My very “best of 2015” in music: Parte Due

Parte due di tre: perché questo résumé di fine anno non sarebbe che parziale senza ricordare anche tutto il resto, tutta l’altra musica, quella magari vecchia, dimenticata o riscoperta, quella incontrata in ritardo (al solito) e anche quella che c’è sempre stata e a volte ritorna. E quindi, eccoci qua con questa nuova, breve (mah…) lista in rigoroso disordine sparso.

Records of the Great Highway, ovvero: i dischi che ho consumato lungo l’autostrada

Sì, perché dovete sapere che chi ha la sventura di lavorare in un campus universitario malamente servito dai mezzi pubblici (una frase piena di eufemismi, almeno da “sventura” in giù) praticamente riesce ad ascoltare musica solo nei tragitti in auto da casa a lavoro e viceversa. Non che il tempo non sia sufficiente, anzi: e, ovviamente, ci sono dischi che consumi più di altri. Devo aggiungerli alla lista del 2015 perché altrimenti non darei che un’immagine incompleta della faccenda. Ergo, i dischi elencati di seguito integrano i precedenti nel mio gradimento di quest’anno. A questa premessa dovete aggiungere che sempre la persona ringraziata per Jamie XX è la stessa che mi ha introdotto, nella seconda metà di quest’anno, alla scoperta di una roba chiamata Spotify: lo so, lo so che i più svegli tra voi la usavano già due-tre anni fa, ma cercate di capire, io sto ancora in botta per essermi accorto che e-Mule non funziona più, sinceramente cosa potevate aspettarvi? Comunque mi sono accorto che Spotify mi ha permesso di conoscere una quantità di musica incalcolabile, così da poterla successivamente scaricare via torrent e, in casi molto selezionati, comprarne il supporto fisico (cercate di capire, di nuovo: ho uno stipendio da dottorando): ri-grazie alla stessa persona di prima, pertanto.

NeilHalstead_PalindromeHunchesPalindrome Hunches (Neil Halstead)

Dunque, i dischi. Al primissimo posto delle scoperte in ritardo sta un disco incredibile del quale non sospettavo minimamente l’esistenza prima di vedere il suo autore in concerto insieme a Mark Kozelek nello scorso Giugno e di sognarmelo, poco dopo, mentre era intento a fregarmi la fidanzata (sigh) e farmi cacciare da un ristorante buonissimo (sigh al quadrato) il tutto nel ridottissimo spazio della stessa fase R.E.M.: trattasi di Neil Halstead (già noto dai tempi degli Slowdive) e del meraviglioso Palindrome Hunches, undici gemme incastonate in un autentico gioiello musicale. L’idea è semplice, quasi ridotta all’osso: una chitarra, una splendida voce, qualche arco a puntellare il tutto. Il risultato, invece, è un disco di una sincerità dolente e cristallina, malinconico e dolcissimo. Cito a casaccio qualche pezzo immancabile: la desolata malinconia di Digging Shelter, la struggente Spin the Bottle, la favolosa Love is a Beast (if love is a beast, I would set it free/but it won’t change my failings, and it won’t change me) e la tenera ballad che dà il titolo all’intero album, Palindrome Hunches (porca puttana YouTube ha fatto sparire il video!), appunto, oltre alla divertita e trascinante Hey Daydreamer (una specie di stramberia, dato il contesto musicale: un fantasie impromptu indimenticabile). Cos’altro dire? Se avessi scritto un disco come Palindrome Hunches, non mi stupirei certo di essere in grado di fregare le fidanzate al prossimo! Quindi, caro Neil, stai tranquillo: per quello ti perdono, mentre per avermi fatto cacciare dal ristorante no, mi dispiace.

