Il lungo addio incontra Thomas Pynchon: “Vizio di Forma”, di Paul Thomas Anderson (2014)

“Ai vecchi tempi, Shasta poteva passare settimane senza far niente di più complicato di una smorfietta. Ora gli stava sciorinando davanti una complicata combinazione di segnali facciali che Doc proprio non riusciva a interpretare. Forse roba imparata a scuola di recitazione.”
(Vizio di Forma, Thomas Pynchon, trad. it. Massimo Bocchiola, ed. Einaudi)

Vizio di Forma/PosterC’è una sequenza di Vizio di forma, il nuovo film di Paul Thomas Anderson (già autore di Boogie Nights, Magnolia, Il Petroliere eccetera eccetera eccetera: vi basti sapere che i suoi film hanno la non disprezzabile tendenza ad essere sempre migliore del precedente), che ne sancisce l’abissale distanza, per dirne una, dal film che ha trionfato pochi giorni fa in una cerimonia degli oscar che ha invece, clamorosamente, snobbato l’opera dello stesso Anderson, tratta dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon: si tratta, manco a dirlo, di un piano-sequenza. Birdman, come ricorderete e come abbiamo scritto qui, risulta dalla somma vorticosa di diversi piani-sequenza arrangiati di modo da dare l’impressione di essere un tutt’uno non distinguibile, una lunga, enorme carrellata in cui la camera non si ferma un minuto, come su un ottovolante, con effetto stordente e virtuosistico. Ma il piano-sequenza è anche uno dei marchi di fabbrica dello stile registico di Anderson, e in Vizio di Forma ce n’è uno in particolare, proprio nei primi minuti, che si può a buona ragione definire magistrale e che, in circa centoventi secondi, chiarisce definitivamente come si usa la camera per avvicinare lo spettatore ai personaggi della storia, la più grave mancanza (almeno per chi scrive) del film di Iñárritu. Il protagonista del film, l’investigatore privato hippie Larry “Doc” Sportello (interpretato da un incredibile Joaquin Phoenix), ha appena ricevuto una visita dalla sua ex fidanzata (mai del tutto dimenticata) Shasta Fay Hepworth (Katherine Waterstone): la ragazza ha chiesto l’aiuto di Doc per risolvere una brutta questione nella quale teme di restare incastrata. Non fidandosi a lasciare la casa sulla spiaggia del detective da sola, gli chiede di accompagnarla all’auto. Il piano-sequenza è questo: due minuti magistrali fatti di scambi di (poche) battute e (molti) sguardi, con Doc che si volta ripetutamente indietro a guardare l’auto della donna che ancora ama allontanarsi sulle strade di Los Angeles. Perché Doc è fondamentalmente unVizio di Forma/06 romantico che continua a guardarsi indietro, come chiunque tra noi sia ancora innamorato di una ex fiamma: un personaggio col quale, istantaneamente, si stabilisce un’empatia, anche in virtù della tenerezza con cui la camera di Anderson lo segue fin dai primi minuti, fin da questo piano-sequenza. Un detective che sta a metà strada tra l’indolenza di un Drugo Lebowski e lo status di antieroe superato dagli eventi di un Philip Marlowe preso di peso da Il Lungo Addio di Robert Altman, uno dei padri putativi dello stesso Anderson. Dette queste due parole sul personaggio principale, bisognerebbe spenderne qualcuna anche sulla storia: tratto da una delle ultime opere di Thomas Pynchon in ordine cronologico, Vizio di forma è fondamentalmente un poliziesco hard boiled venato di una comicità profondamente postmoderna. Un giallo, con tanto di sotto-trame che si intrecciano tra loro, omicidi inspiegabili, commistioni al limite della connivenza tra l’autorità costituita e le attività criminali: una storia di corruzione e sullo sfondo il tramonto dell’era della rivoluzione (quella degli hippie, dell’amore libero e universale), colta nel momento in cui stava già scivolando nel buio profondo del reaganismo ormai dietro l’angolo, un’era quest’ultima che ancora oggi è difficile considerare del tutto conclusa. La storia comincia come già accennato: Shasta, ex di Doc, si reca a casa del suo scalcinatissimo vecchio amante per confidargli i suoi sospetti. Pare che la moglie dell’uomo che Shasta frequenta, il ricchissimo imprenditore immobiliare Mickey Wolfmann (interpretato da Eric Roberts), stia imbastendo, d’accordo con il suo attuale amante, un piano per rinchiudere il marito in qualche specie di manicomio; pare anche che i due vogliano coinvolgere la stessa Shasta in questo piano criminoso. Le ragioni per le quali rinchiudere il vecchio imprenditore in manicomio diverranno chiare più