Demetrio Stratos e la "voce-musica": un omaggio

“La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla” (Demetrio Stratos, “Diplofonie ed altro”, in “Il piccolo Hans” n. 24, set./dic. 1979)

“Bocca, orifizio, canale attraverso il quale il bambino intona i simulacri. Le membra frammentate, i corpi senza voce; bocca dove si articolano le profondità e le superfici. Bocca da dove esce la voce dell’altro, facendo aleggiare sul bambino gli alti idoli e formando il super-io. Bocca dove le grida si ritagliano in fonemi, morfemi, semantemi: bocca dove la profondità di un corpo orale si separa dal senso incorporale. In questa bocca aperta, in questa voce nutritiva, la genesi del linguaggio, la formazione del senso e la scintilla del pensiero fanno passare le loro serie divergenti” (Gigliola Nocera, “Demetrio Stratos e l’avanguardia dell’inquietante”, intervento, 1989)

“Lo stato delle cose non significa né unità né totalità, ma molteplicità. Nella molteplicità quel che conta non sono i termini o gli elementi, ma ciò che esiste ‘tra’: il ‘tra’, dunque, un insieme di relazioni che sono inseparabili le une dalle altre. Ogni molteplicità cresce dal mezzo, come una foglia d’erba o un rizoma […] o come le linee di Pollock. […] Linee che si biforcano, si uniscono (tra), sono dei ‘divenire’. Si stabiliscono molteplicità dai divenire senza storia, dall’individuazione senza soggetto […]” (Gilles Deleuze, “Dialogues”, New York, Columbia University Press, 1987)