FKATwigs_LP1LP 1 (FKA Twigs)

Il primo dei tre dischi che mi sono comprato a Berlino (e che ha accompagnato numerosi viaggi in auto verso il lavoro) è invece LP1 di FKA Twigs, la prima prova sulla lunga distanza di questa cantante che forse molti conosceranno in quanto sentimentalmente legata a Robert Pattinson: va da sé che c’è dell’altro, altrimenti non staremmo qui a parlarne. Quello che veramente stupisce, lungo i 40 minuti di questo disco, è la disseminazione di piccole e geniali idee ritmiche e melodiche: la voce di FKA Twigs, eterea e molto particolare, sembra a tratti arrampicarsi su un profilo scosceso di beat e piccoli glitch, una tempesta di riverberi e droni, intervallata da galattici vuoti strumentali. Si va dal beat rallentato della geniale Lights On (vi lascio un link a un’esibizione live, via, tanto per), con un abbozzo di walking bass nel ritornello, al gating cosmico di Two Weeks, che si fregia di una di quelle melodie che non si dimenticano, oltre che di bordate di una drum machine ipnotica nei ritornelli; dal lento (soggetto a improvvise accelerazioni) di Video Girl al mantra ipnotico e downtempo di Closer; dall’orgia di echi di Kicks (vi rimando allo stesso live di prima) all’autentico capolavoro del disco, la desertica e atmosferica bellezza di Pendulum, caricata di percussioni, di glitch, di pieni di volume e vuoti improvvisi. La sensazione è quella di stare sospesi a testa in giù su un abisso di profondità incalcolabile: se poi c’è anche QUEL ritornello (che poi a ben guardare forse non è nemmeno un ritornello, non lo so che diavolo sia, ma è qualcosa di abbacinante), che altro si può desiderare?

BonIver_BonIverBon Iver, Bon Iver (Bon Iver)

Un’altra di quelle cose che ho conosciuto con colpevole ritardo, verso la fine del 2014, è Bon Iver: quest’anno mi sono ascoltato svariate volte il suo secondo disco, Bon Iver, Bon Iver (o solo Bon Iver? Non c’ho capito una mazza), che inizialmente avevo un po’ sottovalutato nel confronto col leggendario debutto di For Emma, Forever Ago. Inutile dire che mi sbagliavo: d’altronde, la mia tendenza a cocenti fallimenti in termini artistici è ormai ben nota. Justin Vernon ha definito questo lavoro di 10 tracce un disco di viaggio: non a caso, tutte le canzoni riportano nel titolo un’indicazione geografica (o geologica). Ma sarebbe riduttivo immaginare Bon Iver, Bon Iver (ho appena deciso che lo chiamerò così) come una semplice colonna sonora di viaggi in auto (ecco, non fate come me che lo ascolto mentre vado al lavoro in autostrada): ovviamente queste dieci tracce rappresentano anche un’ideale percorso metaforico, per così dire esistenziale, dalla nascita di Perth (notare l’assonanza con il termine Birth) alla morte di Beth/Rest. Questo per dire che il viaggio non avviene solo nella dimensione spaziale, ma in tutte quelle esperibili. Ed è un piacere esperire le bordate distorte di Perth al pari dei delicati intrecci di arpeggi di Holocene; le irresistibili melodie del folk atmosferico di Michicant e i rintocchi del piano di Wash.; le progressioni percussive trascinanti di Calgary come la chiosa struggente di Beth/Rest. Bon Iver, Bon Iver si giova, rispetto al suo predecessore, di un sound d’insieme che è quello di una vera band, e non di un singolo strumentista: un suono completo, complesso e stratificato. Insomma, ho capito che Skinny Love è pazzesca e piace pure a me, ma c’è dell’altro ed è altrettanto valido.

Le discografie

Ah, un’altra cosa che ho fatto durante l’anno è stata consumare le discografie di Sun Kil Moon, Low, Einstürzende Neubauten e Nick Cave and the Bad Seeds, principalmente per prepararmi ai live di cui vi parlerò nel terzo e ultimo post della serie (mi riferisco ai primi tre nomi che ho fatto): giusto il tempo di (ri)scoprire il mio amore incondizionato per album come Admiral Fell Promises (del solito Mark Kozelek: You Are My Sun basta a farmi piangere come un vitello per una settimana), The Great Destroyer (quando il terzetto di Duluth ti inanella quattro pezzi come On the edge of, Cue the strings, Step e When I Go deaf che gli vuoi dire?), Tabula Rasa (la sequenza Die Interimsliebenden, Zebulon, Blume, 12305te Nacht basta da sola a farne un capolavoro) e The Good Son (ma che pezzo incredibile è The Weeping Song?), solo per fare quattro nomi ed essere molto, moooolto riduttivi. Nei link che vi ho messo sui titoli (ove presenti: per gli EN niente da fare, sia maledetto nei secoli dei secoli il copyright) trovate delle playlist YouTube con l’intero album da ascoltare.