avanti nel film: fatto è che Shasta non si sente tranquilla, e chiede l’aiuto del buon vecchio Doc Sportello. Dal momento che non si può dire di no alla donna della quale, sotto sotto, si è ancora perdutamente innamorati, Doc accetta il caso: una decisione infausta, come diventerà chiaro quasi subito. In realtà quello di Wolfmann non è l’unico caso che Doc accetta di seguire: c’è anche un recupero crediti a carico di un misterioso adepto della Fratellanza Ariana, che (puta caso) risulta essere anche tra le guardie del Vizio di Forma/04corpo dello stesso Wolfmann; e c’è il caso di un uomo scomparso nel nulla, un sassofonista dichiarato morto ma il cui cadavere non è in realtà mai stato riconosciuto dalla moglie Hope (Jena Malone), ex tossica convertita ai lavori socialmente utili dopo la nascita della figlia: si tratta di Coy Harlingen (interpretato da Owen Wilson). Puntualmente, tutti questi casi finiscono per sovrapporsi fino a diventare praticamente indistinguibili e evidentemente (anche se non così chiaramente) tutti strettamente correlati tra loro: un elemento che emerge a proposito di uno dei tre casi si riverbera automaticamente anche sugli altri, aprendo la strada all’ingresso nella storia di nuovi personaggi, a nuovi deliranti interrogatori condotti da Doc e a tutta una gamma di situazioni a metà tra il lisergico e il grottesco di cui l’intera storia è disseminata. Tentare una compressione della narrazione in poche righe (che sarebbero inevitabilmente cariche di spoiler) significherebbe tentare di aggiungere ex post un ordine, ovviamente posticcio, a qualcosa che, nel corso dei minuti, tende piuttosto verso l’entropia e il caos: la caratteristica principale della storia, infatti, è quella di procedere al contrario di un giallo consueto, verso un anti-climax che nega lo scioglimento nell’accumulo di nuove situazioni aperte, che continuano a suggerire nuovi orizzonti senza chiudere in alcun modo il cerchio degli eventi. A differenza di una qualunque, normale narrazione “gialla”, in Vizio di forma l’accumulo di elementi funzionali alla storia non si risolve in una loro sintesi, ma piuttosto in una complessiva divergenza che allarga a dismisura il ventaglio delle possibilità senza fornire alcuna soluzione. Alla fine Doc non deve fare (quasi) niente: risolve i casi mettendo assieme le sue intuizioni e le sue paranoie (che annota religiosamente su un blocchetto durante le sue conversazioni con clienti, sospettati et similia), ma nel complesso il quadro generale, per quanto chiaramente intuibile, risulta fosco e confuso, e la sensazione dominante nello spettatore è quella di un mondo talmente saturo di corruzione da non poterla più nemmeno razionalmente discernere da ciò che, invece, corruzione nonVizio di Forma/05 è (ancora). La vicenda di Doc è arricchita da un’intera galleria di personaggi eccezionali: il nemico-amico Christian “Bigfoot” Bjornsen (un favoloso Josh  Brolin), poliziotto tutto d’un pezzo che odia visceralmente la contro-cultura hippie, di cui considera Doc l’epitome e la summa più disprezzabile, e che non vedrebbe male Sportello dietro le sbarre, tentando disperatamente, nell’ordine, di incriminarlo di un assassinio giusto per toglierselo dai piedi, di sfruttarlo ripetutamente come esca, e infine di sfondargli (finalmente) la porta di casa a calci; Sauncho Smilax (Benicio del Toro), “avvocato” di Doc, esperto in diritto navale, che dà al nostro alcune dritte molto utili alla risoluzione del caso; la nuova fidanzata Penny Kimball (Reese Witherspoon), assistente procuratore che nasconde una segreta dipendenza dalla marijuana, terreno sul quale, manco a dirlo, trova una convinta sponda da parte di Doc; Sortilège (Joanna Newsom), un personaggio a metà strada tra il reale e l’onirico, voce narrante del film, uno dei due “angeli” che accompagnano il percorso di Doc (l’altro è, chiaramente, Shasta), e che attraversa le oltre due ore di proiezione come un vero e proprio spettro, diafano e incorporeo anche nelle sequenze in cui appare fisicamente vicina al protagonista. L’elenco dovrebbe continuare, a includere tutta una serie di sotto vicende e i loro protagonisti, tutti collegati nell’unico grande mistero che sembra celarsi dietro la storia. Ma, alla fine, la linearità del racconto (di fatto assente) non ha alcuna importanza: la volontà di Pynchon prima, e Anderson poi, è semplicemente quella di mettere in scena un’epoca storica che sembra lontana