Back to the Future: Empire Central (Snarky Puppy, 2022)

“Our soundscape has expanded dramatically over the years. When the band started we were jazzier, brainy and world-music oriented. Moving into the Dallas scene we became groovier, more emotional, deeper in a sense. We focused more on communicating a clear message, understandable to a listener without dumbing things down.” (Michael League)

A tre anni di distanza dallo splendido album di studio Immigrance, pubblicato nel 2019 (e del quale avevo parlato nella mia top 10 relativa a quell’anno), e dopo un disco live monumentale come Live at the Royal Albert Hall (anche questo debitamente recensito su queste pagine, e peraltro insignito del Grammy come Best Contemporary Instrumental Album nella cerimonia del 2021), gli Snarky Puppy sono tornati il 30 settembre di quest’anno con Empire Central, album che riprende la lunga e premiatissima tradizione del live in studio con pubblico annesso che ha permesso alla super-band capitanata da Michael League di licenziare alcune delle sue opere migliori (o quantomeno più note, a partire dalla doppietta delle Family Dinner). In ogni caso, per chi mastica un po’ di musica il nome degli Snarky Puppy non è certo una novità: la band si è formata a Dallas nel 2004 per iniziativa del bassista e principale compositore, appunto il buon Michael League. Nato come ensemble universitario, il gruppo si è allargato negli anni fino a comprendere oltre 25 musicisti e dagli iniziali orizzonti puramente jazz ha saputo allargare il proprio spettro sonoro fino a comprendere la fusion, la world music, l’R’n’B, il funk e il soul, in una mezcla coloratissima di musica bianca e nera fortemente influenzata dalla scena musicale della città di Dallas e dai suoi protagonisti, in particolare Bernard Wright (tastierista e compositore coinvolto in progetti con gente del calibro di Miles Davis, Chaka Khan e Marcus Miller), che per la band è stato una sorte di nume tutelare: a quel punto, l’ingresso di musicisti quali Robert “Sput” Searight (batteria), Shaun Martin (tastiere) e Bobby Sparks (tastiere) ha fatto il resto, trasformando completamente il sound dell’ensemble. Oggi i componenti della band sono coinvolti ciascuno in vari progetti solisti, lavorano in qualità di turnisti per alcuni degli artisti più prestigiosi della scena internazionale e sono impegnati anche nella produzione musicale (basti pensare allo stesso League che ha lavorato in veste di produttore ai progetti di artisti quali David Crosby), e dall’esperienza degli Snarky Puppy è nata anche l’etichetta GroundUp Music, che licenzia tutti i loro album e anche molti di quelli nati da esperienze satellitari a quella dell’ensemble. Questo solo per dire, brevemente e senza pretesa di essere esaustivi, quanto dinamico sia l’universo che ruota attorno al progetto guidato da League: un po’ big band e un po’ super-band, gli Snarky Puppy hanno saputo frequentare negli anni il jazz come la fusion, la world music (con particolare riguardo per le ritmiche centro e sudamericane) come l’R’n’B (al punto da ricevere un Grammy anche nella categoria Best R&B Performance nel 2014 per la loro versione del singolo Something, originariamente scritto da Brenda Russell, con il contributo vocale di una straordinaria Lalah Hathaway), il calore del soul con certe asprezze del rock (specialmente nel sound dei chitarristi). Empire Central è una specie di ritorno al passato per la band di League: fin dalla copertina, che raffigura una versione stilizzata e coloratissima dello skyline di Dallas (con la delicata intrusione delle silhouette di alcuni strumenti musicali), l’album vuole pagare un tributo (con un pizzico di sana nostalgia) alla città che è stata teatro di tutta la vicenda umana e artistica degli Snarky Puppy (nonostante l’attuale “base” dei nostri sia New York). Le 16 tracce di Empire Central vanno pertanto a comporre un ricco mosaico dedicato all’idea stessa di Città, declinata spesso in un funk decisamente urban, con echi gospel e meravigliose tessiture melodiche dei fiati: un’esperienza immersiva che è insieme omaggio al e reinvenzione del passato, cura della memoria allo scopo di farne spinta verso il futuro. Quella contenuta nei solchi di Empire Central è musica compiutamente contemporanea, che respira e vive di pari passo con l’oggi: la dimostrazione che, in un’epoca di intelligenze artificiali e solipsismi elettronici, l’esperienza vitale (e viva) di fare musica insieme, come un ensemble, riesce ancora a produrre Meraviglia, a lasciare a bocca aperta chi ascolta, finanche a commuovere. Non bisogna fare l’errore di aspettarsi un disco “concentrato” e quasi granitico come erano Culcha Vulcha o Immigrance, centrati attorno a un’idea di base e sviluppati a partire da essa (delle specie di concept album, se vogliamo): sebbene il tema di Empire Central sia chiaro, palese e dichiarato (Dallas, la Città, e la memoria), la band lo affronta in sedici movimenti profondamente diversi tra loro, dando fondo a un universo enorme di ispirazioni, riferimenti e intenzioni, percorrendo un numero quasi incalcolabile di direzioni, con lo sguardo rivolto avanti verso il futuro.

