“Una cosa divertente che spero di riuscire a fare ancora”: i Radiohead live a Firenze, Parco delle Cascine, 23/9/2012

Che dire del concerto che hai atteso per tutta la vita? Sì, meglio partire con questa dichiarazione d’intenti, che riconosce nel concerto tenuto ieri sera dai Radiohead nel parco delle Cascine di Firenze il concerto atteso per tutta una vita, il Concerto con la maiuscola, per intendersi. Che dire, dunque? Potrei cominciare col criticare le scelte di marketing nella vendita dei biglietti, cominciata (e praticamente conclusa) quasi un anno fa, nel novembre del 2011, mentre il sottoscritto si trovava a Londra a inseguire la sua passione per Gerhard Richter; col rammentare come sia riuscito ad ottenere i preziosi tagliandi solo nell’aprile di quest’anno, da due amici che purtroppo hanno dovuto rinunciare; oppure potrei solo dire che non mi stupisce il fatto, emerso negli ultimi giorni, che tutti stavano vendendo i propri biglietti: i tagliandi erano stati venduti troppo in fretta per non divenire oggetto di un mercato sotterraneo con prezzi abnormemente al rialzo. Il resoconto potrebbe proseguire col lento avvicinamento alla data, ulteriormente slittata a causa dell’incidente occorso durante l’allestimento del palco a Toronto, in Canada, nello scorso giugno; poi potrei raccontarvi del preparatissimo servizio d’ordine allestito a Firenze, vigili urbani che a precisa domanda “dove si può parcheggiare?” rispondono con serietà “dove trovate posto”. Sarebbe interessante raccontare anche l’attesa ai cancelli, dove ho cominciato a realizzare che di lì a poco avrei visto il mio gruppo preferito su un palco, dal vivo: nel 2003, subito dopo il mio esame di maturità, i Radiohead tennero due concerti in Piazzale Michelangelo che, purtroppo, mi persi, rammarico ulteriormente aumentato sapendo che ad aprire le date di quel tour furono chiamati i Low, altra band che adoro; oppure potrei raccontare del mio ennesimo sforzo di pubblicizzazione dei miei cari amici SUS, incarnato nel presentarmi alle Cascine con la maglietta recante loro effige orgogliosamente acquistata nello scorso giugno al Marea Festival di Fucecchio. Ma forse è meglio raccontare semplicemente il concerto e l’aria che si respirava sotto il palco. La spedizione comprendeva me, mio fratello, un carissimo amico, compagno di mille ascolti musicali e mille avventure, e la mia ragazza. Appena arrivati sul luogo ci rendiamo conto che si può andare abbastanza sotto il palco, e in effetti ci accampiamo in posizione decisamente avanzata avviando subito dopo i turni per andare a prendere del cibo; mangio un panino gommoso che mi toglie la fame fino al ritorno a casa probabilmente perché, bevendoci acqua dietro, si gonfia nello stomaco empiendolo completamente; passo davanti agli stand del merchandising ufficiale e realizzo che solo con un prestito di mio fratello riuscirò a mettere assieme i soldi necessari al classico acquisto di una maglietta. Prima tirata d’odio: che senso ha stare in piedi sotto il palco a tre ore dall’inizio del concerto? Se vi alzate tutti in piedi, anche dietro faranno altrettanto e non ci sarà più pace. Tirata d’odio inascoltata, ovviamente: siamo tutti in piedi a mezz’ora dall’inizio dell’opening act di Caribou, e fortuna che il compositore e dj canadese (con un dottorato in matematica, mi dicono) propone uno show di gran presa e che ripaga dello stare in piedi (certo, i Low sono un’altra cosa), mentre mio fratello socializza con tutto ciò che si muove nei dintorni come io non ho mai saputo fare in tutta la mia vita. Alla fine di questa esibizione di apertura ci spostiamo dalla posizione centrale ad una posizione laterale rispetto al palco, sulla destra guardando dal palco, per così dire: si vede meglio e c’è più aria, dettaglio non trascurabile dal momento che, complice l’evidente difficoltà