"Il Rap Spiegato Ai Bianchi", D. F. Wallace e M. Costello

Dovrei forse premettere che non amo il rap, che non conosco nessun rapper di nome Schoolly D., che non avevo mai sentito parlare dei Public Enemy, degli N.W.A., nemmeno dei De La Soul (e alcuni di questi fatico ancora ad inquadrarli). Dovrei fare una lunga serie di premesse, probabilmente, e dire che ho preso questo libro solo in quanto adoro David Foster Wallace, sapendo già che non avrei avuto da pentirmene a dedicare un po’ del mio tempo alla lettura di qualcosa di suo. Dovrei premettere che mi interessano profondamente, per una qualche inclinazione presente nel mio animo, non so in quale altro modo spiegarmelo, i discorsi realmente “critici” sui fenomeni artistici, che sanno “contestualizzare” e “decontestualizzare”, quand’è necessario, che conservano acume e brillantezza nell’esposizione, che sanno spingersi oltre la superficie: bisogna considerare che quando Wallace e Costello hanno pubblicato questo saggio, ormai quasi vent’anni fa, non esisteva ancora un approccio critico (nel senso nobile del termine) al fenomeno della nuova musica nera, il rap, e a tutta la cultura che si portava dietro. Wallace e Costello hanno pensato bene, da profani “molto informati” dei fatti, da fan, da persone che (inspiegabilmente, per due bianchi che non esitano a definirsi “medi”) si trovano ad essere attratte da queste sonorità in maniera assolutamente irresistibile, Wallace e Costello, dicevo, hanno pensato bene di scrivere qualcosa di critico sull’argomento, di sviscerare il tema, di approfondirlo, di capire cosa c’è dietro, quali scenari si sarebbero sviluppati, le direzioni possibili e le loro cause, i “moventi”. Superando lo stereotipo della violenza, della cultura gangsta, della droga, i due riescono ad arrivare al reale disagio sociale del quale i rapper si sono fatti agli albori del genere portavoce nei confronti della propria comunità, musica orgogliosamente nera fatta da neri per i neri, musica ermeticamente chiusa che vive sul paradosso del “campionamento”, metodologia aperta per eccellenza, e soprattutto si nutre e propaganda quegli stessi valori che il consumismo americano ha saputo imporre alla popolazione bianca di “consumatori consumati” e anche a tutte le minoranze, a tal punto da far apparire inspiegabile l’accanimento dell’epoca contro persone che cantano (o per meglio dire “rappano”) quella stessa mimesi del successo e dell’affermazione personale col denaro e l’ostentazione della ricchezza che è stato in qualche modo il marchio di fabbrica degli anni ’80 in occidente. Questo perché il rapper, che parla alla sua comunità, al suo luogo di appartenenza e a nome di questo lo fa consapevolmente sfruttando quelle possibilità che la società in cui (non) è inserito gli offre, misurandosi sulla scala di valori che questa società gli ha imposto negli anni, e lo fa usando tutto quello che ha ormai a disposizione, “dischi altrui”: da qui l’estetica del campionamento, resa possibile dall’avvento delle tecnologie digitali che ancora oggi permettono a tutti noi di improvvisare studi di registrazione nelle nostre soffitte e nelle nostre cantine, contemporaneamente qualcosa di più che citazione e riappropriazione (che io non me la sento di definire indebita) di matrici culturali che originariamente a questa stessa cultura nera appartenevano (pensiamo al celeberrimo giro di “Kashmir” dei Led Zeppelin, campionato decine e decine di volte dai rapper… e pensiamo ai Led Zeppelin, e alle loro ascendenze blues, e domandiamoci quindi da dove potesse venire quella serie di accordi, torniamo indietro su questa strada e cosa troviamo? Risposta: i campi di cotone); da qui le basi elettroniche banali ed ossessive; da qui le ritmiche perfettamente scandite delle liriche, vero elemento di rottura con tutto quello che ha preceduto questa forma d’arte. Da qui un genere, un modo di fare musica, un attitudine che diventa ben presto atteggiamento, quando, ricoperti di verdoni, i nostri continuano a vivere nel paradosso di comporre musica “povera” con l’uso delle più costose tecnologie e delle più ampie possibilità, negando ed affermando insieme la matrice di questa forma d’espressione. Il saggio di Wallace e Costello inquadra alla perfezione tutto un movimento, quello che gli autori definiscono “un’avanguardia, la sola vera avanguardia della musica pop negli anni ‘80”, fornendo interessanti e mai banali spunti di riflessione. Poi, certo, come Wallace stesso scrive, “se state leggendo queste pagine in un libro stampato, ciò che abbiamo scritto è già vecchio”: manca tutto quello che è successo dopo, il prepotente ingresso del Mercato, le case discografiche, la massificazione del fenomeno, ovvero, mi verrebbe da dire nel solito modo un po’ naif, tutto ciò che può svuotare di senso anche la più gravida delle proposte culturali. Non so cosa pensare del rap, in tutta onestà, non mi fa impazzire: posso dire però che la lettura di questo saggio, magnificamente scritto, un vero e proprio “saggio d’avanguardia”, come la musica che si proponeva di inquadrare in un’ottica finalmente critica, mi ha fatto tornare oggi in mente Marcuse, e mi ritrovo a cercare di misurare “l’efficienza” di una certa società (la nostra) nella misura in cui questa è capace di assorbire l’anomalia dentro di sé. Direi che ci siamo riusciti. Direi che il “contrasto” è stato appianato, che la stridente differenza che rendeva pericolosa (e, per gli autori, “pericolosamente attraente”) questa musica è stata definitivamente standardizzata. Io personalmente, oggi, non mi spavento molto quando vedo un tizio con un tombino appeso al collo che parla sopra una base di drum machine: ma cosa accadeva negli States repubblicani di Reagan prima e Bush poi, nel pieno della cultura yuppie degli anni ’80? Se volete saperlo, non vi resta che leggere questo saggio. Ah, e senza preconcetti: non necessariamente quello che non conosci (o che non vuoi conoscere) finirà per ucciderti.

“La cazzuta genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del suo mondo – tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violento nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita . ha trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte d’avanguardia. Va persa la consolazione, ma si guadagna un nuovo tipo di mimesi, ruvida e spietata: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del cesso.”

Qui trovate un’altra recensione (forse migliore della mia!) e qui una piccola antologia dal saggio, un passaggio scritto da Wallace. Buona lettura

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