My very “best of 2015” in music: Parte Tre

E veniamo, per concludere con questa odissea, al resoconto semiserio di tre live cui ho avuto la fortuna di partecipare quest’anno. Avrei potuto includere nel conto anche tutta una serie di altre esibizioni dal vivo che ho incrociato qua e là nel mio (scarso) vagabondaggio a giro per lo stivale e non solo, ma tant’è. Meglio non cercare di apparire uno che fa un sacco di cose quando non è affatto vero che le fai. Comunque, intitolerò quest’ultimo capitolo

Tre live che non avrei potuto mancare per nessuna ragione al mondo.

che è un titolo abbastanza pretenzioso da soddisfare il mio ego sconclusionato e ultra-sensibile. Beh, forse è meglio se comincio.

Sun Kil Moon live @ Cortile del Castello Estense, Ferrara (7 Giugno 2015)

5 cose che ho imparato da questa serata con Mark Kozelek:

1. Certi posti sembrano essere nati apposta per ospitare certi eventi. Il cortile del Castello Estense di Ferrara, piccolo e raccolto, sembra perfetto per accogliere la musica dei Sun Kil Moon e il loro pubblico, alcune centinaia di persone; il silenzio degli astanti e le note meravigliose dei brani; le parole di Kozelek, e gli applausi della gente. Non avrei potuto immaginare location migliore per la mia prima volta ad un concerto di Mark Kozelek: sono stato fortunato.
2. Se nel 2015 finalmente qualcuno consiglia caldamente al pubblico di non scattare immagini o girare video di fronte ai propri musicisti preferiti, può ancora succederti il miracolo: può capitare di riuscire a godersi una serata di musica. Come ho letto da qualche altra parte, si dimostra che è possibile esistere senza apparire: senza Capitan Video di sorta (per chi si fosse perso le precedenti puntate, leggasi qui e qui), gli occhi e le orecchie sono rivolti soltanto al palco e si ricrea una sorta di magia dell’incontro, una sospensione del tempo. Ebbene sì, si ascolta la musica, si assaporano le parole, si gustano i suoni; le immagini della serata, non più rubate dagli scatti degli smartphone, tablet, macchine fotografie e varie ed eventuali, si stampano sulla retina e non impressionano banalmente la pellicola, vengono per restare. La dimostrazione che si può godere dell’espressione artistica anche senza comunicarlo in tempo reale su Foursquare o Twitter o Facebook.
3. Anche le rockstar possono avere mal di testa; anche le rockstar possono non trarre alcun giovamento dal Tylenol; anche alle rockstar può capitare di chiedere i medicinali per il mal di testa e vedersi recapitare un asciugamano per il sudore: non sempre la gestualità (con tanto di suoni onomatopeici) è sufficiente a comunicare con noi italiani…
4. Per un americano è praticamente impossibile pronunciare correttamente la parola Ferrara: dirà più che altro qualcosa come Frrrharha.
5. Era la prima volta che mi guardavo un concerto dalla prima fila, appoggiato alle transenne. Per lunghi tratti stavo dritto davanti a Mark Kozelek, quando suonava la chitarra. Complice quanto detto al punto 2, per quel che mi riguarda si è creata una sorta di sintonia, di collegamento: non ho staccato gli occhi dal palco per due ore. Un rapimento mistico e sensuale, per dirla con il Maestro: cose che possono ancora capitare, a quanto pare.
6. Avere l’albergo a cento metri dal luogo del concerto, di fronte al castello Estense, è perfetto per tamponare la stanchezza di fine serata, solo ti fa pensare che te lo saresti potuto godere (il concerto, intendo) anche semplicemente affacciandoti alla finestra: ma questo contraddice la bellezza del punto 5, quindi fate finta che il mio io pantofolaio non sia mai emerso con questa cazzata e lasciamo stare.

