A Remark You Made: Wayne Shorter (1933-2023)

Ritornando con la mente agli inizi della mia passione per il jazz, sono piuttosto sicuro che sia tutto cominciato dai Weather Report: avevo appena cominciato a suonare il basso elettrico, e ovviamente ero innamorato di Jaco Pastorius e del suo fretless. Heavy Weather, forse l’album universalmente più noto della superband fusion nella quale Pastorius militò, non fu il primo disco jazz (o simile) che comprai: prima erano venuti Invitation, e l’omonimo Jaco Pastorius (sì, ero un po’ in fissa con Jaco). Non riesco a ricordare esattamente l’occasione nella quale acquistai Heavy Weather, ma ricordo benissimo l’impressione enorme che quel disco fece su di me: e in particolare un brano, A Remark You Made. A Remark You Made è una ballad, né più né meno: ma è anche un sontuoso gioco a incastri, un trattato sul contrappunto nel quale Pastorius non si limita ad accompagnare, Zawinul deriva verso terre incognite ed è il lirismo trascendentale di un sassofonista geniale a legare insieme il tutto a una melodia senza tempo. Quel sassofonista era Wayne Shorter, che ci ha lasciato pochi giorni fa, il 2 marzo, e sebbene A Remark You Made non sia affatto una sua composizione, per me è sempre stato come se lo fosse: solo l’altro giorno, rivangando tra i ricordi, ho (ri)scoperto che l’autore del brano è in realtà Zawinul. Eppure secondo me quel pezzo è tanto di Zawinul quanto di Jaco e Shorter, anche se forse appartiene un pelino di più al buon Wayne. Sicuramente, Shorter è stato il primo sassofonista jazz che io abbia davvero ascoltato: non è certamente stato l’unico grande sassofonista della storia di questa musica che amo, ma di sicuro è stato uno dei più grandi. Negli ultimi giorni, come prevedibile, si sono moltiplicati gli articoli di riviste specializzate, i ricordi personali di altri musicisti, i racconti più o meno intimi della grandezza dell’artista e dell’uomo (mai come in questo caso i due aspetti sono strettamente legati): poco altro si può aggiungere, poco altro posso aggiungere al racconto della carriera di un musicista che è stato forse uno dei più grandi (e coraggiosi) innovatori di un genere, come il jazz, che egli stesso ha attraversato proprio nelle sue fasi di massima trasformazione storica. Dagli esordi nei Jazz Messengers di Art Blakey fino all’ingresso nello storico secondo quintetto di Miles Davis (quello con Herbie Hancock, Tony Williams e Ron Carter) e ai primi album solisti (dico solo Speak No Evil, chi ha orecchie per intendere intenda); dall’incursione nella fusion più sperimentale e innovativa con i Weather Report, creatura sua, di Joe Zawinul e Miroslav Vitous, una band che è stata capace di trasformare la musica più avveniristica in un trionfo per tutte le orecchie, anche quelle meno avvezze al jazz, fino al suo proprio quartetto (con Danilo Perez, John Patitucci e Brian Blade), col quale ha saputo riscrivere anche le regole della leadership in un ensemble musicale (we instead of me è la frase che oggi leggiamo più spesso quando si tratta di ricordare le doti di leadership di Shorter) e alle più recenti collaborazioni con Esperanza Spalding e Leo Genovese. In mezzo c’è stato di tutto, perfino il pop (ha suonato anche col nostro Pino Daniele, tanto per fare un nome solo), una marea di riconoscimenti (l’ultimo Grammy arrivato appena un mesetto fa) e, negli ultimi anni di carriera, ormai ritiratosi dalle scene, il progetto operistico Iphigenia, realizzato ancora con la Spalding e con le scenografie di Frank Gehry, che ha avuto la sua prima il 12 novembre del 2021 al Cutler Majestic Theatre di Boston. Perché Wayne Shorter è stato soprattutto un compositore, un uomo che ha studiato (profondamente) e scritto (divinamente) musica: si dice di lui che fosse uno dei pochi al quale, dopo aver portato musica scritta a Miles, toccasse la fortuna di vederla suonata dal geniale trombettista così com’era, senza alcuna modifica o variazione, proprio perché lo stesso Davis riteneva perfette già così quelle idee che Shorter annotava continuamente nel suo taccuino (ne parlava lo stesso sassofonista in questa bellissima intervista pubblicata qualche anno fa su Musica Jazz). In effetti se penso adesso alla prima immagine di Shorter che mi viene in mente, non può che trattarsi delle sue recenti foto con la partitura di Iphigenia: un uomo sorridente che sventola un enorme lenzuolo e complicatissimo, pieno di annotazioni, note, musica, Meraviglia. Non sono un sassofonista, non sono un esperto, sono un discreto bassista e un grande appassionato, e posso soltanto dirvi che la voce di Shorter, le sue idee musicali, sono state e sono tuttora davvero un grande biglietto per un viaggio verso l’ignoto (come egli stesso amava ripetere): la sua è stata una visione musicale capace di spingere il confine un passo più in là, con coraggio, incoscienza, e un piacere intrepido per il gioco e l’avventura. Il suo sassofono si riconosce tra mille, lontano dalle caleidoscopiche complicazioni be-bop quanto dall’estremo free-form del free jazz, ed assomiglia davvero tantissimo ad un canto, un’espressione insieme melodica e spirituale, inequivocabilmente sua. Come sempre accade quando un gigante se ne va, se ne sentirà la mancanza: ma il miglior modo per omaggiarne la grandezza sarà senz’altro quello di seguirne le indicazioni, prendersi il rischio, affrontare quell’ignoto. Tutte cose alle quali non avevo assolutamente mai pensato (e che pure già erano lì) quando, ormai una ventina d’anni fa, misi sul piatto A Remark You Made e per la primissima volta mi innamorai di quel suono. Come dicono dalle tue parti, godspeed Wayne: faremo del nostro meglio per ricordarti come meriti e mettere in pratica tutto quello che, con coraggio, ci hai insegnato.

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