palesata dai cani antidroga all’ingresso, quando inizia il concerto dei Radiohead devo trovarmi già nel mio secondo (o terzo) trip indotto dal fumo altrui (non per fare il proibizionista, sia chiaro, ma forse se i cani non fiutano bene è il caso di controllare che non abbiano il fiuto rotto, per così dire). Ed è qui che, mentre i Radiohead salgono sul palco, faccio conoscenza con un’autentica celebrità, il primo VIP che abbia mai incontrato in vita mia: Capitan Video. Non vi dice niente? Allora dovreste rileggervi Una cosa divertente che non farò mai più, il resoconto di una crociera scritto da David Foster Wallace per una rivista americana: “[…]e un signore in piedi sulla sinistra appoggiato alla balaustra di dritta che riprende il mare con la videocamera. È un individuo triste e cadaverico che ho battezzato Capitan Video fin dal secondo giorno, ha una folta chioma di capelli grigi e Birkenstock ai piedi, polpacci molto sottili e glabri ed è una delle persone più strane della crociera. Più o meno tutti sulla Nadir possono essere definiti come videomani, ma Capitan Video riprende veramente qualsiasi cosa, compresi i pasti, le sale vuote, i tornei interminabili di bridge geriatrico – salta perfino sul palchetto del ponte 11 durante le feste in piscina per riprendere la gente dal punto di vista dei musicisti. La registrazione magnetica dell’esperienza in crociera extralusso di Capitan Video deve essere una di quelle cose noiosissime alla Andy Warhol, di lunghezza esattamente pari alla crociera.” Scusate la digressione, ma Capitan Video è un grande e bisogna conoscerlo: rispetto agli eventi narrati da Wallace ha perso i capelli, non porta le Birkenstock e ha trovato una degna compagna, che chiamerò Video Woman: insieme passano tutta la serata proprio davanti al mio angolo visuale sfoderando un intero arsenale di strumenti per l’acquisizione audio-video che comprende due telecamere (di cui una vagamente professionale), diversi modelli di smartphone, un microfono audio panoramico a lungo raggio e un iPad che vivrà il suo momento di gloria più avanti. Seconda tirata d’odio: come leggevo già altrove, abituarsi alla luce blu gelida e digitale degli schermi degli smartphone alzati sopra le teste nella folla per riprendere il palco è la cosa più difficile dell’intera serata; ci sono stati lunghi tratti del concerto nei quali ho visto i musicisti solo attraverso quei pallidi schermi ronzanti, e mi ha fatto tornare in mente la fattoria più fotografata d’America di cui parlava De Lillo in Rumore Bianco, come se nella folla accorsa al concerto fosse in opera un postmodernismo latente ma travolgente. Dicevo, i Radiohead salgono sul palco e il concerto comincia: la scenografia è imponente, schermi sospesi sopra i musicisti che ruotano e vengono riposizionati durante l’intera esibizione, rimandando le immagini di telecamere sparse attorno ai cinque (che poi sono sei, come al solito, perché c’è anche Clive Deamer, batterista dei Portishead), e altri cinque schermi appesi in alto, sulla sommità del palco. L’effetto è veramente spettacolare, e l’inizio della scaletta lo è altrettanto: Bloom, spietata nel suo incalzare ritmico, la colossale There There, 15 Step (che guadagna ancora più mordente coi giochi di luce inscenati con l’ausilio dei suddetti schermi), Weird Fishes/Arpeggi. Menzione speciale, per quel che mi riguarda, per la riproposizione di Kid A, raccolta e intima, che prelude alla sensazionale Staircase, una delle migliori produzioni recenti della band, per completezza compositiva e gusto della sperimentazione, cui segue un’adrenalinica Morning Mr. Magpie. The Gloaming rovescia sul pubblico tutti i watt dell’enorme impianto di amplificazione in un’orgia di click e tentati acufeni, poi Separator scivola in un pezzo che, oggettivamente, non mi sarei atteso, You and whose army?, direttamente