Demetrio StratosParlare di Demetrio Stratos è ancora molto difficile. Cosa è possibile aggiungere, a ormai quasi trent’anni dalla sua morte, che già non sia stato detto, pensato, studiato? A complicare ulteriormente le cose il fatto, non trascurabile, che quella di Stratos non può in alcun modo definirsi “una voce” ma ambisce direttamente al titolo de “la Voce”. Non banalmente, badate bene, una voce migliore delle altre: semplicemente una voce che viene dal prima, che esce direttamente dal passato arcaico di tutti noi, che sembra proiettarsi avanti da un’epoca mitica, “voce piena, che rifiuta qualsiasi ridondanza, esplosione dell’essere in direzione dell’origine perduta, del tempo in cui la voce era senza parola” (Paul Zumthor, “La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale”, Il Mulino, 1984). La voce di Stratos è la mia voce, la tua (parlo proprio con te, che stai leggendo queste righe), la voce di tutti noi. È la voce dell’uomo, che procede da abissi di tempo insondabili. Non può non toccare nel profondo chi ascolta, è una voce che rimette direttamente in collegamento l’umano con una dimensione spazio- temporale altra, una dimensione nella quale la voce torna a farsi “veicolo di orientamento spaziale” (Stratos, “Suonare la Voce”, DVD Edel, 2006); un’esperienza, quella del “cantare la voce”, che permette di tornare ad esperire l’essere e l’esistenza, una voce che torna ad avere un potere ontopoietico, che organizza ed ordina il reale, nominandolo e, per effetto del suo “dar nome” alle cose, conferendogli sostanza (come era in fondo per i cantori nell’antichità greca, leggere la “Teogonia” di Esiodo e provare ad immaginare per credere). Qualcosa di difficilmente fruibile in un mondo come il nostro, attratto dalla velocità, dal disimpegno, spesso dalla banalità più pura e semplice. Iniziare un saggio con una frase come quella riportata in calce a questo scritto, è stato da parte di Stratos un grande atto di coraggio ed una forte presa di posizione. La voce non è affatto sfruttata nella musica odierna, resta sempre Area“costretta” all’interno di convenzioni, “intrappolata” nello stilema del “bel canto”, “bloccata” nell’armonia, nella melodia. I brutti suoni hanno diritto ad essere ascoltati? Suoni primigeni, suoni che provengono dal profondo dell’essere, articolazioni, articolazioni precedenti alla parola. Perdiamo la capacità di usare la voce come puro suono guadagnandone in cambio il linguaggio, quello che già in Monod è riconosciuto come un tratto distintivo fondamentale nell’evoluzione umana (“[…] Ciò che equivale ad ammettere che il linguaggio articolato, al tempo della sua apparizione nella linea evolutiva umana, non solo abbia consentito l’evoluzione culturale, ma abbia anche contribuito in modo decisivo all’evoluzione fisica dell’uomo. Se così è stato,la capacità linguistica che si rivela durante lo sviluppo epigenetico del cervello fa oggi parte delle ‘natura umana’, essa stessa definita in seno al menoma in un linguaggio radicalmente diverso quale è quello del codice genetico. […]”, J. Monod, “Il caso e la necessità”, Mondatori, 1970). Evidente come per Stratos tornare ad una voce pre-linguistica nonSixty- Two Mesostics Re Merce Cunningham significhi affatto tornare alle caverne: significa però cantare tutta una parte dell’animo umano che le parole imbrigliano, celano, trattengono, e cioè il desiderio, il piacere, il dolore, l’estasi, sentimenti che le parole possono appena cogliere, sfiorare, ma che solo la voce-musica riesce compiutamente ad esplicitare, a liberare. Il canto della voce-musica di Stratos è quindi il canto di queste primigenie pulsioni, e per questo è tanto intimo per noi tutti, a tratti tanto disturbante (a tal punto abbiamo dimenticato queste sensazioni e il loro sfrontato esternarsi, fatto questo che portava Stratos a ricordare la famosa espressione di John Cage “è veramente difficile essere liberi”, conscio delle difficoltà con le quali “l’altro”, restio a coinvolgersi in prima persona, poteva approcciare ed accettare una vocalità così lontana dal comune e che ne richiedeva una attiva partecipazione), a tratti così aspro e difficile da spingerci, nella pratica, a saltare una traccia sul disco, a passare oltre, esasperati quanto scioccati. Siamo sempre più assuefatti ad una vocalità meccanizzata, da automi, una voce che risponde solo a stimoli esterni: “l’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche. È ancora molto difficile scuoterlo dal suo processo di mummificazione e trascinarlo fuori da consuetudini espressive privilegiate e istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti” (Stratos, “Metrodora”, note di copertina, 1976). Liberazione della voce-musica, il cui spazio è rubato dalla parola, liberazione dei corpi, liberazione politica. Il canto di Stratos assume le proporzioni di