anni luce e invece risale giusto a una quarantina d’anni fa, gli Stati Uniti del Flower Power, la rivoluzione gioiosa della contro-cultura hippie, colta (con tutte le sue contraddizioni) giusto un momento prima di essere spazzata via dalla restaurazione. Vizio di forma si popola quindi di immagini e temi che ricreano la California degli ultimi anni sessanta/primi anni settanta nel suo caleidoscopio di colori, immagini e suoni, con un’attenzione al dettaglio quasi impressionante: ma più che il dato tangibile, conta la capacità di ricreare un’atmosfera. La realtà cui Vizio di Forma/03si chiede di aderire allo spettatore è quella di un uomo in costante botta da fumo: Doc ondeggia qua e là, sciamando in preda a visioni oniriche (la stessa Sortilège), paranoie pervasive, fissazioni dolorose, romanticismi fuori tempo massimo, e lo spettatore pian piano accetta il suo punto di vista, lo fa proprio e inizia a vedere il mondo raccontato nel film con gli stessi occhi del suo protagonista, in una mimesi che diviene presto totale. Man mano che la trama procede, piuttosto che dall’indeterminatezza all’ordine (o quanto meno alla sua comprensione), verso il caos più totale, l’iperrealismo di questo mondo ricreato alla perfezione trasfigura in una surrealismo che non è comunque nuovo nelle opere di Anderson (si pensi alla pioggia di rane che concludeva Magnolia): così può capitare che la voce off descriva le azioni di Doc come se avvenissero durante la notte ma queste stesse siano ambientate nel pieno della giornata, col sole altissimo in cielo; è surreale la sequenza in cui Doc si libera di Adrian Prussia (un killer assoldato dall’autorità per i “lavoretti sporchi”) e Puck Beaverton (altro membro della fratellanza ariana caratterizzato da un “elegante” tatuaggio a guisa di croce uncinata sul lato destro del volto), due cupi individui coinvolti in tutti e tre i casi del nostro detective privato, con una sparatoria violentissima e inattesa, visto che fino a quel momento alcun colpo era stato esploso per tutta la durata del film, soltanto per uscire fuori dallo stabile e trovare Bigfoot Bjornsen che riempie il bagaglio dell’auto del nostro hippie con una ventina di chili di cocaina allo scopo di usarlo, come forse era sempre stata sua intenzione, come esca: surreale perché, paradossalmente, quest’esplosione di violenza rompe all’improvviso il tono a metà strada tra il lisergico e il comico che il film aveva mantenuto fino a quel momento. Ma la lista potrebbe continuare: gli ultimi minuti del film risultano da un accumulo di situazioni estreme di questo genere, che lasciano intuire lo sviluppo della vicenda senza però confluire, come già detto, in un suo scioglimento in senso classico. Doc èVizio di Forma/02 un romantico, in fondo: accetta il suo ruolo di esca solo per dare a Coy Harlingen, sfortunata spia al soldo dei federali, da loro costretta a lasciare i propri cari fingendosi morto per poter proseguire il suo lavoro da infiltrato, l’occasione di riunirsi alla sua famiglia, e ristabilire quei legami che da sempre (anche in maniera disfunzionale) costituiscono uno dei principali interessi di tutto il cinema di Paul Thomas Anderson (Boogie Nights, Magnolia, The Master, e via dicendo: tutti film che parlano, in un senso o nell’altro, di “famiglia” o comunque di “comunità”). Forse, rispetto alle opere precedenti di Anderson, manca un po’ di quella coralità che rendeva film come Magnolia dei grandi affreschi americani, in pieno stile Altman: va da sé che, come detto, Vizio di forma privilegia il punto di vista del suo protagonista. Pur tuttavia, quest’opera ricostruisce un’epoca che proprio in un diverso senso di “comunità” aveva costruito una larga fetta della sua ragion d’essere: un’epoca in cui, per dirla con le parole di qualcun altro, “si sognava al plurale”. Ed è proprio questo il grande tema sotteso all’intero lavoro: perché la cultura ufficiale, l’ordine costituito, non è mai stato realmente penetrato dall’ideale rivoluzionario? Agli occhi di noi giovani (o presunti tali) e meno giovani del 2015, certe battaglie ideali possono apparire un po’ naif: il movimento pacifista, la protesta contro il Vietnam, i figli dei fiori, l’amore libero. Pur tuttavia, non si dovrebbe dimenticare che si è trattato di un movimento che poggiava su basi ideali completamente antitetiche rispetto a quelle su cui per almeno un paio di centinaia di anni si erano retti il progresso economico e lo