American Graffiti: Wong’s Cafe (Cory Wong + Vulfpeck, VulfVault#5, 2022)

E quindi anche il secondo post dell’anno riguarda Cory Wong: e stavolta, come promesso, si parla dell’album Wong’s Cafe, ufficialmente pubblicato lo scorso 7 gennaio. Realizzato e licenziato dai Vulfpeck come parte della serie Vulf Vault, Wong’s Cafe si differenzia nettamente dai lavori precedenti (dedicati alla collaborazione tra i Vulfpeck e Antwaun Stanley e alle composizioni di Woody Goss, ai brani cantati da Theo Katzman e ai migliori bass moments di Joe Dart) perché contiene esclusivamente materiale inedito, ed è di fatto un nuovo album di Cory Wong. Composto di tracce registrate prima dei lockdown, nel periodo 2018-2019, e di altri brani scritti, suonati e/o completati in tempi più recenti (in particolare da Wong e Jack Stratton, anche via Zoom), Wong’s Cafe è un po’ un disco di Cory Wong and the Vulfpeck, se vogliamo fare un po’ di spirito: un album che sposa al songwriting e alle doti da compositore di Wong (che ho avuto modo di raccontarvi abbastanza estensivamente negli ultimi anni su queste pagine), coadiuvato qua e là dal buon Woody Goss e dal genio irregolare di Stratton, la potenza di fuoco di quella che è una delle migliori macchine funk in circolazione, un motore inesauribile di inventiva e ritmo. Sull’asse Theo Katzman- Joe Dart passa l’ossatura della maggior parte di questi brani, cucita insieme con abilità sartoriale infinita dal buon Woody Goss, impreziosita dagli interventi di Joey Dosik (sia al piano Rhodes che al sax) e con gli infiniti contributi di Stratton, che suona tutto e mette mano ovunque, in particolare nel mix: al buon Cory Wong non resta che dare gas alla sua Fender Signature e cesellare con le sue consuete ritmiche (marchio di fabbrica della casa) e gli interventi solisti, con una qualità del fraseggio come sempre di un altro livello. Una gioiosa macchina da guerra che vi aspetta alla tavola calda dei genitori di Wong, che dà peraltro il titolo al lavoro: proprio Wong’s Cafe è il nome del ristorante, sito a Rochester (MN), di proprietà della famiglia Wong.
Smokeshow apre l’album con un prolungato duetto tra il sax di Eddie Barbash (super-ospite, già membro dei Wongnotes e che fa capolino in diverse tracce dell’album) e la chitarra elettrica di Wong, che oscilla tra ritmica pura e interventi solisti, come nella splendida coda finale: è un funk sulfureo, sorretto dai bassi profondi (anche il basso è suonato da Wong), e composto a quattro mani da Wonge Woody Goss. La splendida Disco De Lune (composta da Stratton) è una sintesi estrema e affascinante tra il lirismo pianistico di un notturno di Debussy e il funk anni ’70 in odore di dancefloor: c’è il consueto basso continuo di Sua Maestà Joe Dart, il piano a quattro mani di Goss e Stratton e Dosik che aggiunge le sue coloriture al Fender Rhodes, con Katzman che governa implacabilmente il groove e Wong che deve solo metterci la sua formidabile mano destra. Per un pezzo così pieno di intuizioni e suggestioni vale il solito commento pescato dal web: “The people beseeched them: “Oh mighty Vulf, smite us with disco funk Debussy.” The Vulf obliged. The people rejoiced” . Disco De Lune è soprattutto un capolavoro di giocosa inventiva, un istintivo calderone dove si trovano insieme la discomusic e un prolungato lirismo da classico chiaro di luna, in bilico tra l’etude e il puro divertissement iconoclasta e situazionista. You got to be you è invece figlia legittima del più classico sound Vulfpeck: composta ancora da Stratton, è un pezzo che non avrebbe sfigurato su Hill Climber, nobilitato dal wurli del buon Woody e cadenzato dal consueto lavoro fenomenale di Joe Dart al suo MusicMan Signature, con tanto di piccola deriva solista, e di Katzman dietro le pelli (ma che batterista è il buon Theo???); il sax che sconquassa la parte finale del brano è suonato stavolta di Joey Dosik. Let’s go! è invece uno strumentale composto da Stratton e Wong: il riff di chitarra “crunchy” suonato da Stratton sembra, insieme al lavoro del synth di Goss e del wurli suonato da Dosik, una risposta diretta al celeberrimo riff di The Power of Love, opera di Huey Lewis and The News, e per il resto è puro funk Vulf-oriented arricchito da un folgorante solo di synth dello stesso Goss. Il finale presenta un bel passaggio “mute” della batteria di Katzman (una tecnica notevole, vedere il video per credere), con tema suonato da Wong e ripresa conclusiva del riff: una piccola orgia sonora che travolge l’ascoltatore con la sua liberatoria potenza. Il breve intermezzo di Memories è un piccolo mandala di chitarre intrecciate da Wong, un minuto e quindici secondi di pura meraviglia sonora che apre la strada a Sweet Potato Pie, composizione ancora firmata da Wong: a metà strada tra un country polveroso e un piccolo gioiellino jazz-pop, Sweet Potato Pie mette in scena un Woody Goss che domina il panorama al wurli e al piano, con una deliziosa sezione solista centrale, incastonata tra gli arpeggi old-style di Wong e un avvolgente solo di Eddie Barbash al sax alto. Sweet Potato Pie è di fatto una mini-suite ricca di elementi affascinanti, ennesima testimonianza delle doti di compositore di Wong: un brano semplice e molto breve eppure ricco di variazioni, momenti e intuizioni, ora country ora musica da saloon, ora piccolo esperimento jazz ora