una “liturgia cosmica” (Daniel Charles, “Omaggio a Demetrio Stratos”, 1989), cantare la voce significa rompere le convenzioni, rompere la linearità del tempo, compiere un atto di creazione sito nel presente, restituire al momento presente il suo valore. Curioso il titolo che Stratos volle dare al suo primo lavoro solista, “Metrodora”: è questa una parola greca, composta, che Metrodorasignifica “dono di madre”. La voce come dono di madre, la madre che costituisce per prima lo “specchio” che permette al bambino di riconoscersi, di legittimare la propria esistenza, di sentirsi parte del mondo, terreno. La madre- specchio, lo “specchio sonoro” (che è la musica stessa, la voce-musica, suoni e rumori indistinti per il bambino che aprono “spazi per la memoria”) e Narciso: nella sua splendida monografia “Demetrio Stratos. Alla ricerca della voce-musica”, Janete El Haouli usa proprio questo mito, il mito di Narciso, per restituirci questa idea. La leggenda della ninfa Eco (assimilabile allo “specchio sonoro”) si compenetra fortemente con quella di Narciso (l’atto del bambino di specchiarsi per riconoscere la propria esistenza, lo “specchio narcisistico”): la vocalità di Stratos riesce a fare da raccordo per tutte queste istanze, di modo che “tra le voci si stabilisce un gioco di specchi, e rimaniamo, in quanto esseri che sogniamo di essere soggetti all’ascolto, con la forte sensazione che Demetrio Stratos sia riuscito ad architettare l’immagine di Narciso facendola tornare dall’acqua alla sua retina ed espandendola come le onde prodotte da una pietra lanciata nella superficie liquida, deformata ma tornata ad essere, senza aver perso la propria identità, lago.” (E.P. Caňizal, introduzione a “Demetrio Stratos. Alla ricerca della voce-musica” di J. El Haouli). Stratos riproduce qualcosa di analogo al rumore di fondo che sottende l’intero universo, rapportato ovviamente in scala umana: il sussurro di base, quel rumore che ingenera la prima emozione, una sorta di “emozione embrionale”. Annullandosi come soggetto ed aprendosi alla pluralità (dei sensi, dei sessi, dei suoni, delle voci), la voce-musica di Stratos assurge ad un’espressività indubitabilmente e definitivamente altra rispetto a quella cui siamo abituati, e che pure non può non toccarci, in qualche luogo, se abbiamo la pazienza di ascoltare e stare al gioco, mettendoci in discussione, partecipando a quello che è un vero rito sacrificale. La voce-musica, dono della madre, è solo questo: parla al profondo di ciascuno di noi, ma pretende la nostra apertura (è la parola giusta, pensiamo alla radice os, oris della parola bocca, che so collega direttamente all’idea di origine, apertura) alla multidimensionalità, alla polifonia, al rumore, al brutto suono, tutti banditi dalla nostra cultura uniformante ed alienante. Stratos è un cantore del multiversoCantare la voce nel quale tutti naufraghiamo, la sua voce è la nostra voce, e genera sensazione, apre a spazi, ci orienta spazialmente nel mare magnum del nostro peregrinare inesausto, proprio egli che doppiamente nomade amava definirsi, sia perché nato e venuto a contatto con miriadi di realtà differenti, sia perché “nomade della voce”, continuamente teso alla ricerca, svincolato da ogni “base”, voce “libera da codici” (G. Deleuze). Il corpo di Stratos è stato il suo laboratorio, il luogo nel quale provare con grande coraggio ed onestà tutte queste idee, nel quale liberare il “pensiero servo” dal “linguaggio padrone” (sempre per dirla con Deleuze), unione tra arte e scienza: come conclude la El Haouli, il cantare la voce di Stratos libera lo specchio sonoro, la ninfa Eco, dalla ripetitività cui oggi è sempre più spesso costretta. Tutto questo è stato Stratos, e tutto questo è ancora, per chi voglia farsi condurre sul suo cammino: un cammino difficile perché ci richiede di essere davvero liberi, di scegliere, di saper affrontare con coraggio il ritorno verso noi stessi. Questa è una sorta di Odissea, nella quale alla fine la voce si riappropria di sé stessa e torna a sussistere per sé in un mondo che è sempre più plurale, incarnando tutti gli infiniti molteplici rivoli che animano questo nostro multiverso. Seguire Stratos in questo cammino oppure no dipende dal nostro desiderio di essere liberi, niente di più. Al di là delle questioni meramente tecniche, al di là dell’estensione, dei suoni glottici, delle diplofonie, triplofonie ecc., il canto di Stratos ci parla sempre come se provenisse da una dimensione differente eppure in qualche modo nota, solo “celata”, sia che ascoltiamo “Luglio, Agosto, Settembre (nero)”, sia che ci lanciamo nelle “Criptomelodie infantili” o in “Flautofonie ed Altro”. Una voce capace di altri gradi di espressività, una sensibilità tanto esacerbata da essere in grado di annientare, ma il cui splendore merita un estremo sacrificio.