Poi, ovviamente, c’è la musica. Due ore di concerto con una band sempre all’altezza della situazione (ahimè, lo ammetto: avendo deciso di astenermi dalla tecnologia per l’intera serata [beh, quasi del tutto… la foto di Instagram di poco fa lo testimonia], non ho annotato né una scaletta esatta né tantomeno i nomi dei musicisti. Fine della digressione in forma di excusatio non petita), e un ospite d’eccezione: Neil Halstead, voce e chitarra degli Slowdive (si veda la seconda puntata di questo resoconto del 2015), leggendaria band di punta dello shoegaze anni ’90. Uno spettatore un po’ più malizioso potrebbe a questo punto lagnarsi di aver beccato proprio l’unico concerto della serie in cui dietro la batteria non sedesse il signor Steve Shelley, noto ai più per aver suonato con i Sonic Youth, ma francamente il batterista che accompagnava Kozelek (del quale, come da precedente digressione, non ricordo assolutamente il nome) non mi è parso affatto male e poi, insomma, se c’è un tema che Universal Themes affronta al pari del consueto connubio morte/vita (consueto per Kozelek, intendo) questo è la gratitudine, e io ho deciso di cercare di essere grato per la bella serata e lasciar perdere le recriminazioni. Ad Halstead sono affidati i cori e la seconda voce, oltre alle raffinate coloriture di chitarra che conferiscono ai brani un sapore unico: l’uso sapiente degli effetti, accompagnato da una sensibilità armonica e melodica disarmante, contribuiscono a fare di questa manciata di canzoni (alla fine saranno 14, encore compreso) un piccolo capolavoro di abbacinante eleganza. Quindi, le canzoni: come detto, niente Google Keep e niente scaletta. Vado a braccio: sono 4 brani dall’ultimo Universal Themes (Little Rascals, The Possum, Ali/Spinks 2, This is my first day and I’m an indian and I work at a gas station), 6 da Benji (Carissa, I can’t live without my mother’s love, Dogs, I watched the film the Song Remains the same, Richard Ramirez died today of natural causes e Micheline), 2 dall’album Mark Kozelek & Desertshore, registrato appunto coi Deserthsore (Mariette, Hey You Bastards I’m still here) e infine, precisi precisi per il bis, 2 brani tratti da Perils from the Sea, l’album registrato con Jimmy LaValle (Caroline e Ceiling Gazing). Una scaletta abbastanza classica e un peccato per alcune belle canzoni del passato, che avrei avuto davvero piacere di ascoltare dal vivo, ma insomma, di carne al fuoco ce n’era tanta e a un certo punto bisogna anche accontentarsi. Gratitudine, no recriminazioni. E comunque cantare Carissa in coro assieme a Mark Kozelek che ti dà il là come un consumato direttore d’orchestra, non ha prezzo. Apro una (breve) parentesi sul caratterino del nostro Markino, notoriamente piuttosto burbero: in effetti, dopo un inizio nel quale tendeva a sottolineare l’insolita tranquillità del suo pubblico (usando alcuni coloriti eufemismi, per così dire…), il nostro ha cominciato a lanciarsi in qualche scambio di battute anche piuttosto riuscito (si rammentano soprattutto i siparietti su Dogs, ricominciata da capo tre volte: la prima lamentando la troppa confusione del pubblico sulle prime note, la seconda lamentando il troppo silenzio, la terza di modo che ci fosse il giusto strepito da parte della folla visto che, pare, PARE, l’esibizione sarebbe stata registrata per un live), sciogliendosi sempre più nel corso della serata; non vorrei apparire ottimista, ma mi sono fatto l’idea che alla fine quasi quasi tollerasse la nostra presenza. Certo, non lo invidio: alle mie spalle c’era un urlatore professionista che ha bacato il cazzo per tutta la sera urlando richieste contro il palco, tutte puntualmente (e con grande gigioneggiamento) disattese dal nostro. Tiè. Certo che, a volte, la vita della rockstar deve essere proprio stressante…

Einstürzende Neubauten live @ Ippodromo del Visarno, Firenze (7 Luglio 2015)

Il tramonto sopra il palco degli Einstürzende Neubauten (Ippodromo del Visarno, 07/07/2015).

Una foto pubblicata da Demetrio Scelta (@demelta84) in data:

Da dove cominciare? Prima di tutto, l’ingresso dell’Ippodromo è proprio dove sembra essere e non altrove, quindi è inutile che parcheggiate sul lato e poi vi incamminiate attorno perché l’unica cosa che troverete è l’ingresso degli artisti, ma tanto un simpatico addetto alla sicurezza vi farà notare che avete sbagliato strada e che non c’è trippa per gatti (e non ce ne sarà nemmeno a concerto concluso quando, moderatamente ubriachi, proverete a tornare proprio in quel punto al lume della torcia di Android per vedere se vi possa riuscire il colpaccio di incontrare Blixa Bargeld). In secondo luogo, i bagni chimici non si sposano bene con pantaloni corti e/o scarpe aperte, quindi occhio. Ancora, pare che a questi concerti la gente adori sdraiarsi sull’erba e non apprezzi lo star seduta sulle comode (comode?) poltroncine offerte agli spettatori, quindi, se sarete abbastanza rapidi, potrà capitarvi di riuscire a saltare svariate file e guadagnare inattese posizioni. I vostri due vicini di posto, probabilmente, inizieranno a fumare erba molto prima che voi possiate aver capito che quei tizi sul palco che percuotono roba metallica e sembrano traslocare dei tubi innocenti sono in realtà proprio membri della band (in particolare l’istrionico ed enorme bassista, Alexander Hacke) e, quindi, che il concerto è già iniziato; ma non temete, se ne accorgerà per voi il tizio seduto due poltroncine più in là, che guarderà male i due fumatori per tutto il tempo facendovi pensare che si tratti di un salutista e, invece, si acquieterà beatamente quando i due di prima cominceranno a farla girare, nello specifico nella sua direzione. Il resto è un tentativo di mimesi imperfetta, reso ancora più difficile dal fatto che in una platea così ristretta e in una giornata afosa oltre ogni dire, gettando lo sguardo attorno a sé può capitare di incrociare almeno dieci persone che vengono dalla tua stessa città, e per città intendo gente che vive proprio a due porte di distanza da casa tua: probabilmente a Casalguidi, oltre a un Inter Club (sigh), c’è anche un Neubauten Club di cui nessuno mi ha mai parlato. Ma soprattutto c’è il magnetismo di Blixa Bargeld: gli EN ripropongono dal vivo l’opera-rock di Lament (di cui si parlava nel best of del 2014), loro ultima fatica discografica, in uno spettacolo trascinante e straniante. Dal minaccioso incedere di Kriegsmaschinerie, il sollevarsi macilento della macchina della violenza accompagnato dai cartelloni mostrati da Bargeld e recanti il testo pensato per il brano, alla geniale operazione di recupero-storico-barra-trasposizione-musicale-avanguardistica (Blixa, se mi leggi, non farti prendere dall’orticaria) di The Willy-Nicky Telegrams; dalla poesia di Paul van den Broeck, riproposta con In de Loopgraaf e suonata con un’arpa di filo spinato (ebbene sì…) al tour de force percussivo di Der 1. Weltkrieg che era già incredibile su disco ma, vista replicata dal vivo, con la sua stratificazione di ritmi prodotti facendo vibrare tubi plastici temperati, risulta a dir poco clamorosa; dall’odissea delle tre parti di Lament al perfetto neubauten-pop di How Did I Die?. I nostri inanellano 11 canzoni durante l’esibizione principale e chiosano con ben due encore, spinti a tornare sul palco dall’entusiasmo del pubblico: c’è spazio per il folk di Sag Mir Wo Die Blumen Sind, già reso famoso da Marlene Dietrich, e cantato da un Blixa foderato in un manto rosso da regnante, per il recupero della tradizione canora degli Harlem Hellfighters (All of No Man’s Land is Ours, che chiudeva il disco), il primo reggimento composto unicamente da militari afroamericani che combatté durante la Prima Guerra Mondiale e che era, allo stesso tempo, una straordinaria Marching Band, e per la delirante danza futurista di Let’s Do it a Dada, direttamente da Alles Wieder Offen (durante la quale vediamo Blixa suonare degli oggetti che sembrano più macinini per il caffè che strumenti musicali e, soprattutto, che hanno un suono incredibile!!). Il secondo encore si chiude, molto ironicamente, con gli stessi tubi plastici temperati che vibrano sulle note dell’opening di Perpetuum Mobile, Ich Gehe Jetzt (letteralmente “(me ne) vado ora”, un po’ il modo elegante scelto da Blixa per farci capire che sì, ok i bis, ma ora avete sfracassato la minchia e quindi la chiudiamo qui). Il resto della serata è una birra (la seconda) bevuta troppo in fretta per non andare in botta totale (lo so, non ho più l’età); il tentativo, descritto poco sopra, di un’imboscata alla band dall’uscita secondaria (tra l’altro, col buio che c’era e in zona Cascine, solo due ubriachi potevano pensare di mettere in atto una cazzata del genere); una mezz’ora di chiacchiere su fluorescenza del rubino, Fabio Genovesi e Le città invisibili di Calvino in attesa di farsela scendere (qui sto parlando soprattutto per me), seduti sui gradini della facoltà di Agraria, tutta una serie di discorsi che ricordo come fosse ieri e che, probabilmente, non dimenticherò mai (nonostante il tasso alcolemico e l’evidente confusione mentale). Ma, soprattutto, la sensazione di aver condiviso uno spettacolo di potenza rara, un concerto che aspettavo da tanti, tanti anni in una serata che non avrebbe proprio potuto essere migliore.