da Amnesiac: Thom chiede il piano e il suo faccione asimmetrico domina gli schermi sul palco. Aperta parentesi: ho avuto molte sorprese nel corso del set perché non sono il tipo che va a studiarsi le scalette degli altri concerti per tentare di indovinare cosa suoneranno i suoi idoli e rovinarsi così la sorpresa. Chiusa parentesi. Nude si tramuta in un momento di raccoglimento collettivo e trascina col suo romanticismo, introducendo a Identikit, presentata da Thom come “one more new song”; Lotus Flower si rivela anche dal vivo quel gran pezzo che è nel disco, e subito dopo i nostri sciorinano una Karma Police anch’essa, per chi scrive, inattesa, ma sempre in grado di riscaldare i cuori, e suonata da dio. Feral torna a mettere a dura prova l’impianto con i bassi di Colin Greenwood che risuonano tondi tondi nella pancia e nelle ossa e con tutta la sua sotterranea carica dubstep/ bossa, e Idioteque chiude per un attimo l’esibizione: senza quasi accorgersene è passata circa un’ora e un quarto e la band lascia il palco. L’uditorio piomba nel buio ma, dopo un rapido cambio di strumenti, i sei tornano ai propri posti per il primo dei due encores di questa serata: Thom è abbastanza loquale per tutta la durata dell’evento, parlotta un po’ in itliano ripetendo numerosi “Molto grazie” rivolti al pubblico. Al ritorno sul palco la band comincia con Airbag, che ha sempre una magnifica forza d’impatto, e prosegue con How to disappear completely, introdotta e chiusa da Jonny all’ondes martenot (o meglio al French Connection della Analogue System, che riproduce le sonorità tipiche delle ondes). Dev’essere più o meno a questo punto che Capitan Video realizza il capolavoro della sua serata mettendo da parte per un attimo la sua videocamera ed estraendo un iPad che ottunde la visuale a decine di altre persone incredule alle sue spalle: la sollevazione popolare lo costringe a desistere, ma la brutta notizia è che, invece di lasciar perdere, il nostro si ributta in spalla la videocamera e continua nella sua opera di registrazione. Per la gioia dei cronisti de l’Unità, che così potranno continuare a spacciarlo per un Capovilla qualunque, Thom torna a dedicare The Daily Mail a Berlusconi (“This song is for Berlusconi”, le esatte parole): peccato perché la canzone è bellissima e preferirei associarla a qualcosa di meglio, ma tant’è. Durante Bodysnatchers scopro con grande piacere che il mitico Ed O’Brien non fa solo i coretti e pochi rumorini non pervenuti, oltre a decine di grandiosi passi di danza, ma si incarica di gestire quella favolosa linea di chitarra che si sente nel corso del break a metà del brano, poco prima di sfociare nella conclusione; infine giunge Planet Telex, direttamente da The Bends, e funziona davvero, anche se viene da un passato tanto lontano da far sembrare come fosse una canzone di un altro gruppo. A questo punto i Radiohead lasciano nuovamente il palco per tornare pochi minuti dopo per il secondo encore, che comincia con Thom e Jonny sul palco per Give up the ghost, che mi piace molto più qui, dal vivo, che sul cd; col ritorno degli altri c’è tempo per Reckoner, ritmicamente trascinante, e per far entrare un piccolo synth per Thom che inizia a cantare The One I Love a cui si collega Everything in its Right Place, suonata con cattiveria e potenza ritmica notevolmente acuite rispetto alla versione incisa in Kid A: gli ultimi vagiti del brano si spengono quando sul palco restano solo Ed e Jonny, e gli altri musicisti (primo fra tutti Thom) sono già usciti. Il concerto è finito e il mio volto tradisce un misto di felicità e botta da fumo (altrui); anche Capitan Video ostenta soddisfazione per la riuscita delle sue riprese, e sorride alla moglie co-regista mentre entrambi lasciano il proprio posto: nonostante tutte le preghiere laiche e non (giusto nel caso) affinché, non