Per il pane, le rose e un sacco di altre buone ragioni: “Pride”, di Matthew Warchus (2014)

Pride/07Breve (ma necessaria) premessa: io ho un cuore tenero. Lo ammetto candidamente perché ritengo che, per chi condivide con me questa condizione, sia meglio essere preparato a quello che lo aspetta: questo film riserva diversi momenti di commozione pura, di trasporto emotivo molto forte. E badate bene, non si tratta di retorica, o sentimentalismo usa e getta: si tratta di reale empatia, che si stabilisce coi personaggi e le loro storie solo quando, nelle Arti, essi sono ben caratterizzati, tridimensionali, e queste ultime reali, vibranti. In un giro di parole: è certo che la Vita non si possa trovare nell’Arte, non per intero, almeno; ma capita, ogni tanto, di trovarne brandelli che sono quasi più veri del vero, e l’effetto è quasi sempre straniante. La premessa era necessaria, e spero che me la perdonerete, visto che in realtà qui si dovrebbe parlare del film: Pride, opera del regista e drammaturgo inglese Matthew Warchus, presentata a Cannes (edizione 2014) nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, e vincitrice della Queer Palm; un film che, come non manca di ricordare un cartellone che precede i titoli di testa, potete vedere nei vostri cinema solo grazie a un circuito di distribuzione totalmente indipendente. Negli ultimi post ho spesso parlato di film che sono come occasioni da cogliere al volo, prima che le esigenze della programmazione li spazzino via: ecco, Pride è un’altra di queste occasioni, forse addirittura (qui mi sbilancio) la piùPride/02 grossa. Le vicende narrate nel film sono note: tutto si incentra sul lunghissimo sciopero dei minatori inglesi (durato 51 settimane tra il marzo del 1984 e il marzo del 1985), conseguente alla decisione del governo Thatcher di chiudere una ventina di pozzi nell’intero paese, brillante idea che avrebbe causato la perdita di qualcosa come 20000 posti di lavoro e la condanna a morte per intere comunità, sorte e sviluppatesi attorno all’estrazione del carbone e che, nel corso degli anni, sono venute identificandosi con quella stessa attività lavorativa. Un dramma sociale di proporzioni inimmaginabili, come si può solamente intuire: una macelleria sociale, questa sì, innalzata sull’altare del neoliberismo sfrenato, quella stessa ideologia che considera l’uomo come merce e il profitto come unica religione. Un po’ quell’ideologia stigmatizzata dagli Area in un vecchio, meraviglioso brano di troppi anni fa: l’estetica del lavoro/ è lo spettacolo/ della merce/ umana. In tutto questo, la Union (il sindacato, in altre parole) dei minatori proclama uno sciopero di proporzioni mai viste: l’obiettivo è la difesa del diritto ad un lavoro, a vivere dignitosamente, a poter sfamare se stessi e le proprie famiglie. Tuttavia, il governo Thatcher reagisce col pugno di ferro alle agitazioni: schiera le forze dell’ordine, favorendo la più classiche delle guerre tra poveri, mentre il vitello grasso del neoliberismo continua ad ingrassare col sangue dei morti (se ne contarono, alla fine degli scioperi, tre), dei numerosi feriti, delle numerosissime persone incarcerate senza motivo. Uno stato di polizia che reprime l’opposizione nel sangue: fin qui, il tema centrale di Pride non è nuovo, visto che il periodo buio (io lo considero tale, e spero di non essere rimasto uno dei pochi) del thatcherismo in Inghilterra è stato uno degli assi portanti di molta, grande cinematografia inglese (e non solo) degli anni ’80, da Ken Loach (ricorderò Riff Raff), a Grazie, Signora Thatcher, solo per citarne un paio. Quello in cui Pride si differenzia è nello scegliere di raccontare una storia collaterale: il sostegno che a questi minatori arriva dal gruppo piùPride/05 improbabile che possiate immaginare, ovvero una manciata di omosessuali di Londra che intuiscono come la battaglia dei minatori per la propria dignità non sia affatto dissimile da quella che essi stessi sono stati (e sono spesso tuttora) costretti a combattere ogni giorno. Mark Ashton e Mike Jackson fondano quindi questo gruppo di supporto, denominato Gay e Lesbiche Sostengono i Minatori (G.L.S.M.) e, circondandosi di pochi altri volontari iniziano a raccogliere fondi che consentano ai minatori il sostentamento economico e l’organizzazione delle proprie iniziative di protesta. Tuttavia, la vita per il gruppo G.L.S.M. è tutt’altro che facile: si devono infatti vincere le resistenze non soltanto della comunità gay, in tutt’altre tristi faccende affaccendate (ma ci tornerò su tra un momento), ma anche