Keep it on your Mind è il brano che apre il disco con un riff muscolare di chitarre distorte, accarezzato da un bellissimo contrappunto dei fiati, un background che si fa immediatamente panorama melodico: Keep it on your Mind è un funk lento e intenso, grondante groove, una specie di dichiarazione d’intento e uno splendido esempio di come si possa (e si debba) portare un tema melodico lasciandolo rimbalzare tra i vari componenti dell’ensemble; se ci fate caso, il tema è esposto prima dalle chitarre, che imitano le acciaccature dei fiati, e poi dai fiati stessi, per essere infine rimpallato tra gli altri musicisti, rielaborato, rimasticato, riletto e risputato indietro fino alla sua ripresa conclusiva. È jazz nella sua forma più pura e potente, rivestito da un sound potentemente contemporaneo, a dimostrazione di come il linguaggio musicale stesso del jazz sia di fatto un linguaggio della contemporaneità, più che vivo: presente, attuale, forse l’unico linguaggio musicale che possa riuscire a racchiudere pienamente la complessità dei tempi che viviamo. Il piccolo trotto della seguente East Bay, composta dal multistrumentista Chris Bullock, si apre in un vorticoso unisono dei fiati, cadenzato dal basso di League (ricoperto di effettistica) e dai synth: il groove deciso della batteria di Larnell Lewis prelude all’esposizione del tema, e East Bay si ricopre di una densa caligine funky, un brano che sembra uscire direttamente dall’immaginario della musica nera degli anni ’70, irresistibilmente ritmico. Bet, composta dal buon Michael League, ha il classico sound fusion che è un marchio di fabbrica dell’ensemble americano, con un basso profondissimo a scavare le fondamenta ritmiche sulle quali i fiati (e il terzetto di chitarre) costruiscono e propongono il tema, e arricchito da due strepitosi soli del sax tenore di Bob Reynolds prima e della combo Moog + Talkbox dell’ineffabile Shaun Martin dopo. Pura energia e una cura maniacale del dettaglio negli arrangiamenti che produce un’esperienza sonora di livello superiore, nella quale la tecnica degli strumentisti (sopraffina, chiaramente) si mette completamente al servizio della Musica. Cliroy, composta dal trombettista Jay Jennings in onore di due giganti come Clifford Brown e Roy Hargrove, è una ballad che oscilla tra la delicatezza di uno slow e l’intensità del funk. Take it! , opera del tastierista Bobby Sparks, è invece un’autentica macchina del tempo che riporta l’orologio indietro di quarant’anni, in virtù anche dell’intervento del grande Bernard ‘Nard Wright, nume tutelare della band e grande protagonista del funk degli anni ’80 (forse Haboglabotribin’, con la mostruosa linea di basso del grande Marcus Miller, tratta dall’album ‘Nard del 1981, dirà qualcosa a qualcuno dei miei lettori): lo strepitoso e torrenziale solo di Wright alle tastiere resterà anche, purtroppo, l’ultima testimonianza del lavoro di studio dell’artista originario di Jamaica nel Queens (New York), trasferitosi a Dallas in giovane età influenzandone irrimediabilmente la scena musicale, che avrebbe trovato la morte in un tragico incidente stradale appena tre mesi dopo le sessions di Empire Central. La strepitosa odissea di Portal, composta dal percussionista Marcelo Woloski, è eretta su un fulminante ritmo candombe uruguaiano, ma porta con sé una miscela di sapori che vanno dal latinoamericano al mediorientale, aprendo la mente e il cuore a un viaggio musicale metafisico verso terre sconfinate: chi scrive non ha potuto fare a meno di associare, più o meno inconsciamente, il tema e le sonorità del brano allo splendido racconto The Merchant and the Alchemist’s Gate scritto da Ted Chiang, e contenuto nella raccolta Exhalation (Respiro, nell’edizione italiana). Sono principalmente i fiati a colorare la melodia del brano, con le trombe di Jennings e Mike Maher in grande evidenza e l’ennesimo, strepitoso solo del sax tenore di Bob Reynolds. L’elegantissima Broken Arrow, composta