strapotere politico degli USA: la persona piuttosto che il denaro, la comunità piuttosto che il successo economico e professionale, la pace piuttosto che la guerra. Ma una parte sempre più ampia della cosiddetta controcultura si era ormai smarrita in un simil “si purgatoriavano il torace notte dopo notte con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti, alcol e cazzo e balle-sballi senza fine” di ginsbergiana memoria, e la comunità, come ci mostra molto bene il film, diveniva sempre più spesso facilmente identificabile in una comunità di recupero; e tutto questo mentre la restaurazione faceva il suo corso: la fratellanza ariana, il mercato internazionale della droga, la destra che torna al potere, una stagione che avrebbe condotto da Nixon a Reagan e, si può ben dire, da Reagan a oggi, una stagione che (purtroppo) ancora non ha trovato la sua conclusione. Ci deve essere stato un vizio di forma, un difetto intrinseco in quella rivoluzione, che non le ha permesso di attecchire sul serio e l’ha condotta a spegnersi nel riflesso deforme di se stessa. Vizio di Forma indaga tutto questo, e lo fa con il rispetto e l’ammirazione palesi di Anderson per l’opera di Pynchon, che lo spingono ad essere addirittura filologico in molte parti della narrazione; lo fa con un uso sapiente della fotografia, sfruttando pellicola scaduta che conferisce alle immagini la grana e il colore delle vecchie polaroid impolverate; lo fa col ricorso ad una colonna sonora, scritta al solito da Jonny Greenwood, che, accanto al recupero di brani di quegli anni (su tutti, i Can), propone lunghe suite a tratti anche un po’ à la Radiohead, che conferiscono alla memoria evocata nelle immagini un tono ora dolente ora claustrofobico, vivo e doloroso, e non Vizio di Forma/01semplicemente nostalgico e pre-confezionato; e lo fa infine rispettando l’andamento rapsodico della scrittura pynchoniana, accumulando entropia lungo la narrazione per lasciarla esplodere nei suoi infiniti rivoli, la cui comparsa è affidata un po’ a un meccanismo simile a quella tavoletta Ouija che i protagonisti usano nel film, in una delle rievocazioni del passato di Doc e Shasta, per comporre il numero di telefono di qualcuno che possa rifornirli di roba. Ecco, Paul Thomas Anderson fa in realtà la stessa cosa che tanti oggi sembrano avere fame di riuscire a fare attraverso i film: parlare di un paese, gli Stati Uniti d’America. Ma lo fa con una delicatezza e un’eleganza che, a dispetto della stramberia della vicenda, lo allontanano anni luce dal cinema odierno, per lo più fatto di fantasmagorie che tengano lo spettatore inchiodato alla sedia a bocca spalancata e i cui autori hanno spesso una tale foga di farti capire cosa pensino, quale sia la loro idea sul mondo, il proprio paese, il proprio lavoro, l’ambiente in cui vivono, la vita, l’universo e tutto il resto da risultare piattamente e prevedibilmente didascalici. Che si può dire? Pynchon è uno scrittore imprevedibile, e questo film è allo stesso modo imprevedibile: attraverso una comicità grottesca e a tratti stralunata, attraverso la riproposizione di un gusto comico che non si può definire altrimenti che postmoderno (e sono eccezionali gli attori, tutti auto-ironici e incredibilmente impegnati nel tentare di prendere sul serio il copione, di modo da non risultare macchiette ma personaggi reali, a tutto tondo, che di quella comicità siano protagonisti in prima persona e non vittime: tutti favolosamente bravi), ma anche attraverso fugaci e abbacinanti esplosioni di violenza, che rompono l’andamento onirico della vicenda, Vizio di forma restituisce l’immagine viva di un tempo che fu e si configura forse come quel capolavoro vero che agli oscar quest’anno è mancato perché, adesso è palese, rimosso, dimenticato, messo da parte. L’immagine viva di un tempo che fu: una polaroid invecchiata che ti spinge meravigliosamente a interrogarti su cosa, di quella lontana stagione, sia ancora vivo dentro tutti noi.

Una risposta a “Il lungo addio incontra Thomas Pynchon: “Vizio di Forma”, di Paul Thomas Anderson (2014)”

  1. non ho visto il film ma la tua recensione mette voglia.
    Che Anderson sia uno dei pochi eredi della New Hollywood? Mi viene in mente che anche in Boogie Nights c’era il passaggio dalla contro-cultura anni ’70 al conservatorismo degli anni 80 (letto attraverso la lente del mondo del cinema a luci rosse)

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