In memoria di David Foster Wallace (12/09/2008-12/09/2013)

David Foster Wallace

Sono trascorsi ormai cinque anni dal suicidio di David Foster Wallace. Si può definire “amica” una persona della quale non si conosce altro che la parola scritta? I racconti, i romanzi, i saggi e i reportage giornalistici declinati in uno stile tutto personale? Mi sembra assolutamente ovvio considerare David Foster Wallace un mio amico, per quanto non lo abbia mai conosciuto di persona. Certi pensieri e certe esternazioni sembrano terribilmente ridicole in tempi come questi. Ti fanno sembrare gentile, e questi non sono tempi per la gentilezza. Ma continuo a sperare, dato che la speranza è una cosa buona e forse addirittura la migliore delle cose, continuo a sperare, dicevo, che il tempo sia per sempre gentile con chi ha avuto un dono tanto grande e ha scoperto, dolorosamente, che non era sufficiente a garantirgli la felicità.

Bene, e siamo arrivati a quanto ti avevo promesso facendoti un riassunto noiosissimo di quello che c’è voluto per arrivarci senza perdere la fiducia. Cioè com’è morire, che cosa succede. Giusto? È quello che vogliono sapere tutti. Anche tu, dammi retta. Che ti decida ad andare sino in fondo o meno, che io ti dissuada in qualche modo come pensi che cercherò di fare o meno. Intanto, non è come si pensa. La verità è che sai già com’è. Conosci già la differenza tra l’ammontare e la velocità di tutto quello che ti balena dentro e quella parte infinitesimale e inadeguata che riusciresti a comunicare. Come se dentro di te ci fosse questa enorme stanza piena si direbbe di tutto quello che prima o poi è presente nell’universo e invece le uniche parti che ne emergono devono in qualche modo essere spremute attraverso uno di quei piccolissimi buchi della serratura che si vedono sotto il pomello delle vecchie porte. Come se cercassimo di vederci fra di noi attraverso quei minuscoli buchi. Ma un pomello ce l’ha, la porta si può aprire. Ma non nel modo che pensi tu. E anche se ci riuscissi? Pensaci un attimo: e se tutti i mondi infinitamente densi e mutevoli dentro di te ogni istante della tua vita a questo punto si rivelassero in qualche modo completamente aperti ed esprimibili dopo, dopo la morte di quello che ritieni essere te, e se dopo questo momento ciascun istante fosse in sé un mare o uno spazio o un tratto di tempo infinito in cui esprimerlo o comunicarlo, senza neanche il bisogno di una lingua organizzata, e ti bastasse come si suol dire aprire la porta e trovarti nella stanza di chiunque altro in tutte le tue multiformi forme e idee e sfaccettature? Perché stammi a sentire – non abbiamo molto tempo, qui è dove Lily Cache Road declina dolcemente e le scarpate si fanno scoscese, e s’intravede la sagoma dell’insegna spenta del punto vendita di prodotti naturali ormai chiuso, l’ultima insegna prima del ponte – perciò stammi a sentire: tu con precisione che cosa pensi di essere? I milioni e i bilioni di pensieri, ricordi, giustapposizioni – anche i più folli, come questo, penserai – che ti balenano nella mente e scompaiono? Una loro somma o rimanenza? La tua storia? Lo sai da quanto ti vado dicendo che sono un impostore? Ricordi che stavi guardando l’orologio RESPICE FINEM appeso allo specchietto retrovisore che segnava le 9.17? E cosa stai guardando adesso? Coincidenza? E se il tempo non fosse passato? La verità è che questo tu l’hai già sentito. Che le cose stanno così. Che è questo a fare spazio per l’universo dentro di te, tutti gli infiniti frattali di collegamento ripiegati su se stessi e le armonie di voci diverse, le infinità che non puoi mai mostrare a un’altra anima. E tu pensi che faccia di te un impostore, quella minima frazione che agli altri è dato scorgere? Certo, sei un impostore, certo, quello che gli altri vedono non sei mai tu. E tu certo lo sai, e tu certo cercherai di manovrare quella parte che vedono se sai che è solo una parte. Chi non lo farebbe? Si chiama libero arbitrio, caro il mio Sherlock. Ma ecco al tempo stesso perché fa così bene crollare e mettersi a piangere davanti agli altri, o a ridere, o a parlare strane lingue, o a salmodiare in bengali – non si tratta più di una lingua, né di spremersi per passare attraverso un buco.
Perciò piangi pure quanto ti pare, non lo dirò a nessuno.
Ma cambiare idea non avrebbe fatto di te un impostore. Sarebbe triste farlo perché sei convinto di doverlo fare.
Però non soffrirai. Sarà rumoroso, e proverai delle cose, ma ti attraverseranno così velocemente che non ti renderai nemmeno conto di averle provate (un po’ come il paradosso che sbattevo in faccia a Gustafson: si può essere un impostore senza esserne consapevoli?) E il brevissimo momento di fuoco che sentirai sarà quasi bello, come quando hai le mani fredde e c’è un fuoco e tu le protendi verso la fiamma.
La realtà è che morire non è brutto, ma dura per sempre. E per sempre non rientra nel tempo. Lo so che sembra una contraddizione, o magari un gioco di parole. In realtà si tratta, a ben vedere, di una questione di prospettiva.

(David Foster Wallace, da “Caro Vecchio Neon”, dalla raccolta “Oblio”)

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