da Justin Stanton, ha un sound che tiene insieme echi di Crosby, Still, Nash & Young e il soul di Al Green: guidata dagli intrecci magici delle chitarre di Bob Lanzetti, Mark Lettieri e Chris McQueen e cadenzata dai comp dei fiati, Broken Arrow scivola delicatamente sui bassi decisi e affascinanti di Michael League, una suite lungo la quale c’è ampio spazio per il suono atmosferico delle tastiere di Stanton e per una coda gonfiata meravigliosamente dalle bordate dell’hammond suonato da Sparks. Le vampate rock di RL’s, altra composizione di Michael League, chiudono la prima metà del lavoro. RL’s è una specie di orgia di chitarre distorte e percussioni, con un groove granitico impresso nel fuoco dalle pelli di Lewis e di Jamison Ross e dai bassi del solito League: su un tappeto ritmico implacabile si intrecciano gli interventi dei fiati e le risposte delle chitarre soliste, con Lanzetti in grande evidenza sul primo solo, cui segue un intervento di Mark Lettieri e infine un solo delle tastiere di Sparks.

Il percussionista Nate Werth è il principale compositore del brano che apre la seconda metà del lavoro: dedicata alla mascotte dell’Alma Mater dei musicisti, Mean Green è un funk dal groove trascinante, imperniato su una bellissima linea di basso di League e sugli intarsi delle chitarre, con la linea melodica magistralmente gestita dai fiati. Il break di batteria prelude a un unisono irresistibile di tastiere e basso e a un solo acidissimo di una chitarra imbottita di effettistica. La multiforme Mean Green lascia spazio al panorama di Fuel City (composta da Bill Laurance), urban funk costruito su un’intelaiatura ritmica ricchissima, con uno splendido solo di tastiere dello stesso Laurance. Free Fall è un’altra composizione di Stanton, con echi caraibici che si sposano ad atmosfere quasi power-pop (sempre relativamente parlando): una piccola sinfonia di contrappunti e controcanti che introduce magistralmente Belmont, un altro dei pezzi forti della scaletta. Belmont è una composizione di League, ispirata direttamente alla città di Dallas: prende il titolo dalla strada nella quale abitava la famiglia del musicista, a pochi isolati dal Gezellig bar dove ogni settimana si esibiva il trio di Bernard Wright, autentico ritrovo per tutti i più importanti musicisti della scena cittadina. Un contesto di sottile e raffinatissima nostalgia per un brano che ha la struttura di una ballad tenuta assieme da un lieve, sotterraneo ritmo di flamenco: dentro Belmont ci sono il groove granitico di League e gli intrecci delle tastiere di Stanton, Sparks, Laurance e Shaun Martin, con interventi sparsi delle chitarre e dei fiati, e soprattutto c’è un affascinante assolo di violino suonato da Zack Brock. Pineapple, composta a quattro mani da League e Mike Maher, è un po’ un tributo allo swing, alla dance e alla musica beat, un gorgo groovy sul quale si stagliano prima il solo travolgente del sax tenore di Bob Reynolds e poi quello di Justin Stanton al piano elettrico Yamaha CP70. Pineapple esplode verso il finale in un groove inarrestabile e quasi infernale, che sfocia diretto nelle ritmiche diseguali e affascinanti di Honiara, composta da Zack Brock, che pescano tanto da sonorità centroamericane quanto dalla solida tradizione della black music, con splendidi interventi solisti di tromba e chitarre. Coney Bear, firmata da Bob Lanzetti, sembra rifarsi direttamente alle sonorità di ensemble come i Parliament-Funkadelic e soprattutto all’opera di artisti come Sun Ra: un devastante groove del basso di League scava le fondamenta di questo funk ad alt(issim)a tensione, che prende colorate derive cosmiche e psichedeliche, a metà strada tra space music e un polifonico free-jazz del futuro. E a proposito del futuro, la chiusura dell’album, affidata a Trinity (composta da Mark Lettieri), è un fulgido esempio di cosa possa essere il jazz che verrà, o quantomeno la sua costola precipitata in questo nostro presente