purissimo pop. Radio Shack (Wong’s Café Version) è una rilettura del surf-Vulf già ammirato in The Joy Of Music, The Job of Real Estate). Alcune note a margine: Joe Dart è incredibilmente funky anche indossando un maglione e non la classica maglietta a righe, quindi, escluso che c’entri il vestiario, bisogna continuare a ritenere che il groove gli venga quasi tutto dal movimento del collo; questa è una di quelle canzoni che mettono allegria in un solo secondo, e il nuovo mix, che rende profondissimi i bassi, come un ruglio prepotente che emerge all’orizzonte, non fa che sottolinearne la potenza; Wong fa delle cose assurde e notevoli alla chitarra; come fa notare qualcuno nei commenti su YouTube, “Incredible the difference a little extra elbow room has on the sound of a song” (chi ricorda il video dell’originale, lo confronti con questo, che trova più in basso, e capirà di cosa stiamo parlando). Out in the Sun sta da qualche parte tra il sound post-caraibico di certi brani dei The Fearless Flyers e il funk stereoscopico delle migliori produzioni di Wong (che qui, oltre a occuparsi della composizione, suona letteralmente tutto, sax e piano a parte). Il resto la fa lo splendido lavoro di Eddie Barbash, un solista di caratura mondiale, che si adopera all’alto e al soprano creando una successione di mood splendidi: ma è l’intero pezzo ad essere affascinante, sospeso tra il riff ad alta velocità che ne espone il tema e il suo senso da slow-ballad, corroborato dal lavoro discreto ma sempre impagabile di Woody Goss al Wurlitzer. La breve Guitar Music è un altro momento di chitarra solista, il penultimo del lavoro: Wong fa capolino in maniera alternata ai due fronti dell’orizzonte stereofonico, e l’handclap accompagna questo piccolo esperimento sonico dentro la conclusiva (e ancora più breve) Kitchen Etude, musica per risvegli e mattinate con gli occhi gonfi. La chitarra di Wong diventa qui dolcissima, sostenuta da un organo (suonato ancora dall’artista di Minneapolis) e scandita dalle voci e dalle risate dei bambini (immagino, i figli del chitarrista). È un dolce risveglio, dopo un sogno breve e meraviglioso, intensissimo.
L’effetto di
Wong’s Cafe è un po’ quello di infilare una moneta in un jukebox e dare il via alle danze: sblocca ricordi, nostalgie e ha molto a che fare con un maestoso senso di meraviglia, anche quando gli episodi che presenta sono intimi o apparentemente dimessi (penso a Memories o Kitchen Etude). Dentro le dieci tracce che lo compongono si rinviene un po’ di tutto, dal low volume funk maestoso e gioioso di You Got To Be You e Let’s Go! fino al classicismo di certi passaggi di Disco De Lune, dalla discomusic (ancora Disco De Lune: proporrei di definirlo disco-funk-Debussy) al funk sulfureo e un po’ urban/decadente di Smokeshow ai fraseggi jazzistici di Barbash, che apre panorami inattesi (coadiuvato in questo dall’incredibile eleganza di Goss), dai momenti puramente chitarristici (le tre composizioni più brevi, semplici eppure portatrici di tre mood ben differenziati) al sound eclettico di brani come Sweet Potato Pie, in odor di frontiera, e Out on the Sun, a metà tra i caraibi e il funk contemporaneo di cui Wong è ormai maestro indiscusso, fino alla rilettura giocosa di Radio Shack (Wong’s Cafe Version) , l’unico brano di fatto non inedito del lotto, qui riproposto in una versione “espansa”, che respira molto più del claustrofobico, irresistibile Surf-Vulf dell’originale (e no, non si tratta solo della battuta sull’extra elbow room di cui sopra, anche se, lo so, è pazzesco, sembra proprio difficile negare che le due cose non siano in qualche modo collegate). Di fatto, con Wong’s Cafe siamo di fronte a quello che forse è già uno degli instant classic di questo 2022: un lavoro che cristallizza la forza di Wong come musicista, performer e compositore, e lo ritrae al suo meglio con la più incredibile delle band di supporto che si possa desiderare, ovvero proprio quei Vulfpeck che trasformano in oro tutto ciò che sfiorano. Tocca scomodare la massima di Stratton: it’s so funky, and it’s low volume. Dentro a questo giro di parole, pieno di quell’autoironia surreale che pervade tutte le espressioni del buon Jack e di conseguenza anche le sue manifestazioni artistiche (che si tratti di fare da deus ex machina per i Fearless Flyers o di condurre, da consumato direttore d’orchestra, la main band Vulfpeck), sta il succo di questa operazione e, di fatto, anche tanto del suo fascino in seno alla produzione ormai già sconfinata (e di qualità enorme) di Cory Wong: la capacità di sposare una gioiosa macchina da guerra funk con suggestioni disparate, che vanno dalla classica al rock al jazz, riuscendo a mantenere una dimensione quasi “home-made”, do it yourself, per dirla con un termine che va più forte (genialer dilettanten, li avrebbe chiamati qualcuno, anche se ovviamente di dilettantesco qui non c’è nulla), senza per questo dimenticare l’eleganza e la delicatezza del tocco, l’espressività musicale. Wong’s Cafe è (come tanti dei lavori del Wong solista), un album pieno di ispirazione ed eleganza, debordante talento, un inno al piacere di fare musica, e di farla insieme agli altri, senza costrutti, senza secondi fini, senza intellettualismi e senza pose da “artistoidi”: solo Musica, con la M maiuscola.

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