Link consigliati: Cometa RossaO Tzitziras O Miziras, Educare la voce, Flautofonie, Hommage à Violette Nozières, La Mela di Odessa (1920), L’Elefante Bianco, Luglio, Agosto, Settembre (nero), L’Abbattimento Dello Zeppelin

Siti internet: demetriostratos.it, Thanitart, Rassegna di musica diversa "Omaggio a Demetrio Stratos", Patrizio Fariselli Project, Pagine70

Bibliografia essenziale e riferimenti teorici: Janete El Haouli, "Demetrio Stratos. Alla ricerca della vove-musica", Auditorium, 1999; Gianpaolo Chiriacò, "Area. Musica e Rivoluzione", Stampa Alternativa, 2005; infine, segnalo un interessante pagina da un blog splinder che riporta anche un’analisi di alcuni pezzi cantati da Stratos.

13 Risposte a “Demetrio Stratos e la "voce-musica": un omaggio”

  1. Che meraviglia questo post! Sono felice che tu me l’abbia linkato direttamente nel mio tentativo di analisi che, a posteriori, presenta momenti di basso profilo; è innegabile.

    Il tuo invece lo trovo ispiratissimo.

    Complimenti e grazie ancora. Me lo sono stampato ben bene (come mi sto gustando i link che hai messo, bravo!).

    yours

    MAURO

  2. Eh, quanti complimenti! Grazie davvero, e comunque linkare il tuo scritto è stato un vero piacere, l’ho letto con molto interesse e mi è stato anche utile: considera che non sono un cantante, e dalla mia ho solo la passione per l’opera di questo grandissimo col quale (ahimè) condivido solo il nome… Sono felice che lo scritto ti sia piaciuto (il mio riferimento primo è stato senz’altro il libro di Janete El Haouli), e anche i link. Buona lettura, a presto e grazie ancora davvero per le belle parole!

    Ciao 🙂

  3. significa però cantare tutta una parte dell’animo umano che le parole imbrigliano, celano, trattengono, e cioè il desiderio, il piacere, il dolore, l’estasi, sentimenti che le parole possono appena cogliere, sfiorare, ma che solo la voce-musica riesce compiutamente ad esplicitare, a liberare. Il canto della voce-musica di Stratos è quindi il canto di queste primigenie pulsioni

    anche tricarico nella canzone la pesca sembra voler restituire alle parole la relazione con l’esperienza che le genera e con la sostanza che nominano :-)))

    sì i linguaggi burocratici inventati dalle classi dominanti per fare una coinè di convenienza sono un po’ autoreferenziali e uccidono una quantità sorprendente di sonorità.

    ma le lingue sono come i gatti:

    1. non hanno padroni

    2. sfuggono al controllo (quando meno te l’aspetti)

    3. hanno mille vite

    garderei con fiducia alle potenzialità dimenticate dei nostri vocaboli. ad esempio il francese, che pure è una lingua istituzionalizzata e codificata dal ‘600 (la prima in europa), ha una grande varietà di vocalizzazione, sonorità che si mescolano inseguono annientano a vicenda a seconda di come cambia la morfologia della parola e della frase, tanto che la riga a tratti sembra un pentagramma dove cambi un semitono e rivoluzioni il significato. o perdi di poesia.

    uscire dalla sillabazione propria delle nostre lingue eufoniche e ritmiche, nel senso che si privilegia la regolarità, un’armoniosa alternanza di consonanti e vocali, porta a suoni di incomprensibie raffinatezza come quelli orientali, o cacofonici aspri come quelli delle lingue agglutinanti o semitiche. detto questo ogni sist linguistico ha possibilità limitate: non so se sia coraggio e sperimantalismo abbandanare una scialuppa per salire su un’altra.

    la parola è come un simbolo e non fa che creare corrispondenze attorno a qualcosa che resta indefinito, mi sento di citare una poesia di baudelaire:

    la nature est un temple où de vivants piliers

    laissent parfois sortir de confuses paroles;

    l’homme y passe à travers des forets de symboles

    qui l’observent avec des regards familiers.

    comme de long échos qui de loin se confondent

    dans une ténébreuse et profonde unité,

    vaste comme la nuit et comme la clarté,

    les parfums, le coleurs et les sons se répondent

    il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,

    doux comme les haubois, verts comme les prairies,

    -et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

    ayant l’expansion des choses infinies,

    comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,

    qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

    la natura è un tempio i cui pilastri viventi

    lasciano talvolta uscire parole confuse,

    l’uomo passa attraverso una foresta di simboli

    che l’osservano con sguardi familiari

    come dei lunghi echi che si confondono in lontananza

    in una buia e profonda unità

    vasta come la notte e come la chiarezza

    i profumi, i colori, i suoni si “parlano” (rispondono, corrispondono)

