La cognizione del dolore: “Mia Madre”, di Nanni Moretti (2015)

Mia Madre/poster A quattro anni circa da Habemus Papam giunge l’ultima fatica cinematografica di Nanni Moretti, Mia Madre, dodicesima della sua carriera, e presentata in concorso a Cannes nella “folta” truppa italiana, che comprende anche i nuovi film di Matteo Garrone (Il Racconto dei Racconti) e Paolo Sorrentino (Youth, per il quale personalmente nutro un po’ più di curiosità rispetto all’altro). Chissà, magari l’opera di Moretti porterà a casa qualche premio: al momento in cui scrivo, non se ne sa ancora niente. Come mi capita sempre più di sovente, ho beccato questo film al volo e un po’ per caso, complice la sua riproposizione nelle sale a più di un mese dalla data di uscita ufficiale (16 Aprile): ed ecco spiegata la ragione del forte ritardo nella pubblicazione di questo piccolo commento/recensione. Mia Madre, dunque: di cosa parli il film è ormai noto. Margherita (interpretata da un’ottima Margherita Buy, in una delle sue interpretazioni forse più convincenti) è una regista cinematografica, chiaramente alter-ego femminile di Moretti stesso, impegnata sul set di un film incentrato sulla crisi e sugli operai che perdono il lavoro e lottano per la propria dignità, un film che per sua ammissione dovrebbe essere “positivo, ottimista”, quindi lontano anni luce dal cinema tipico del regista romano. La vita di Mia Madre/5Margherita, però, è completamente sottosopra: divorziata, con una figlia che zoppica al liceo classico e si trova nella fase complicata dell’adolescenza, i suoi rapporti con gli uomini sono ai minimi storici, la sua capacità di controllo sul lavoro è ridotta al lumicino e, soprattutto, la madre Ada (un’eccezionale Giulia Lazzarini), gravemente malata, si trova in ospedale, bisognosa di accudimento e ormai prossima alla morte. Intorno alla storia di Margherita, che è ovviamente specchio fedele della storia personale del regista (ma, anche, qualcosa in più), si incastonano i personaggi del fratello Giovanni (interpretato dallo stesso Moretti), ingegnere, unico punto di riferimento per la protagonista soprattutto per quel che riguarda la gestione emotiva della situazione della madre, della già menzionata figlia Livia (Beatrice Mancini), dell’attore americano Barry Huggins (interpretato da un fantastico John Turturro, cui sono affidati i momenti più divertenti ma anche più rivelatori dell’intero film), incapace di ricordare le battute e che getta scompiglio sul set già disastrato di Margherita, e soprattutto della madre Ada, una figura carica di tenerezza e calma, colta lungo la pellicola nel suo composto (e ovviamente doloroso) scivolare via. Perché alla fine di questo tratta il film: l’assenza. Come si rappresenta l’assenza? Come ci si distacca da chi oggi è qui ma presto, domani, non lo sarà più? Cosa resterà dei libri della madre, insegnante di liceo, che ne sarà di Lucrezio e Tacito? Con uno stile asciutto e nitido, lontano anni luce da quella retorica che egli stesso ammette di odiare Mia Madre/3in una delle sequenza del film, Moretti costruisce una narrazione delicata sulla presenza dell’assenza, e lo fa mantenendo un equilibrio che oserei definire invidiabile, senza nulla concedere a false consolazioni o, appunto, a slanci di facile retorica. Soprattutto, lo fa rompendo almeno un suo schema, tanto per citare una frase che lo stesso Giovanni/Nanni ripete a Margherita in una delle numerose sequenze oniriche che incontriamo lungo il film, quella che raffigura un’enorme fila di persone in attesa di entrare al cinema Capranichetta per assistere alla proiezione de Il Cielo Sopra Berlino di Wim Wenders (scena che ha un fondo di verità, visto che il film di Wenders uscì davvero al Capranichetta nel 1987, in esclusiva per mesi, come si può leggere qui), sulle note di Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen, tra le quali troviamo la madre stessa, il fratello Giovanni, Margherita da giovane: nell’ammissione dell’incapacità di comprendere pienamente il Reale, quella facoltà che tutti gli riconoscono e pretendono da lei/lui, Margherita/Nanni riesce nell’impresa di decentrare la storia, cambiarne il