"Babel" (Alejandro González Iñárritu, 2006)

Babel: il riferimento è all’episodio biblico della Torre di Babele, che rende conto dell’esistenza di differenti linguaggi, che nel tempo hanno purtroppo contribuito a dividere gli uomini e farli sentire diversi tra loro, ciascuno chiuso a suo modo e inaccessibile all’altro. E pensare che le intenzioni erano buone: essere tutti uniti sotto uno stesso nome, capirsi l’un l’altro.
Sappiamo tutti molto bene come le cose non siano andate così: il mondo in cui viviamo è un mondo complesso, stratificato, nel quale l’incomprensione e la difficoltà di relazione sono all’ordine del giorno. Babel, opera del 2006 diretta da Alejandro González Iñárritu e sceneggiata dallo scrittore Guillermo Arriaga, come i precedenti film del regista messicano, Amores Perros e 21 Grammi, inserisce proprio in questo contesto dei disastrati primi anni del nostro millennio una vicenda esemplificativa di questa “distanza” tra gli essere umani. Il racconto muove su diversi piani, continuamente intersecantesi: una coppia in crisi in viaggio in Marocco (Brad Pitt e Cate Blanchett), dove lei resta ferita da un colpo vagante sparato da un ragazzino del luogo; la vicenda della famiglia marocchina da cui proviene questo ragazzino; i figli della coppia americana, affidati alla tata messicana che li porta con sé al matrimonio del figlio, oltre il confine, in quella che, al ritorno, si trasformerà in un’autentica odissea; una giovane e irrequieta ragazza sordomuta giapponese (Rinko Kikuchi), alle prese con le difficoltà interpersonali dovute al suo handicap e con un passato tragico che l’allontana dal padre, padre che nel corso della storia si scoprirà essere legato al colpo di fucile che ha ferito l’americana in Marocco alcuni mesi prima. Vicende diverse, apparentemente assai lontane tra loro eppure tutte legate da un filo sottile, in equilibrio precario, quasi a dire che “tutto si tiene”, in qualche maniera, anche laddove la casualità degli eventi, una delle tematiche portanti dell’opera, sembra affermarsi su ogni consequenzialità logica. Forte di un montaggio praticamente perfetto, Iñárritu riesce a scavare in profondità nei protagonisti delle vicende lasciando emergere, oltre il quadro generale, le grandi consonanze nella sorte di tutte queste persone e dell’intero genere umano, riassumibili nella straniante (ma non nuova) sensazione di essere comunque stranieri ovunque ci si trovi, perché isolati, ripiegati su se stessi, inaccessibili anche a chi ci è più vicino. Lo sfondo delle incomprensioni politiche (sullo sparo che ha ferito la turista americana grava il sospetto del terrorismo di matrice islamica; la tata messicana e il nipote (
Gael García Bernal) sono costretti ad Babel_1affrontare il ventre molle di debolezza dei propri diritti ingenerato dal loro status di immigrati, potenzialmente clandestini e dunque, per l’autorità costituita, inevitabilmente pericolosi) e della violenza sociale (la giovane ragazza sordomuta che, per far parte del “gruppo” e sentirsi meno diversa, è costretta ad accettare droga, alcool e sballo) non è che un pretesto, un grande lenzuolo bianco sul quale Iñárritu proietta un racconto fatto di piccole cose, la quotidianità dei rapporti tra coniugi, tra padri e figli, madri e figli e le difficoltà di comunicazione ai tempi della comunicazione di massa, e la ripetizione non è casuale: in un mondo reso minuscolo dai mezzi di trasporto, dalla rete, dai telefoni, nel quale basta schiacciare un tasto per entrare in contatto con qualcosa che sta a migliaia di chilometri di distanza tra noi; in questo mondo, niente è ancora in grado di annullare davvero le distanze tra gli uomini, che restano le più grandi, le più ardue. La paura degli altri gitanti americani, che abbandonano i turisti connazionali nel piccolo villaggio marocchino, lei ferita gravemente e in fin di vita e lui disperato; la glaciale burocrazia di frontiera che nega a chi commette finanche una semplice “stupidaggine”, come la tata messicana, di vedere riconosciuto il proprio diritto e la propria dignità e umanità; i metodi violenti con cui le forze di polizie tentano di strappare piccole verità alle persone; l’incomunicabilità che va oltre la diversità fisica (l’handicap della giovane giapponese), investendo ogni genere di rapporto e condannando ad un isolamento feroce, per quanto sfavillante come le luci di Tokyo. Fondamentalmente, Babel racconta di sofferenza e solitudine, i due sentimenti forse più noti a chi, oggi, vive in società come le nostre, ma più in generale in questo nostro mondo: che siano stupidità, superficialità o casualità a generare questa nostra interdistanza è ciò che l’opera sembra affermare. Non c’è alcun disegno intelligente: le cose si limitano ad accadere, e sta a noi trovare in esse un senso umano. L’esperienza del dolore domina le vicende narrate da Iñárritu, così come domina le vite di noi tutti: in questo senso Babel riesce a porsi come un’opera sinceramente e definitivamente universale, un film asciutto e nel quale non si assiste ad alcun calo di tensione, con un regista che riesce a gestire col giusto grado di attenzione una materia narrativa che, in mani meno capaci, avrebbe seriamente rischiato di risolversi in un’accozzaglia senza dignità di banalità e luoghi comuni. Invece in questo film tutto resta al posto giusto, niente è fuori luogo ma, contemporaneamente, non vi è artificiosità alcuna: le emozioni sono umane, le vicende sono umane, tutto si trova dove deve stare, a dimostrare come l’occhio dell’autore messicano sia riuscito a penetrare la narrazione del suo sceneggiatore vivificandola fino a renderle pienamente giustizia.
Quello che senz’altro contribuisce a fare di quest’opera un film da vedere sono poi la fotografia e la
Babel_2straordinaria colonna sonora: da una parte Rodrigo Prieto riesce a fotografare ognuno dei quattro diversissimi luoghi geografici nei quali si svolge la storia dando a ciascuno un proprio straniante spessore, che si tratti dell’asciuttezza distante e quasi minacciosa (per gli spaventati turisti americani) del deserto marocchino, con le facce dei propri abitanti come scavate da millenni di sole, del calore e della sensualità della notte messicana che evolve nel gelido silenzio del deserto della California, degli ambienti caldi e rassicuranti della casa della coppia americana o, infine, della stordente iperattività della capitale giapponese, una Tokyo seducente e coloratissima che si rivela un moloch gelido, un ventre che ingoia nella sua chiassosa solitudine; dall’altra, Gustavo Santaolalla compone una colonna sonora difficile da dimenticare, mai ridondante ma emotivamente perfetta per sostenere le immagini, che si avvale di alcuni contributi esterni di assoluto valore (in particolar modo di Ryuichi Sakamoto, che firma tra l'altro la conclusiva e splendida Bibo No Aozora), un lavoro valso al compositore argentino un meritato premio Oscar (il secondo, dopo la statuetta ricevuta per I Segreti di Brokeback Mountain). Babel è un’opera complessa, un incastro sottile di sofferenza, solitudine, umanità, gestito con un’asciuttezza e un rigore formale fuori dal comune e accompagnato da immagini e musiche indimenticabili: potrebbe essere l’opera che definitivamente palesa, nell’overdose di soffocante (e falsa) comunicazione di questi anni, il nostro sostanziale e schiacciante isolamento, il nostro essere ancora più lontani gli uni dagli altri, incapaci di comprenderci, di accettarci, di amarci, finanche di parlarci, ma più in profondità la nostra difficoltà di riconoscerci per quello che siamo, tante coscienze gettate a forza in questa vita estranea e caotica e dolorosa e indifferente che non a caso Fernando Pessoa ebbe ragione di definire, in tempi assolutamente non sospetti, “un viaggio sperimentale fatto involontariamente”, nel quale l’unico esperanto è la lingua della sofferenza e della solitudine, che tutti nostro malgrado conosciamo.

