Sul vertiginoso confine tra ragione e natura: “Nymphomaniac (Vol. 1)”, di Lars Von Trier

Nymphomaniac (2014), di Lars Von trierCosa si può dire della sola prima metà di un film? Poco, ovviamente. Ancora meno se, come capita con quest’opera, allo spegnersi delle luci in sala si andrà a vederne una versione censurata, approvata dal regista ma alla realizzazione della quale questi non ha in alcun modo collaborato (e vorrei anche vedere). Si potrebbe discutere molto sull’ipocrisia di operazioni di questo tipo: al cinema, che è il Luogo in cui si proietta il film e che costituisce certamente, in una maniera molto particolare, una commistione di evento personale e sociale, ti è proibito di vedere un film così come il suo autore lo ha concepito, e ti vengono imposti dei tagli stabiliti da una qualche presunta autorità (la distribuzione? La commissione censura? I paladini del buon costume?), ma tra sei mesi, col solo potere del denaro che ha in tasca (l’unico vero potere al mondo) chiunque potrà tranquillamente entrare in una videoteca e comprarsi, probabilmente, il DVD o il Blu-ray disc dell’edizione integrale, non falcidiata dai tagli. E poco importa che (pare) la casa di produzione Zentropa stia lavorando per garantire una distribuzione della versione integrale del film più avanti in questo 2014, anzi: operazioni del genere aumentano il sospetto che da questo tira e molla entrambe le parti abbiano qualcosa da guadagnare. Tornando alla “censura”, pare proprio che l’uomo, a dispetto degli auspici kantiani di qualche secolo fa, seguiti ad essere intrappolato in una condizione di minorità che si configura come l’unico artificio in grado di garantirne il controllo. È chiaro poi che, se l’opera di cui si va a parlare è l’ultima creatura di Lars Von Trier, Nymphomaniac (Vol. 1), tutta questa sequela di chiacchiere senza scopo diventa assordante rumore di fondo. Va da sé che Von Trier, come ovvio per chiunque, è senz’altro il più formidabile venditore di se stesso che mai abbia calcato il tappeto rosso: pur reduce da scivoloni più o meno divertenti e fortunati (scanso subito il dubbio: a me è sempre parso evidente che, in quella famosa conferenza stampa a Cannes, Von Trier stesse palesemente ironizzando. Ed è un peccato che l’ironia si basi fortemente anche sulla capacità del proprio interlocutore di capirne l’essenza, configurandosi di fatto come un artificio retorico che svela il vero mascherandolo in maniera divertita sotto le forme più svariate, che vanno dal melodrammatico al grottesco, ma tant’è: l’ironia (anche quella più sfortunata) non è per tutti. Va comunque detto che Von Trier ne è uscito da trionfatore, e basti considerare la famosa maglietta recante effige “Persona Non Grata” sfoggiata a Berlino), l’autore danese è riuscito a rivendere questa sua ultima opera sfruttando esattamente quello stesso meccanismo che ha condotto alla sua censura costringendomi, per esempio, a vederne una versione che qualcuno ha deciso al posto mio, immagino dopo profonde riflessioni, che potessi in effetti vedere. Tanto per fare un esempio, la sala domenica scorsa era semideserta ma, nel vuoto delle poltroncine, piena di personaggi che avevano comprato il biglietto solo sperando di vedere un porno. D’altro canto è facile prevedere che il film, senza sfruttare questo continuo brusio malizioso, difficilmente avrebbe trovato una distribuzione: uno scotto da pagare, del quale Von Trier era senz’altro conscio e che fa parte per intero del paradosso di cui, da ormai cinquecento parole a questa parte, sto delirando. E infine direi che è arrivato il momento di parlare del Nymphomaniac (Vol. 1)/2film: Nymphomaniac (Vol. 1). La storia è ormai nota: un uomo, Seligman (Stellan Skarsgård), raccoglie per strada una donna, sanguinante e malconcia, e la porta a casa sua. Davanti