    è il profumo fresco come i capelli dei bambini,

    dolce come gli oboi, verde come le praterie

    -ed altre cose, corrotte, ricche e nel pieno splendore

    che hanno l’estensione delle cose infinite,

    come l’ambra, il muschio e l’incenso,

    che cantano i trasporti dello spirito e dei sensi.

  4. errata corrige:

    primo verso seconda strofa:

    longs in luogo di long

    secondo verso terza strofa:

    prairies, forse meglio prati che praterie anche se entrambi i significati sono possibili..

    secondo verso ultima strofa:

    non ho tradotto benjoin, sul vocabolario ho trovato “benzoino”(??)

    e io sono roberto

    bye bye

  5. @Roberto: innanzitutto ciao e grazie per i tuoi commenti!

    Che posso dirti? Non conosco la canzone di Tricarico, per il quale nutro comunque un’istintiva simpatia: posso solo prometterti che me la procurerò e la ascolterò. Grazie per la dritta! 😉

    Per quanto riguarda il discorso che fai sulla lingua come simbolo, ti assicuro che non era intento mio (nè, presumo, di Stratos) accantonare le lingue parlato col loro elegante e sofisticato intreccio di significati e simbologie per un semplice ritorno all’animalità. E’ evidente come si possa condurre una sperimentazione che cerchi di recuperare una vocalità pre-linguistica con dignità pari a quella con cui si condurrebbe (e probabilmente, in molti casi, si conduce) una ricerca che torni alla “parola” e al suo significato con gli oggetti che vuole descrivere. Io non ho riportato, in questo testo ed in merito alla questione che sollevi, un esempio che può essere molto significativo, e cioè un brano cantato da Stratos con gli Area, intitolato “L’abbattimento dello Zeppelin” (contenuto nel primo album della band italiana, “Arbeit Macht Frei”, datato 1973). Il brano, ovviamente, tratta dell’abbattimento del noto dirigibile: Stratos, nella parte cantata, opera un recupero del significato primigenio delle parole operato attraverso una loro valorizzazione “vocale”. Mi spiego meglio, perchè sono stato a dir poco sibillino: il cantato è un esempio di quello che Chiriacò, nella sua monografia sugli Area da me citata in calce al testo del post come riferimento bibliografico, chiama “recitativo frammentato”. Ci sono svariati esempi di canzoni degli Area arricchite da questo particolare uso del linguaggio vocale (basti pensare, solo per fare un esempio presente anche tra i link in fondo al post, a “La Mela di Odessa (1920)”). In pratica questo stile è caratterizzato dall’uso di registri e suoni fonici grandemente differenti per pronunciare ogni parola del testo, spesso anche ogni lettera, col dichiarato scopo di giungere “alla radice di quel suono umano che è alla base della codificazione alfabetica” (Chiriacò, op.cit.). Indicativa la frase successiva nel testo citato: “il risultato è un effetto di forte suggestione per chi ascolta, reso da una tecnica che, di per sè straniante, riesce a far riemergere legami dimenticati tra elementi linguistici usualmente deputati alla mera conduzione dei messaggi. Ascoltando l’interpretazione di parole come “rumore”, “piombare”, “sgonfiato”, non si può non rimanere colpiti dalla presenza spaziale dei termini, modellati di fiato fino ad ottenere una consistenza fisica e concreta.”

    Con questo, chiaramente, volevo solo indicare come Stratos avesse battuto anche terreni di sperimentazione per così dire “fono-linguistica”. Spero che lo spunto che ho dato possa interessarti per approfondire la conoscenza dell’argomento (oddio, non vorrei offenderti, anche perchè so molto poco di te: quindi, qualora ti avessi offeso, sappi che non l’ho fatto con cattiveria). Aggiungo il link a “L’Abbattimento dello Zeppelin” nella sezione link del post. Dai un’occhiata se ti va, ok?