3 Risposte a “"Babel" (Alejandro González Iñárritu, 2006)”

  1. Bellissima recensione, hias! mi sa che hai colto l'essenza del film molto più di quanto abbia fatto io in questa recensione che scrissi anni fa dopo aver visto il film al cinema:

    BABEL (Alejandro Gonzalez Inàrritu, 2006)
     
    Vi sono due modi di rappresentare il dolore al cinema : si può puntare sulla sobrietà, sui silenzi, sulle ellissi oppure tutto il contrario : urla, piani ravvicinati di volti sofferenti al fine di coinvolgere lo spettatore fino in fondo senza dargli un attimo di tregua : questo è il metodo del regista messicano Alejandro Gonzalez Inàrritu, autore assieme al fido sceneggiatore Guillermo Arriaga, di Amores Perros, 21 grammi, e ora di Babel, che potremmo considerare l’ultimo capitolo di una trilogia sul destino beffardo e la sofferenza insita nella condizione umana.
    La struttura narrativa di Babel è la medesima dei due film precedenti : tante storie diverse tenute insieme dalle tragiche coincidenze del Caso e narrate con un montaggio non lineare (anche se qui gli andirivieni temporali sono meno esibiti che in 21 grammi ) che costringe lo spettatore a rimanere incollato alla poltrona, se non altro, per capire dove si andrà a parare.Babel racconta di un fucile venduto da un manager giapponese in vacanza in Marocco, a un pastore del luogo, questo fucile finirà nelle mani di due giovani arabi che, per errore, spareranno a una turista americana là con il marito con cui è in crisi.Il film ci narra, poi dei figli della coppia rimasti negli USA con la tata messicana e di una ragazza giapponese sordomuta (sì, la figlia del manager proprietario del fucile che ha dato il via a tutto) fragile e bisognosa di affetto.
    Che tu sia marocchino, americano, messicano o giapponese, non importa molto dove sei nato : sei vittima di un mondo in cui sembra impossibile comunicare, parlarsi, non solo fra culture diverse (anzi, potrebbe essere persino più facile di quanto sembri se si abbandonasse il male oscuro del Pregiudizio), ma anche fra membri della stessa famiglia o comunità, questo pare essere il messaggio del regista, non che dica molto di nuovo sulla solitudine contemporanea o sull’ottusità della burocrazia, ma lo dice con sincerità e uno stile visionario e barocco che non può lasciare indifferenti.Il filo conduttore del fucile può apparire pretestuoso, ma è decisamente un peccato veniale di fronte a un film di tanta intensità emotiva.

    quentin84

  2. Ritengo opportuno avvertire che la mia recensione potrebbe contenere spoiler (svelamento di snodi importanti della trama) ! Chiedo scusa.

    quentin84

  3. Beh, caro Quentin, direi che i nostri commenti si debbano considerare assolutamente complementari, e quindi è un bene che, adesso, si possano leggere uno accanto all'altro: grazie per aver postato le tue righe.
    Devo ammettere che questo Babel mi è piaciuto molto, e dire che l'ho visto quasi per caso: riesce, con una tensione e un rigore sconosciuti a molte altre opere, a tratteggiare un ritratto molto fedele del mondo nel quale viviamo. Magari una di queste volte ce lo riguardiamo tutti insieme, eh?
    Ciao vecchio mio!

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