a una tazza di tè, la donna inizia a raccontare a quest’uomo, appena incontrato, una dettagliata storia della sua vita che, come scopriremo, è una storia principalmente sessuale: Joe (questo il nome della protagonista, interpretata da Charlotte Gainsbourg) è una ninfomane intrisa dell’odio di se stessa, e il racconto scabroso delle proprie esperienze sessuali (ed esistenziali) ha il preciso scopo di tratteggiarne con chiarezza quelli che ella ritiene essere i tratti più oscuri e ributtanti del suo carattere e della sua personalità. Seligman si rivela un ascoltatore attento, e i suoi contrappunti alla storia narrata da Joe saranno fondamentali nello sviluppo del racconto. In verità la trama è estremamente più complessa, e appare difficile poterla compendiare in modo efficace: questo non né è che lo scheletro, la parte più sottile, il contesto che ne tiene in piedi l’intero, altrimenti erratico, sviluppo e che pur tuttavia ne costituisce al contempo la più intima essenza. Quello che davvero è al centro dell’opera, come accade ormai sempre con i lavori di Von Trier, è l’ossessione dei corpi. Nella riduzione ultima alla materialità, l’essere umano altro non è che un corpo, e il corpo sperimenta l’azione efficace e violenta della vita: un corpo malato e un corpo ossessionato (come era ne Le Onde del destino), un corpo estruso e rifiutato da un ambiente ostile la cui ostilità diventa geometrica stilizzazione (Dogville); un corpo mutilato e squassato dal dolore (Antichrist) o un corpo che è il punto di contatto tra distruzione personale (un matrimonio fallito e l’impossibilità di conformarsi a un insieme di regole) e distruzione collettiva (la fine del mondo imminente), come vedevamo nell’ultimo, bellissimo Melancholia. Il vero protagonista di Nymphomaniac, quindi, è il corpo, il corpo umano: il corpo della giovane Joe, nella fattispecie, cui dà il volto Stacy Martin, il corpo di una donna, e non è una novità questa, dal momento che, da sempre, è la figura femminile a stimolare maggiormente la riflessione e l’opera dell’autore danese. Forse questo aspetto ha qualcosa a che vedere con la sfortuna critica di Von Trier presso i grandi custodi della morale: nel suo cinema si avverte sempre, nettissimo, il rifiuto di rappresentare certe figure secondo uno stilema o un canone che sia puramente “di maniera”. Le donne di Von Trier non sono esseri angelicati intrisi di bontà, né semplicemente mostri odiosi e inavvicinabili: sono creature vive, vitali, pulsanti, ed è sangue vero quello che scorre nelle loro vene. Come tali, come corpi viventi e esseri umani a tutti gli effetti tridimensionali, non conoscono compromessi: si pongono per ciò che sono, hanno caratteri sempre forti, e solitamente riducono al silenzio o ad uno spazio assai meno importante le loro controparti maschili, generalmente deboli e passive. Joe non fa eccezione a questa regola, e la cifra che la caratterizza è la sua debordante presenza fisica: il suo è un corpo che scopre se stesso, che afferma se stesso attraverso l’arma a doppio taglio della sessualità, vissuta con una libertà sfrontata e assoluta (nel senso reale del termine, di ab-soluto, sciolto da vincoli) e, contemporaneamente, col senso di colpa di chi, nel deserto della propria esistenza, non conosce altro che la feroce disperazione della mancanza d’amore. Il racconto delle esperienze sessuali attraverso le quali il corpo di Joe perviene a se stesso è crudo e non tralascia particolari scabrosi: la pulsione che guida l’azione, inizialmente vissuta come un gesto di ribellione totale nei confronti della società (il club delle giovani donne che si riuniscono per celebrare il potere della propria libera sessualità al grido di “Mea Vulva, mea maxima Vulva”), è ricondotta sempre ad un principio di incontrollabile vitalità che, paradossalmente (ma non troppo), nasconde un vivo desiderio di annichilazione di sé. Joe non vuole compassione, ma una condanna; non ha pietà di se stessa perché non può concepirsi se non per ciò che è, un corpo alieno a qualsiasi compromesso e teso solo alla soddisfazione dei suoi propri istinti. La danza dei corpi colti nel momento dell’amplesso è una danza in punta di piedi sull’orlo del baratro, pre-razionale e pericolosa. E qui emerge il ruolo fondamentale di Seligman, che fa da polo opposto al racconto di Joe e, forse, rompe anche in parte il suddetto schema della “donna forte-uomo debole”: laddove ella narra le sue vicissitudini inquadrandole in un’ottica di semplice soddisfazione della pulsione e dell’istinto primario, Seligman è in grado di sistematizzarle di modo da ricreare un ordine razionale, che è per certo artificiale ma non di meno estremamente seducente. Così il gioco dellaNymphomaniac (Vol. 1)/1 seduzione, condotto con l’amica B. (Sophie Kennedy Clark) durante un lunghissimo viaggio in treno e che viene narrato nel ricordo della viva e reale esperienza di Joe, può essere analizzato razionalmente attraverso una successione di topoi che saranno ricollegati, per esempio, alla tecnica della pesca con la mosca, e il racconto di Joe, altrimenti del tutto istintivo e atonale, trova una scansione ritmica in questa inattesa contestualizzazione; in questo stesso modo, le vicende relative alla perdita della verginità di Joe possono essere ricondotte alla pura astrazione matematica ricorrendo ai numeri della successione di Fibonacci, riuscendo nel paradosso di rendere analitico, esatto e rivelatore anche il più carnale dei momenti; in questa stessa ottica, la memoria può essere dissezionata e analizzata fino a svelarne il reale funzionamento, e la letteratura essere ben più che consolazione, ma testimonianza incarnata di una livida e violenta vitalità; e non sorprende che sia un’intuizione di Seligman a permettere di razionalizzare il delirio di amanti della giovane Joe trasformando la caotica atonalità di sussurri orgasmici totalmente asincroni nella delicata armonia polifonica garantita da un Cantus Firmus, una melodia corale continua che rimanda direttamente all’opera di Bach. Se il racconto di Joe è la proiezione fuori di sé del percorso attraverso cui un corpo ha scoperto se stesso e il mistero al fondo della propria esistenza, il controcanto di Seligman è la lente deformante che trattiene assieme questo multiverso esploso attraverso una geometrizzazione dei desolanti paesaggi dell’animo che ne costituiscono le dolorose stazioni: non è un caso che il racconto proceda, come è ormai consuetudine per Von Trier, attraverso una serie di capitoli. Non viene mai meno, nel corso della narrazione, la sensazione che Joe, attraverso l’appagamento dei propri bisogni corporali, desideri in realtà sperimentare qualcosa che trascenda la pura dimensione fisica: e pur tuttavia, il corpo che tenta di conoscere se stesso e il proprio limite è anche una gabbia che si chiude drammaticamente proprio nel momento in cui l’animo che lo abita, con tutte le sue dolorose contraddizioni, incontra per Nymphomaniac (Vol.1)/4la prima volta la soddisfazione del vero desiderio, che sfuggirà inesorabilmente. Perché due sono veri fili conduttori di questa prima parte del racconto: il rapporto di Joe col padre (Christian Slater) e quello con Jerome (Shia LaBeouf), il suo primo amante. Si tratta in entrambi i casi delle uniche forme di amore che Joe sperimenta nella sua vita: l’amore della figlia per il padre, e l’amore dapprima acerbo, poi perverso, ossessivo e infine inappagato per un uomo che genera al contempo ripulsione e fascinazione. Il rapporto di Joe col padre, dettagliatamente analizzato nel film, è il primo cardine di questo racconto. Il padre di Joe è un medico, quindi