    Grazie ancora dei commenti, spero vivamente che tornerai a farmi visita!

    Ciao,

    Hias

  6. ma non volevo mettermi in contrapposizione con quanto hai detto di stratos e della sua visione della parola cantata. certo sono un po’ scettico nei confronti di iniziative che tendono a intellettualizzare eccessivamente l’espressione artistica. ma il discorso è interessante e merita di essere approfondito.

    ad esempio la corporeità della vocalizzazione, che altro non è che il risultato della contrazione di muscoli, è un aspetto che si perde davvero molto facilmente, finchè non ci si abitua a pensare che voce e parole costituiscano una categoria a se stante. ma diceva leopardi viviamo col corpo pensiamo col corpo, sì io penso con le mie mani..

    capisco come si possa parlare di recitativo, perchè gli attori imparano a modulare la voce con tutto il corpo, ventre polmoni diaframma gola…

    devo ammettere però che non è facile immaginare l’effetto qui descritto:

    uso di registri e suoni fonici grandemente differenti per pronunciare ogni parola del testo, spesso anche ogni lettera, col dichiarato scopo di giungere “alla radice di quel suono umano che è alla base della codificazione alfabetica”

    come si fa a pronunciare ogni lettera registri e suoni fonici diversi? tecnicamente intendo.. alludi all’enfasi del recitativo che conferisce a ogni parola un significato emotivo diverso una sfumatura particolare? cos’è la radice della codificazione alfabetica per te? io me la raffiguro come la primordiale onomatopea sinestesiaca tra oggetto o fatto o azione e un suono, ma non sono sicuro di aver capito..

  7. ma non volevo mettermi in contrapposizione con quanto hai detto di stratos e della sua visione della parola cantata. certo sono un po’ scettico nei confronti di iniziative che tendono a intellettualizzare eccessivamente l’espressione artistica. ma il discorso è interessante e merita di essere approfondito.

    No, no, avevo capito che non eri in contrapposizione, forse mi sono espresso male: stavo solo rimarcando un paio di questioni, come quella del recitativo, che non avevo affrontato a modo nel mio post, tutto qua. Anch’io come te credo che il discorso meriti approfondimento, per quanto non ci veda un’eccessiva “intellettualizzazione”.

    ad esempio la corporeità della vocalizzazione, che altro non è che il risultato della contrazione di muscoli, è un aspetto che si perde davvero molto facilmente, finchè non ci si abitua a pensare che voce e parole costituiscano una categoria a se stante. ma diceva leopardi viviamo col corpo pensiamo col corpo, sì io penso con le mie mani..

    Concordo sul discorso della corporeità, anche se penso che tu stia semplificando un pò troppo sulla citazione leopardiana 😉

    (senza offesa, sia chiaro)

    capisco come si possa parlare di recitativo, perchè gli attori imparano a modulare la voce con tutto il corpo, ventre polmoni diaframma gola…

    devo ammettere però che non è facile immaginare l’effetto qui descritto:

    uso di registri e suoni fonici grandemente differenti per pronunciare ogni parola del testo, spesso anche ogni lettera, col dichiarato scopo di giungere “alla radice di quel suono umano che è alla base della codificazione alfabetica”

    come si fa a pronunciare ogni lettera registri e suoni fonici diversi? tecnicamente intendo..