fuoco, per così dire, per mirare alla Storia, e il film scivola lentamente dal dolore particolare a quello universale, un dolore che si percepisce ancora come fortemente personale (perché pur sempre di autobiografia si tratta) ma che in realtà riguarda tutti noi, quello della separazione da una madre. In pratica, in qualche modo, il film mette in atto l’auspicio che più volte Margherita rivolge ai suoi attori: che sappiano mettere l’attore accanto al personaggio. Ed ecco Nanni che incita Margherita, il suo alter-ego, a superare i suoi schemi, a guardare in faccia alla realtà, ad affrontarla, e l’attore e il personaggio sono magicamente l’una al fianco dell’altro, due facce dello stesso “figlio”. Il cinema si configura quindi come il luogo della Mia Madre/1finzione che dà riparo dalla realtà del mondo, nel quale affermare, come da titolo del film che Margherita sta girando, che Noi siamo qui, anche se non ci siamo davvero (o non ci vogliamo essere: mi vengono in mente quelle sequenze in cui Margherita lamenta di non volere che gli spettatori vengano spaventati dal film, o sconvolti, come se il film non dovesse essere vero, ma solo una proiezione del reale, che non induca le persone a volgere lo sguardo altrove); la realtà, che fa capolino nel mezzo delle riprese e del resto della vita, compresi i sogni, è qualcosa di molto diverso, qualcosa per la quale non è vergognoso ammettere di essere impreparati, come chiunque altro. Così sembra venire meno anche l’idea che il Cinema possa riflettere in maniera impeccabile la Realtà, sovrapponendosi ad essa e descrivendola in modo infallibile: di fronte alla pervasività del dolore, alla realtà dell’assenza, il potere del Regista che “ha sempre ragione”, come Moretti stesso suggerisce a Turturro/Barry nella scena della cena a casa della madre, quel potere che dovrebbe essere infinito, il potere di ordinare, conferire senso, scegliere e stabilire, diviene così misero, così inefficace da suscitare un sorriso amaro. Il film di Margherita, Mia Madre/4come la sua stessa vita, è completamente fuori controllo: l’arrivo di Barry, istrionico quanto confusionario attore hollywoodiano, simpatico contaballe che ama ricordare i suoi trascorsi cinematografici con Kubrick e, nel delirio di una serata alcolica, tenta di convincere Margherita a girare un film tagliato su misura per lui, un poliziesco che di originale non sembra avere nulla, imperniato su mille diversi punti di vista, non fa che complicare ulteriormente le cose. Barry non ricorda le battute, ha una pronuncia a dir poco discutibile e spinge Margherita sull’orlo della crisi di nervi: ma non è che un catalizzatore, l’elemento che, alla fine, spinge l’insieme a deflagrare. “Back to reality!”, urla Barry al culmine del suo rapporto conflittuale con Margherita: “voglio tornare alla Realtà”. E Margherita non è in grado di governare la situazione, perché non è pronta ad affrontare tutte le cose che stanno andando male nella sua vita, e il suo Cinema diviene lo specchio fedele di una Realtà ormai incontrollabile. L’unico appiglio è il fratello Giovanni, che sembra in qualche modo rappresentare il lato razionale del “figlio”, l’unico in grado di affrontare (almeno apparentemente) con ragionevolezza e senso della realtà la situazione che lui e la sorella stanno vivendo: una madre che è ancora viva, ma già condannata, e sta morendo. “Mamma sta morendo” è la frase che Giovanni riesce a dire a Margherita: dobbiamo essere pronti, accettarlo. Ma non si può essere pronti, ed è lo stesso Giovanni ad ammetterlo, poco prima che si compia la scelta di riportare la madre a casa perché possa trascorrere serenamente gli ultimi giorni: anche lui, come la sorella, non capisce più niente. Dietro la razionalità, dietro la ragionevolezza, incontriamoMia Madre/2 ancora la paura, la sensazione inesprimibile di perdita, il timore dell’inadeguatezza. Perché l’orizzonte fornito dalla madre non è solo, banalmente, quello dell’affetto più sincero: è un baluardo di sicurezza, costruito sulla ragionevolezza, sulla disponibilità al dialogo, su una brillantezza di pensiero che, con le unghie e con i denti, l’anziana malata tenta di mantenere fino