ancora un essere raziocinante, che per amore della figlia e della meraviglia che il mondo attorno a lei dovrebbe suscitare, non esita a rivestire di favola e sogno il racconto, altrimenti puramente scientifico, della vita degli alberi, della loro evoluzione. In particolare, riesce a infondere nella figlia l’amore profondo per il frassino, il più bello di tutti gli alberi, che pure durante l’inverno si riveste di gemme nere attirando lo scherno del resto della foresta, invidiosa, che lo taccia di aver sporcato le proprie dita nella cenere. Ed è di fatto un lungo inverno quello che attraversa Joe nella sua esistenza, un inverno di solitudine e disgusto di sé che sfocia nel dolore più profondo, la morte dell’amato padre. Non bisogna sottovalutare l’importanza che la figura paterna riveste per Joe: non è un caso che, per seguirne le orme, la giovane donna decida, una volta conclusi gli studi liceali, di studiare medicina, ed è facile vedere in questa scelta la volontà di razionalizzare il disordine della propria esistenza rimettendosi al rigore delle scienze empiriche, più volte evocato lungo la proiezione. Tuttavia il tentativo fallisce (come accadeva già in Melancholia), e a prevalere è la componente autodistruttiva della personalità di Joe, che la spinge verso l’appagamento del desiderio, in quello che si rivela un tunnel oscuro e doloroso, una lenta discesa verso una corporeità dolente e ferita nella quale è impossibile accettarsi per ciò che si è: particolarmente indicativa è, in questo senso, la sequenza in cui Joe si scontra con la moglie e i figli di uno dei suoi numerosi amanti, alcuni tra i minuti più violenti e dolorosi dell’intera proiezione. E all’insegna dell’eccesso è anche il rapporto con Jerome, l’altro polo attrattivo principale per la giovane Joe: un rapporto malato, traballante, due persone che si scrutano e che forse si amano, in qualche oscura maniera, senza saper realmente esprimere questo sentimento. Il tentativo di razionalizzazione operato da Seligman si attiva proprio con Jerome, e con la scoperta della sequenza di Fibonacci (gli ormai celeberrimi “3 colpi davanti e 5 dietro”), e non è un caso che Jerome costituisca, nella costruzione polifonica del Nymphomaniac (Vol. 1)/5Cantus Firmus sotteso ai molteplici amanti di Joe, la frase principale, quella suonata dalla mano destra. Ma il corpo di Joe, che errando è pervenuto fino alla stazione conclusiva di questa prima parte del viaggio, come già accennato si chiude a riccio attorno al primo barlume di una reale speranza di felicità: il rapporto sessuale consumato con Jerome, tanto desiderato lungo le due ore di proiezione, si spegne in una dissolvenza sul nero, tra le lacrime e l’ultimo disperato grido di dolore, raccolto nell’attestazione di non riuscire a sentire niente. Come accade con ogni opera dell’autore danese, al termine della proiezione allo spettatore non resta che un senso di disorientamento, la sensazione di aver assistito a qualcosa di certamente compiuto ma, a più riprese, di troppo esteso, di debordante, con tutta la conseguente difficoltà di razionalizzare. Di Nymphomaniac (vol. 1) si può dire, con le parole di Stellan Skarsgård, che senz’altro non è un porno, perché sarebbe troppo noioso (non che i porno, caro Stellan, siano di norma qualcosa di più che soporiferi): è semplicemente un film che sfrutta furbescamente la malizia e la prurigine per condurre lo spettatore, per l’ennesima volta, attraverso una storia estrema di dolore e sacrificio di sé, in un mondo desolante nel quale non sembra esistere consolazione sentimentale. In un certo senso Von Trier ritorna ad Antichrist: stavolta, mentre il pianeta Melancholia si abbatte contro la terra, non c’è una capanna né la flebile ma fondamentale forza di indissolubili rapporti umani a tenere insieme la fragilità