenti, la esegue e col pubblico tutto, una specie di piccolo miracolo cui contribuiscono parimenti la plausibile intimità del luogo scelto per l’evento e i quattro artisti protagonisti della serata. Sostituire Giulio Capiozzo e Demetrio Stratos è un azzardo impossibile, e bene hanno fatto Patrizio Fariselli, Ares Tavolazzi e Paolo Tofani a farsi accompagnare da un quarto musicista dalla grande musicalità come Walter Paoli alla batteria e a scegliere la strada della rivisitazione per lo più strumentale dei brani del vecchio repertorio della band (strada già battuta dal Fariselli solista nel suo Area- Variazioni per Pianoforte, pubblicato nel 2005): se l’inizio è tutto per una brillante introduzione di Paolo Tofani con l’assaggio delle varie sezioni di una sua suite per tricantavina, che proietta un magma di sonorità inconsuete e inattese sul pubblico, la scelta della scaletta e l’esecuzione dei brani del vecchio repertorio non delude affatto, rendendo difficile immaginare musicisti in uno stato di forma migliore di questo, in grado di scivolare dolcemente e senza frizione tra costrutti jazz in costante evoluzione (nell’apertura del set affidata ad Arbeit Macht Frei) e gli eccessi sperimentali di Sedimentazioni (già ascoltata in Chernobyl 7991, sorta di acufene-barra-compendiorumorista dell’intera attività musicale della band nel corso degli anni), tra i ritmi zoppi e trascinanti della sempre sconvolgente Cometa Rossa e l’andamento sghembo e tirato di Nervi Scoperti (“I was born in Kansas City…” grida Tofani sui primi accordi del brano, trasformandolo in una sorta di sorprendente canto Gospel), tra una geniale fusione di Gerontocrazia con la potenza ritmica de L’elefante Bianco, brano introdotto da un’esecuzione solista di Fariselli dell’Epitaffio di Seikilos, prima testimonianza di musica occidentale giunta fino a noi e già ascoltata nell’album Notturni, e una riproposizione de La Mela di Odessa sulla quale spicca la divertita interpretazione vocale di Paolo Tofani, cui rispondono gli interventi al piano e alle tastiere di Fariselli, e cui fa da sfondo la solida base ritmica fornita da Tavolazzi e Paoli. Per chiudere la serata non può mancare Luglio, agosto, settembre (nero), la cui introduzione è affidata alla voce registrata che si può ascoltare anche nella versione incisa su disco accompagnata stavolta dal tintinnare delle chiavi del pubblico tutto, su invito dei musicisti stessi, un esempio semplice ma funzionale del coinvolgimento cui accennavo prima (ci si riferisce al fatto che i palestinesi cacciati dalle proprie terre abbiano mantenuto tutt’oggi l’usanza di tramandare le chiavi della casa ai propri figli, nipoti e così via, in una catena del dolore che ancora non ha trovato il suo positivo scioglimento) e, in sede di quello che potremmo chiamare “bis”, una versione allungata e partecipata di Gioia e Rivoluzione, cantata all’unisono da Tofani e Tavolazzi e, in una magica estensione, dal pubblico intero. Cos’altro si può (o si deve) aggiungere? Forse qualche parola, scontata ma non tanto, ai giorni nostri, sull’immensa disponibilità dei musicisti all’abbraccio del proprio pubblico, che si tratti della richiesta di un autografo, di una foto, di un’intervista, o semplicemente dello scambio di due battute e di idee su qualsiasi argomento, una disponibilità all’incontro e al confronto che, a me che non sono abituato e conosco musicisti assai meno dotati e noti che amano rendersi impenetrabili come se la loro Turris Eburnea ne facesse semidei indiscutibili, non finirà mai di stupire, ma che mi ricorda una cosa, la più importante: l’Arte è un modo per conoscerci, per aprirci l’un l’altro strade nuove, mai battute, per fornire a noi stessi e a chi è con noi nuovi punti di vista, uno strumento per conoscere e crescere e migliorarsi, una ricerca che non avrà mai fine e che deve essere condotta con qualsiasi mezzo a disposizione e tutte le forze disponibili, senza mai limitarsi o cedere. Quanti ancora oggi concepiscono in questo mondo l’Arte? Sarà per questo che mi sono sorpreso, a metà di Arbeit Macht Frei, a commuovermi come non mi era mai accaduto: perché ci sono persone che non hanno mai smesso di farlo, e che ci spronano a fare altrettanto, ad essere migliori, crescere e conoscere. Ecco perché, per me ma sicuramente anche per tanti altri che si trovavano lì, questo concerto non è stata mera performance o esibizione, ma un vero momento di partecipazione collettiva: potrei sprecare altri travolgenti fiumi di parole e non arrivare di un millimetro più vicino a farvi comprendere di cosa si sia trattato. Spero tuttavia di avervi fatto venir voglia di tornare a partecipare, ad impegnarsi: sarebbe già una gran cosa.

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