all’ultimo (aiutando la nipote Livia a recuperare il ritardo scolastico col latino, tenendo preciso computo della lista di medicinali che deve assumere durante il giorno, nonostante i momenti di scarsa lucidità comincino ad aumentare). L’eredità della madre è un’eredità di Vita: l’assenza, dapprima solo prefigurata (penso alla visione onirica ma più vera del vero dell’appartamento materno svuotato, i libri raccolti in scatoloni), diviene vera durante una notte, quando il ritorno alla realtà si compie definitivamente e il distacco, dapprima negato da Margherita (che non accetta di “profanare” la casa dell’anziana madre quando è costretta a trasferirvisi a causa dell’allagamento del proprio appartamento, dovuto a una lavatrice malfunzionante, negandosi inizialmente di dormire nella camera da letto materna o riprendendo la figlia, che dopo una doccia aveva indossato l’accappatoio della nonna), inevitabile. Eppure quella frattura era avvenuta già prima, quando la madre, pur con l’aiuto della figlia, non era riuscita a coprire la distanza tra il letto d’ospedale e il bagno: tre passi che sono troppi per il fisico gravemente debilitato dell’anziana donna. Margherita inveisce contro la madre prima di chiederne il perdono tra le lacrime, ma in realtà sta inveendo contro se stessa: e questo perché non c’è niente che possa fare per aiutare l’amata figura materna. “La verità è che morire non è brutto”, scriveva David Foster Wallace in Caro Vecchio Neon, “ma dura per sempre. E per sempre non rientra nel tempo”: l’assenza diventa reale, incarnata, e non c’è consolazione alcuna, né retorica né tantomeno ultraterrena, mentre i piani narrativi si mescolano, il confine tra realtà e finzione diviene labile, e la semplice (per quanto dolorosa) vicenda autobiografica presentata e analizzata da Moretti trasfigura in qualcosa di più generale, di collettivo, oserei dire quasi universale, pur facendolo con una leggerezza e un rispetto che rendono questo film un oggetto prezioso, sincero, potente. Cosa resta dunque della madre? A cosa conduce questa morettiana elaborazione del lutto? Resta quell’eredità di Vita di cui parlavo prima: l’aiuto dato ai figli, che sono genitori a loro volta; l’aiuto dato alla nipote; l’immagine proiettata nella vita delle persone conosciute negli anni, nelle vite degli allievi che visitano la professoressa dopo la morte e raccontano ciò che ricordano del loro importante incontro con questa Mia Madre/6anziana signora che non c’è più, una persona che è la madre di Margherita/Giovanni/Nanni ma anche, in qualche modo, di tanti altri, e per tutti qualcosa di leggermente diverso. Il cammino di un’intera vita, al termine della quale il risultato finale è un po’ superiore rispetto alla somma delle parti che lo costituiscono. Alla fine il percorso si compie nel rapido volgere di uno sguardo: dal primo piano iniziale di Margherita, gli occhi carichi di aspettativa, a quello finale, in cui le pupille sono ancora velate dal pianto. Il più grande mistero è che gli altri se ne vanno, e qualcuno invece resta qui, ancora per un po’: quegli occhi ora vedono un po’ meglio o un po’ peggio? Il vuoto non potrà mai essere colmato, ma forse non ha importanza: non tutti gli spazi vuoti sono fatti per essere riempiti da qualcosa, o forse solo da una consapevolezza nuova di ciò che si è, della nostra vita, di ciò che rappresenta o ha rappresentato per noi e per gli altri. In fondo, esiste solo questo momento, il precedente è già sfiorito e il prossimo ancora una pallida immagine molto di là dal concretizzarsi. Però, mentre cedevo un po’ alla commozione nel finale tesissimo e meravigliosamente asciutto dell’opera (ecco il miracolo dell’equilibrio di cui parlavo all’inizio, che non cede alla sguaiatezza sciatta del sentimentalismo scialbo e di facciata per raccontare piuttosto della reale emozione), mi tornava in mente una frase che ho letto o sentito da qualche parte, proferita forse da Woody Allen e che diceva più o meno “il futuro mi interessa molto, perché conto di trascorrerci la maggior parte della mia vita”. “A cosa stai pensando, mamma?” “A domani”.

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