di un nucleo familiare anche di fronte alla distruzione totale. Mentre la verità si abbatte su Joe (la verità su di sé, sulla solitudine), non c’è niente che possa difenderla, nemmeno lo spettro di un reale rapporto umano. Lungo tutte le due ore del film Joe è sola, anche quando è circondata da decine di amanti; in ognuno dei suoi rapporti non è mai davvero coinvolta, a partire da quello con la madre, che le volta sempre le spalle; l’unico contatto sincero col reale è rappresentato dal rapporto col padre, ma non c’è davvero modo di superare il dolore della sua perdita e l’ulteriore distaccamento e auto-isolamento che ne deriva. E quindi sì, Nymphomaniac è un grande film perché parla di qualcosa che è vero nella vita di tutti noi: la capacità di accettarsi per come si è e vivere di conseguenza, la difficoltà di trovare un posto nel mondo quando si sperimentano regioni estreme della coscienza e dell’azione; non da ultimo, la difficoltà di trovare raziocinio nella successione isterica e sconnessa di momenti che appaiono tutti come slegati tra loro, irrazionali, caotici. Se un filo di speranza esiste, in questa prima parte della storia, è rappresentata dallo stesso Seligman, che incarna senz’altro l’Intelligenza intesa non come semplice cultura e conoscenza approfondita, ma come capacità di mettere in relazione tra loro le cose, gli oggetti, attraverso un ragionamento fondato su basi logiche, che sia logicamente congruente: una capacità di relazione che rappresenta l’unica possibilità di metter la testa fuori dal magma confuso e informe dell’esistenza. E alla fine è proprio la relazione tra Joe e Seligman quella che attrae maggiormente lo spettatore: una relazione che è totalmente cerebrale, nella quale assistiamo a attenzioni e cortesie che Joe non ha mai ricevuto da alcuno, nella quale ciascuno dei due sembra mettersi a nudo e davvero, completamente, in gioco. Non è possibile Nymphomaniac (Vol. 1)/3decifrare lo sviluppo di questo rapporto, ed è proprio questo aspetto ad incuriosire e a creare attesa per la seconda parte: come crescerà questa relazione? Il magico equilibrio che si è creato e che, solo, permette uno sviluppo paritario del rapporto, l’instaurazione di un continuo armonico e melodico che inquadra e incanala la polifonia altrimenti caotica del racconto, resterà tale, oppure uno dei due poli prenderà il sopravvento sull’altro? In quest’ultima ipotesi, non è sbagliato pensare che uno dei due centri dell’azione rischierà l’annichilazione completa. Che su questo equilibrio prevalga l’incessante e travolgente forza vitale e sensuale di Joe, o la fredda e astratta azione ordinatrice e raziocinante di Seligman, in ogni caso questo determinerà una violenta affermazione dell’uno sull’altro, e l’inizio della fine per uno dei due. In un certo senso Joe e Seligman sono essi stessi due mondi in rotta di collisione tra loro: fino a questo momento hanno saputo danzare l’uno attorno all’altro con grazia e arricchimento reciproco, ma non è ancora dato capire come evolverà questo loro moto. Per adesso, pur nella collezione di eccessi che il film ci mostra senza alcun filtro, la logica ha sposato la forza vitale della natura, nel senso che la prima è stata sempre in grado di trovare giustificazione e contesto per la seconda, pur senza poter fornire consolazione al dolore e alla disperazione. Non resta che attendere qualche settimana per sapere come andrà a finire.

2 Risposte a “Sul vertiginoso confine tra ragione e natura: “Nymphomaniac (Vol. 1)”, di Lars Von Trier”

  1. finalmente una recensione che ha capito appieno il film…o almeno lo ha capito come penso di averlo capito io. Condivido tutto, salvo forse l’uso del termine “sacrificio di sé”, che era più calzante per i primi film di V.T. .

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