e incarnata dal sound colossale e senza tempo della big band guidata da Micheal League: un brano dalle molteplici atmosfere, che oscilla tra il progressive-jazz, un mastodontico funk fatto di ostinati e incisi del basso e dei synth, e il lavorio incessante delle chitarre di Lettieri, Lanzetti e McQueen, senza dimenticare gli interventi di Martin al Talkbox e al Vocoder e le atmosfere rarefatte partorire dal Prophet 10 di Stanton. Trinity è una monumentale e irresistibile gioia per le orecchie e il cuore: dal groove colossale che la scandisce, generato dal Fender Precision di League e dai Moog e governato dalle due batterie di Lewis e Ross, ai suoi momenti più rarefatti, dagli shout chorus dei fiati al solo di chitarra con cui Lettieri infiamma la coda del brano, tutto concorre a fare del brano un’esperienza musicale multidimensionale, qualcosa che difficilmente potreste ascoltare nei lavori di una qualsiasi altra band.

Ci sono dischi dei quali è proprio impossibile parlare male, e Empire Central è di sicuro uno di questi: perché è perfetto in ogni sua minima parte, è un trattato sulla potenza del groove, sulla profondità del jazz e sulla visionarietà dei suoi profeti, in questo caso un ensemble che è una big band ma anche una super-band, una combo stellare di musicisti dai superpoteri stratosferici capaci di distillare perle musicali che fanno soprattutto di una colossale potenza emotiva il proprio più autentico punto di forza. Normalmente, quando si parla dei grandi musicisti, si evita l’imbarazzo di entrare nel dettaglio etichettandoli come “freddi”: termine che non significa nulla, e che sovente usano i (molti) commentatori che di musica capiscono poco o niente, mentre sarebbero tranquillamente in grado di scrivere inutili e pallosissimi trattati su capigliature e atteggiamenti. Non c’è niente di più miserevole di chi si crede artista perché veste in un certo modo, parla in un certo modo, finanche pensa in un certo modo: think different, proclamano a ogni piè sospinto coloro che pensano tutti, invariabilmente, dentro la stessa scatola. Ecco, l’ensemble capitanato da Michael League ha il coraggio di pensare fuori da quella scatola, in direzione del domani, una direzione che non si può minimamente prevedere, si può solo dire che punta Altrove, lontano. Jazz del futuro, appunto: Empire Central non avrà forse l’esattezza e la concisione di Immigrance, né la sua profonda urgenza comunicativa, quella di restituire in musica l’immagine cangiante, inafferrabile e multiforme di un mondo che cambia, un mondo di mescolanze e connessioni; è più un lungo discorso sull’eredità, sulle origini e sul modo di render loro omaggio, e su un’intera scena musicale, quella di Dallas, dalla quale la band proviene e sembra voler tornare con queste 16 tracce, inevitabilmente arricchita dal proprio variegato bagaglio di esperienze, maturate negli anni di lavoro compositivo e di tour; tuttavia, l’odissea musicale lungo la quale questi straordinari musicisti ci accompagnano è ancora qualcosa che tiene incollati alla sedia, con le orecchie piene di sincero, profondo, curioso stupore. Bisogna solo tornare un po’ bambini, e ricominciare a vedere “la luce all’interno del colore”: Empire Central è un concentrato di ricchezza, di calore, di bellezza e di pathos distillato in un’ora e mezzo di meraviglie musicali, che ripropone con forza gli Snarky Puppy come la più pura e affascinante avanguardia della miglior musica contemporanea. C’è la tecnica, è vero, e ce n’è a iosa: ma c’è soprattutto l’afflato umano, il calore della memoria, la forza del ricordo e la tenacia di chi guarda coraggiosamente al domani, poggiando i piedi ben saldi nell’oggi e senza dimenticare il proprio passato. Musica realmente progressiva, se volete, ma forse meglio ancora progressista, in mezzo a un panorama di sempre più desolanti “immondizie musicali”: musica da custodire con cura.

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