Low live @ Teatro Antoniano, Bologna (20 Ottobre 2015)

Ci sono, nella vita, giornate che rappresentano un po’ un nodo nel quale si intrecciano, più o meno strettamente, tutta una serie di corde, di quelle corde che vibrano e generano il presente come lo conosciamo, il passato come è stato, e il futuro come potrebbe essere. Diciamo che, tra tutti gli ipotetici futuri possibili, quello che mi avrebbe ricondotto a vedere i Low per la terza volta dal vivo, e per la seconda al Teatro Antoniano di Bologna (la prima volta l’ho raccontata qui), l’ho considerato a lungo uno dei più improbabili. Ma le probabilità alla fin fine non sono che numeri, e oggi è quasi la fine di Dicembre e chi ha voglia di parlare di matematica? Diciamo soltanto che, se ripenso al 20 Ottobre 2015, mi tornano in mente una quantità incalcolabile di cose tra le quali: i biglietti comprati alla fine di Settembre quando ormai erano quasi esauriti, e per posti che temevo potessero essere un po’ troppo distanti dal palco (pericolo scongiurato quando, ritornato nel teatro, ho realizzato nuovamente quali fossero le sue dimensioni); la partenza prestissimo al pomeriggio per evitare le prevedibili code che, invece, erano tutte sulle due corsie della direzione opposta (e sto parlando di una roba tipo 10 km di coda con una fila di tir di proporzioni colossali, e del timore di trovarla ancora lì al ritorno, di notte); l’immancabile sosta all’autogrill di Cantagallo con annesso caffè americano (era imbevibile, adesso lo posso ammettere sinceramente) e momenti nostalgia; la Pieve di Santo Stefano e il suo gattone-custode che non si lascia accarezzare (almeno, non da me); i portici e i déjà-vu che si nascondono tra essi, incagliati tra un aperitivo sotto le torri e un silos della Fassa Bortolo; il mio ristorante preferito e un cameriere che ci ha preso in simpatia in quanto toscani e, soprattutto, palesi ubriaconi; tizi che ti chiedono cartine, tabacco e quant’altro mentre aspetti di entrare nel teatro; e, infine, il concerto. Last but not least, bisognerebbe dire: la mia terza volta coi Low. Che si fanno aprire il concerto da tal Mike Noga, piuttosto preso bene, a dire il vero, e che una volta saliti sul palco pescano a piene mani dall’ultimo album, Ones and Sixes: l’apertura è tutta per gli ultimi brani, con Gentle e No Comprende (nel link un video della serata, di discreta qualità, che in realtà è un mash-up con Words, che sarà suonata più avanti), prima di spezzare con una trascinante versione di Monkey, riprendere il discorso con The Innocents e poi fare un balzo indietro a The Invisible Way col trittico Plastic Cup, On my own e Holy Ghost. Il ritorno a Ones and Sixes ha il sapore dolce delle melodie di Spanish Translation, Lies (nel link un video della serata, di discutibile qualità) e soprattutto Into You; la devastante Pissing introduce alla lenta DJ, e What Part of Me e Will the Night… preludono all’apoteosi chitarristica finale di Landslide, in un climax di debordante empatia. I nostri lasciano il palco per tornare a guadagnarlo, poco dopo, tra gli applausi del pubblico per un breve encore: tre brani pescati dal miglior passato della band di Duluth. C’è spazio per Words (si veda il video cui ho fatto link in precedenza), capolavoro dal primo album I Could Live in Hope, e per la chiosa di Last Snowstorm Of The Year (con tanto di racconto sul viaggio in auto da Monaco, teatro della data precedente, a Bologna, con passaggio delle Alpi innevate): in mezzo, il pezzo che non ti attendi e che non può in alcun modo lasciare indifferente la nostra piccola delegazione del Laboratorio Europeo di Spettroscopie Non-lineari, ovvero Laser Beam. Ed è un altro nodo che delicatamente torna al pettine, mi verrebbe da scrivere. Forse sarebbe stato anche meglio se fossi riuscito, dopo esser stato trascinato fuori dal bagno alla fine del concerto (trascinamento che costituisce un azione a dir poco metaforica), a proferire parola e a rispondere alle domande di Alan Sparhawk mentre scattavamo una foto insieme (quella che avete visto poco più su), ma tant’è: senza un autentico momento-disagio, che serata sarebbe stata? Ora potrei aggiungere un’esagerazione di altre cose che riguardano Mike Noga che passeggia nervosamente per il foyer al termine della serata sperando (invano) di essere fermato da qualcuno per una foto o un autografo, o il fatto che al ritorno, sull’Appennino, non c’era alcuna coda ma un’unica corsia praticabile praticamente per l’intero tratto, o che Motion Picture Soundtrack dei Radiohead suona benissimo su Viale XI Agosto quasi alle 2 di notte, o che dal 20 Ottobre scorso ci sono un certo numero di dischi che non ascolto più tanto facilmente, eccetera, eccetera, ma credo che sarei noiosissimo per chi non c’era e perché la maggior parte delle cose che ti accadono alla fin fine esistono davvero solo per te, e allora penso che forse la miglior cosa sia chiudere a cavallo di un raggio laser e riconoscere che “I don’t need a laser beam/ I need your grace alone”. E ringraziare il trio di Duluth, ci mancherebbe, e tutti voi per aver avuto la pazienza di arrivare fin qua. Ci becchiamo nel 2016 (forse)!

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