Spotify e altri miracoli

E poi c’è Spotify: saltiamo i convenevoli, e diciamo subito che è grazie a questo mezzo se ho incrociato la mia strada, nell’ordine, con Modest Mousetameimpala_lonerism (This is a long drive for someone with nothing to think about, e in particolare le splendide Dramamine e Might: prima di Spotify, credevo che questa band esistesse solo in Tiny Cities, disco di cover dei Sun Kil Moon. Non immaginate quanto sia bello scoprire di essere degli ignorantoni, a volte!), Tame Impala (Lonerism, che disco: impossibile scegliere un titolo, ma forse potreste cominciare da Music to Walk Home By, magistrale nella sua orchestrazione, Feels like we only go backwards, o Be Above it, o ancora la potenza devastante di Elephant. Anzi, visto che mi hanno regalato il vinile, vado ad ascoltarmelo…) e Elliott Smith (e Either/Or e ovviamente Between the bars, tanto per dirne una, e grazie per il consiglio).
Moderat_iiPoi ci sono stati i
Moderat, e il loro secondo disco II: Bad Kingdom, Let in the Light, Therapy e Damage Done sono solo alcuni dei brani che dovreste proprio ascoltare, se ancora non lo avete fatto, ma mi raccomando, ad altissimo volume. Mi permetto anche di dire che la collaborazione tra Modeselektor e Apparat mi risulta anche più convincente dei due progetti presi separatamente, con buona pace di Thom Yorke che considera i primi come il proprio gruppo preferito.
DamienRice_0

Chiudiamo il (troppo breve) capitolo “Spotify” e passiamo alla voce “Miracoli”. Qui c’è 0, di Damien Rice: diciamo soltanto che The Blower’s Daughter, ascoltata nel sole di Luglio, ha assunto tutto un altro sapore, e che Older Chests è la canzone perfetta per un addio (Just pass me by, I’ll be fine, Just give me time). Ma insomma, Damien Rice lo conoscete tutti: e può darsi che, partendo dai crescendo di Delicate e da ballad come Cannonball, vi venga la voglia di scoprire anche ciò che viene dopo, e quindi ascoltare 9 e poi My Favourite Faded Fantasy. Ecco, fatelo, autostrada o no.
KingsOfConvenience_RiotOnAnEmptyStreetChiudo con un gruppo che ascoltavo tanti anni fa e che avevo dimenticato: trattasi dei
Kings of Convenience. In particolare, mi riferisco all’album Riot on an empty street, disco che acquistai nel lontano agosto 2004 e che ho dimenticato sullo scaffale fino a un paio di mesi fa, quando per un brevissimo lasso di tempo prese vita una fantasticheria relativa all’eventualità di presenziare al loro concerto di Bologna di fine Novembre scorso. Non se ne fece di nulla, poi (causa biglietti polverizzati in tipo trenta secondi), e quindi di quella serata (come di molte altre) non è rimasta che una teorizzazione imperfetta e ipotetica, quasi “la possibilità di un’isola”, per dirla con un autore che oggi piace molto. Ma, in fondo, i due ragazzotti norvegesi avevano già capito tutto: The air is like a knife cutting through you/ A room in the house is always warm/ Stretched out on the bathroomfloor, thinking,/ of fair days your future may hold.

L’appuntamento è per domani con l’ultimo capitolo di questa trilogia dello scassamento di palle verboso di fine 2015: si parlerà di musica dal vivo. Riuscirò a rendere noioso anche questo argomento? Meno di 24 ore e lo saprete. (Continua…)

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