    Beh, intanto se provi ad invertire l’ordine delle tue due frasi trovi una prima risposta. Poi, come giustamente scrivi, entra in gioco anche l’enfasi del recitativo che conferisce a ogni parola un significato emotivo diverso una sfumatura particolare. Credo che col discorso dei registri e suoni fonici differenti ci si riferisca alla capacità di leggere il testo “recitando” (in questo caso, visto che parliamo del recitativo) ogni parola, a volte parti di parola, spesso addirittura singole lettere all’interno di una stessa parola facendo uso di “suoni” e “registri” differenti, dal sussurro al grido, ad esempio, qualunque espediente espressivo sia necessario per rendere più chiaro, presente, “fisico” il significato dei termini in oggetto. Se hai ascoltato i due brani che ti ho detto (se non li conoscevi già, ovviamente) puoi farti un’idea di questo: molto meglio sarebbe ascoltare almeno un pezzettino dei “Sixty-Two Mesostics Re Merce Cunningham” di Cage, interpretati dal nostro Demetrio. Purtroppo ora su due piedi non so darti un link, mi dispiace! 🙁

    cos’è la radice della codificazione alfabetica per te? io me la raffiguro come la primordiale onomatopea sinestesiaca tra oggetto o fatto o azione e un suono, ma non sono sicuro di aver capito..

    Perchè no? La tua lettura non è affatto sbagliata, a mio avviso, e credo che Chiriacò si riferisse pressapoco a questo, nello scritto da me citato.

    Spero di essere stato un pò più esaustivo, e ti ringrazio davvero per aver aperto questo piccolo “scambio d’opinioni”, merce sempre più rara (purtroppo) nei nostri giorni frenetici. Aspetto che torni da queste parti, ok?

    Ti faccio, anche se in ritardo, gli auguri di buona pasqua.

    Ciao!

    Hias

  8. @Roberto:

    ad esempio la corporeità della vocalizzazione, che altro non è che il risultato della contrazione di muscoli, è un aspetto che si perde davvero molto facilmente, finchè non ci si abitua a pensare che voce e parole costituiscano una categoria a se stante. ma diceva leopardi viviamo col corpo pensiamo col corpo, sì io penso con le mie mani..

    Concordo sul discorso della corporeità, anche se penso che tu stia semplificando un pò troppo sulla citazione leopardiana 😉

    (senza offesa, sia chiaro)

    No, mi spiego meglio: quello che volevo dire è che considero riduttivo pensare alla vocalità di Stratos come un mero ritorno alla corporeità, o all’animalità. In quest’ottica avevo sentito un pò fuori luogo l’espressione leopardiana (anche se pensandoci meglio mi rendo conto di come magari la mia “semplificazione” non sia del tutto esatta): la riscoperta della radice corporea della voce conduce alla possibilità di esprimere direttamente, “senza filtro”, una gamma di sentimenti mal veicolata dalla parola. Ho detto anche da qualche parte che la voce di Stratos vuole esprimere il “desiderio”, esprimere un sentire profondo, legato ad una dimensione “primigenia”. In qualche modo, mi piace l’idea di Deleuze del “linguaggio padrone” e del “pensiero servo”, perchè rende molto bene l’idea. Poi, ritengo che la liberazione della voce sia anche liberazione del corpo, oltre che liberazione “politica”, e l’ho anche scritto nel testo, magari non soffermandomi su questo dato quanto avrebbe meritato (colpevolmente, lo so, ma lo spazio è poco e il testo già… “sostanzioso” così!). Mi piace chiudere ricordando una cosa che Stratos amava dire, e cioè che nessuno sa bene definire cosa sia la voce, ma questa ha una particolarità che la rende del tutto differente da ogni altro strumento: non si separa mai dal suo proprietario. Quando smetto di cantare, non metto la mia gola, le mie corde vocali, la mia bocca, insomma, la mia voce in custodia e faccio altro. Non parliamo di chitarre, tastiere, sassofoni o quant’altro. Parliamo di qualcosa che non si separa mai da noi, che è legata a noi, che è una parte di noi così poco e così malamente usata. Conoscerla equivale a conoscere qualcosa in più di noi, imparare ad usarla, “liberarla” equivale a liberarci in qualche modo.

    Ora, ho fatto tutta questa puntualizzazione non per essere pedante (e spero di non esser stato eccessivamente fumoso), ma perchè ci tengo a che il dialogo prosegua, trovando questo scambio di idee molto molto fruttuoso.

    Ciao! 🙂

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