avendo palesato alcuna intenzione di piantarla con il suo registrare per tutta la durata del concerto, almeno per contrappasso gli si rompesse la telecamera, Capitan Video l’ha fatta franca. Prendo questa come prova ontologica della non esistenza di dio. Sciamando fuori dalla zona recintata incrociamo i consueti capannelli che si fanno un dovere di aggiornare all’era del cinguettio l’antico detto “si stava meglio quando si stava peggio”, e in fondo centoquaranta caratteri sono più che sufficienti per comporre l’epitome del loro pensiero, che suona più o meno come “Mah, nell’anno x nel luogo y avevano suonato molto, molto meglio: sono deluso”, affermazioni che non hanno altro scopo che farti sapere che loro c’erano, mentre tu probabilmente eri troppo fuori dai canali giusti per esserci; e non è che oggi, trovandoti qui, sei nel canale giusto, perché oggi questo è il canale sbagliato, e loro lo sanno, il canale giusto è tutto un altro che tu non immagini nemmeno, ma non temere, tra una decina d’anni, quando ti troverai in un nuovo canale sbagliato che era giusto quando non te lo saresti mai aspettato, loro riusciranno a fartelo notare. Del tutto inutile tentare l’operazione di estrema e freddissima logica che consiste nel chiedere loro “allora cosa diavolo ci fate qua?”. Mentre lasciamo il parco c’è ancora tempo per un’amara sorpresa: nonostante la stretta vigilanza (…), qualcuno ha tagliato le gomme di una ventina di macchine lungo la strada dove abbiamo parcheggiato anche noi. Mi preparo al peggio (cioè alla visione di me stesso che cambia una gomma) quando realizzo che, nel caso avessero tagliato anche le nostre, resteremmo sul posto, perché la Ford non ci ha equipaggiati di ruotino di scorta ma solo di un kit per la riparazione e il gonfiaggio temporanei. Per fortuna la nostra macchina è dove l’avevamo lasciata, stretta contro una recinzione e con le ruote intatte: si torna a casa. Durante il tragitto ho giusto il tempo di pensare a come, nonostante ci fossero migliaia di persone (trentamila i biglietti venduti, pare, anche se per la questura non dovevamo essere più di tremila), Thom e soci sembrino aver suonato solo per me, e suonato divinamente, solo per il ragazzo che c’è ancora nella mia testa e che consumava Ok Computer, Kid A e Amnesiac nella sua camera, quello che, finita la maturità, si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi e fece partire Hail To The Thief, quello che si è fatto un dovere di ascoltare tutto (ma proprio tutto) ciò che il quintetto di Oxford ha prodotto negli anni, fino a commuoversi per Codex e a restare basito di fronte alla sintesi incarnata magistralmente da Staircase, che nel 2011 ha saputo dimostrare ancora una volta quanto questi ragazzi un po’ cresciuti siano ancora almeno un paio di spanne avanti a tutti gli altri. Quindi grazie per tutto questo e per questa esperienza che tutto ciò ha saputo sublimare, nonostante gli scazzi con Capitan Video e con buona pace dei soloni che, mentre uscivamo, lamentavano delle non meglio specificate stonature di Thom Yorke che, personalmente, non ho avuto il tempo di sentire, e che in fondo non mi interessano nemmeno un po’: ma lo so, siamo nel 2012 e si continuava a stare meglio quando si stava peggio. Ed è così che stamattina, dopo sette ore scarse di sonno, mentre la mia ragazza mi dice con gli occhioni lucidi che “è stato un concerto favoloso”, le rispondo, con un misto di sarcasmo e occhiaie, “tsk, si vede che sei una ragazzotta provinciale e di campagna: lo sanno tutti che il concerto che tennero ad Aquisgrana nell’800 d.c. è stato incredibilmente superiore”.

L’immagine in evidenza per questo articolo è un’aggiunta del 11/09/2020, e la foto si riferisce a un concerto tenuto dalla band a Boston durante lo stesso tour (2012).

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