degli stessi minatori, una comunità chiusa e preoccupata che una tale solidarietà possa gettare discredito e scherno sul movimento tutto. G.L.S.M. è un gruppo molto piccolo: ci sono Mark Ashton (Ben Schnetzer), da sempre impegnato in politica; Mike Jackson (Joseph Gilgun); poi Jonathan Blake (Dominik West), un attore in declino, il secondo paziente inglese cui sia stato diagnosticato il virus dell’HIV, come scopriremo verso la fine; il suo compagno, Gethin Roberts (Andrew Scott), gallese fuggito dall’ambiente familiare retrivo e che non è mai riuscito a recuperare il rapporto con la madre, e ora gestisce una libreria gay (Gay’s the Word) a Londra che offre base operativa all’intero gruppo; c’è Steph Chambers (Faye Marsay), la sola lesbica del gruppo, specialmente dopo lo scisma delle Lesbiche Sostengono i Minatori (una delle parti più tristemente esilaranti della storia, le infinite divisioni della protesta raccontate con il sorriso); e c’è infine il giovanissimo JoePride/04 Copper (George McKay), soprannominato Bromley (dal nome del quartiere in cui vive con la bigottissima famiglia, Bromley, appunto), appena vent’anni, uno dei pochi personaggi totalmente inventati che popolano il film, la cui vicenda, attraverso la scoperta della propria omosessualità, le esperienze col gruppo G.L.S.M., e infine, dopo un coming out non voluto, la scelta di andarsene da casa, fa da trait d’union per l’intera vicenda narrata, un collante che tiene assieme la Storia (le proteste, l’incontro tra G.L.S.M. e minatori) con le varie Storie (i rapporti tra i vari attivisti, il movimento Gay e Lesbiche, le contraddizioni della protesta, lo spettro, che inizia a farsi concreto, dell’AIDS). Perché Pride è un film che rievoca una storia di grande impegno sociale, ma è anche, in qualche modo, un buon, vecchio Bildungsroman: attraverso il contatto tra G.L.S.M. e l’unico gruppo di minatori che accetta il loro supporto (all’inizio un po’ per caso, si pensi alla sequenza in cui la cara vecchietta risponde al telefono, all’ennesimo tentativo fatto da Mark e soci, e accetta il sostegno del gruppo senza probabilmente capire di cosa si tratti; ma, una volta compresa la concretezza dell’azione del G.L.S.M., con sempre maggior convinzione), Pride racconta una storia di autentica condivisione, di sostegno reciproco, di amicizia e coraggio, tutte cose che, nel tempo, cambiano i protagonisti, li trasformano, li rendono migliori. Dati i numerosi due di picche raccolti attraverso i canali ufficiali delle unioni sindacali dei minatori, che con un po’ di conservatorismo residuo non ci pensano nemmeno ad accettare la solidarietà di un gruppetto tanto scomodo, alla fine i nostri, come accennato poco fa, entrano in contatto diretto con la comunità mineraria di Onllwyn, nel Galles del sud, poco più che un piccolo villaggio la cui unica ragion d’essere è proprio l’estrazione del carbone. Ci vuole poco a convincere Dai Donovan (Paddi Considine), uno deiPride/01 leader della protesta, della bontà di questa alleanza: assai più arduo è il lavoro che occorre, come già accennato, per vincere le varie resistenze nelle due comunità. Nonostante alcuni detrattori nel consiglio sindacale di Onllwyn (che, ciechi alla realtà dei fatti, faranno di tutto per boicottare questa unione solidale, arroccati dietro il pregiudizio e la paura della diversità), il contributo entusiasta di Sian James (Jessica Gunning), Hefina Headon (Imelda Staunton) e Cliff (il solito, mitico Bill Nighy) permette al gruppo di Mark Ashton e alla piccola comunità di stringere una bizzarra, impensabile alleanza: si moltiplicano gli scambi tra i due gruppi (le visite degli uni a Onllwyn, e degli altri a Londra), e le iniziative di solidarietà, che vanno dalla semplice raccolta fondi fatta in strada, armati di secchielli colorati, fino all’organizzazione di un concerto (cui parteciperà il gruppo synth pop britannico dei Bronski Beat), un evento aperto a tutti attraverso il quale riuscire a raccogliere una forte somma di denaro che consenta ai minatori una riorganizzazione della protesta e il soddisfacimento dei più elementari bisogni. Attraverso gli occhi dei giovani del G.L.S.M. entriamo così in contatto con la dura realtà delle politiche neoliberiste del governo Thatcher, che minacciano un’intera, piccola cittadina: Onllwyn diviene progressivamente un luogo spettrale, il freddo inverno di sciopero mette a dura prova l’intera popolazione, le pressioni e i ricatti della politica iniziano a far vacillare gli scioperanti lungo tutto il paese. Un ricatto codardo, al quale purtroppo è maledettamente difficile (quando non materialmente impossibile) sottrarsi. Non voglio raccontarvi tutto il film, a differenza di quanto mi capita di fare solitamente: preferisco che certe cose le vediate al cinema, le scopriate poco a poco. Cercherò quindi di non raccontare la trama per filo e per segno, ma di sottolineare il messaggio di fondo di questa storia: la diversità arricchisce. Per usare una frase che Dai Donovan pronuncia nel film, durante un intervento nel locale gay frequentato dai giovani del G.LS.M., “Quando fai una battaglia contro un nemico tanto più forte, tanto più grande di te, scoprire di avere un amico di cui non conoscevi l’esistenza è la più bella sensazione del mondo”. In fondo si tratta solo di questo: orgoglio, dignità. Una stretta di mano, che significa sostenersi a vicenda, condividere un’idea, un proposito, e la battaglia per realizzarla. La condivisione arricchisce a tanti livelli: le anziane (e meno anziane) signore di uno sperduto paese di minatori del Galles scoprono tutto un mondo di cui ignoravano l’esistenza; un ragazzo cresce e accumula esperienze che gli consentiranno di divenire se stesso, un se stesso di cui essere fiero; giovani minatori supereranno il loro astratto machismo per imparare a ballare, e riuscire a entrare in contattoPride/06 con l’altro sesso; qualcuno imparerà ad amarsi un po’ di più, qualcuno a chiedere scusa, e qualcun altro seguirà il consiglio, si iscriverà all’università per mettere a frutto tutto il suo cervello (e il suo grande cuore) e divenire, nel 2005, il primo membro donna del Parlamento nella circoscrizione di Swansea Est. Tutti quanti cambieranno: anche le istituzioni, come il Sindacato Nazionale dei Minatori, che in risposta al grande supporto giunto dalla comunità gay e lesbica nei giorni dello sciopero, marcerà a fianco degli omosessuali in numerosi Gay Pride nell’anno 1985. Pride parla di tutto questo, di come la condivisione, la solidarietà, la battaglia per la dignità possano cambiarci tutti quanti in meglio: lo fa affrontando mille temi, oltre a quello del lavoro, quali la piaga dell’AIDS, ai tempi agli albori, il coming out, la repressione della propria natura in una società fondata sulla violenza nei confronti del diverso; ancora, la violenza omofoba vera e propria, le contraddizioni delle battaglie sindacali e per i diritti civili, e l’elenco potrebbe continuare. Pride parla di tutto questo, e lo fa con una leggerezza fuori dal comune: e commuove, come dicevo all’inizio, nel coro con cui i minatori intonano, nel loro centro sociale, le parole di Bread and Roses; o nelle sequenze finali della marcia del Gay Pride di Londra, nella quale alle immagini dei protagonisti si sovrappongono poche righe che ne svelano le sorti. Alla fine lo sciopero si chiuse dopo quasi un anno, e le politiche neoliberiste della Thatcher ebbero probabilmente la meglio: in fondo, esse hanno plasmato anche buona parte del mondo in cui ci tocca vivere, che peggiora ogni giorno. Probabilmente la solidarietà, la lotta per la dignità, questo ideale di condivisione di cui Pride ci parla, sono sentimenti che appartengono a un tempo passato: perché mai dovrebbero interessarvi? Già, perché. Io la vedo così: perché è bello scoprire di avere amici di cui ignoravi l’esistenza, come dice Dai Donovan; perché vogliamo il pane, ma anche le rose; perché ci sono battaglie che vale la pena combattere, anche se pensi di non avere speranze. Ce ne sono milioni anche ai nostri giorni: a me piacerebbe avere il coraggio dimostrato dai protagonisti di questa storia. Anche se sono uscito dal cinema col magone, e forse con l’accenno di una lacrima, penso che potrei essere un essere umano migliore: di più, che vorrei esserlo. Ecco, Pride mi fa sperare di poterlo essere: di certo, mi spinge a volerlo essere. E, ne sono certo, farà lo stesso effetto anche a voi.

2 Risposte a “Per il pane, le rose e un sacco di altre buone ragioni: “Pride”, di Matthew Warchus (2014)”

  1. Cavolo questa recensione fa commuovere anche me che non ho visto il film (ma vorrei vederlo, spero di recuperarlo in DVD) e politicamente non so più come definirmi. Complimenti, bellissimo articolo

    Solo un appunto: Grazie signora Thatcher non è diretto da Ken Loach

  2. Grazie Paolo!
    E chi è che sa come definirsi, ormai?
    Quanto a “Grazie, Signora Thatcher”, forse dalla recensione non si capisce ma non intendevo dire che era diretto da Ken Loach: stavo soltanto citando un paio di film a tema, uno di Loach e uno no. 😉

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