Bassi e bassisti che mi hanno svoltato il 2021

Visto che ho la tendenza a trasformare eventi vieppiù casuali in tradizioni consolidate, dopo il grande successo dello scorso anno ritorna l’appuntamento con la piccola lista dei bassisti e dei suoni di basso che più mi hanno ispirato/ affascinato/ spinto a migliorare/ reso invidioso durante questo rocambolesco 2021. Avendo reso a questo punto tutta questa faccenda ufficiale, significa che dovrò trovargli un titolo migliore: fortuna che ho un altro anno di tempo per pensarci…

Paul Chambers e So What (tra le altre)

Come forse ricorderete, nel 2020 ho ricominciato a studiare. Tra le novità del 2021, bisogna considerare che ho anche iniziato a studiare il contrabbasso, così da potermi confrontare in maniera più “fisica” con la maggior parte dei bassisti (e della musica) che adoro. Paul Chambers è uno di questi, ma a lui lego anche un altro ricordo: So What è stata la prima linea di basso che ho suonato sul mio fretless rimesso in sesto dal liutaio Alessandro Bellan, con una nuova tastiera cieca in ebano e una nuova elettronica. Su So What si potrebbero dire/scrivere un milione di cose e sarebbe comunque difficile trovare qualcosa che non sia già stato detto/scritto, quindi vi risparmio il pippone. Vi lascio qui sotto un video IG che mi ritrae intento proprio quel giorno (correva il 13 febbraio) a suonare il brano in compagnia del mio grande Maestro Daniele Nesi (lui è quello che sa suonare). Siccome io non avevo capito un cazzo, tanto per cambiare, nella walking ho suonato dorica di Re a diritto per quattro minuti: vi assicuro che dopo sono migliorato (anche nell’intonazione).

Ma, parlando di fretless, Sean Hurley ha qualcosa da dire…

Sean Hurley è un bassista che seguo da un po’, ed è anche grazie a lui che sono arrivato ad ascoltare uno dei dischi che ho preferito tra quelli usciti lo scorso anno, Dog Years di The Night Game (al secolo, Martin Johnson). Del disco ho già parlato abbondantemente, qui voglio farvi ascoltare il penultimo brano, UFO, che vanta una meravigliosa linea di basso fretless suonata da Hurley: fin dal primo ascolto, il tono e il timbro del basso usato sul pezzo mi ha letteralmente steso. Ho avuto l’occasione di fare un paio di domande a Hurley via Instagram, e ho scoperto che trattasi di un MusicMan Stingray fretless anni ’90; e, non ci crederete mai (sono ironico), ma il segreto di questo suono è tutto nelle dita, niente effetti né altro. Sparatevela a tutto volume: se non vi viene voglia di comprarvi un fretless dopo aver sentito questa, tornate al vostro slap (by the way, Hurley è bravo anche in quello, cercatevi Our Generation dallo stesso disco per farvi un’idea)!

Non ci voglio passare per monomaniaco, ma dove lo mettiamo Steve Bailey?

Ora direte: eccheppalle, il fretless il fretless e ora ci fa una lista con solo gente che suona il fretless! Lungi da me, però devo dire che, quando smattavo per trovare l’intonazione sulla nuova tastiera del mio strumento di cui parlavo poc’anzi, qualche breve video educativo del grande Steve Bailey trovato su YouTube ha fatto la sua parte, nel bene e nel male (soprattutto quando il nostro a un certo punto dice che “Nessuno è sempre, costantemente, al 100% intonato durante un’intera performance” : cito a memoria e traduco liberamente, ma il senso era quello). Lui invece, contrariamente a quanto affermato, trovo che sia sempre meravigliosamente intonato, e in questo brano poi c’è Becca Stevens che ha una voce che più bella non si può.

E, dato che ci siamo, come dimenticare il buon Pino?

Ok, vi prometto che ne metto giusto un altro paio e poi lascio stare i fretless (forse): qui però non posso esimermi dal citare uno che sul suo poderoso suono di fretless ci ha costruito una carriera, incidendo un solco profondissimo su una gran fetta della musica pop a partire dagli anni ’80. Sì, parliamo di Sua Maestà Pino Palladino, che quest’anno ho ascoltato (e studiato) parecchio assai: dai lavori con John Mayer (Continuum, in particolare) ai pezzi suonati con Yebba per Dawn, uscito quest’anno, fino al suo folgorante debutto “solista”, lo splendido Notes With Attachments. Ecco, in quest’ultimo album c’è un lavoro al basso (non necessariamente fretless) veramente, veramente mostruoso. Vi lascio qui un Tiny Desk Concert che vi chiarisce un po’ meglio di cosa stia parlando, e che comunque è testimonianza preziosa di un album davvero, davvero bello (PS: a un certo punto c’è anche una chitarra fretless… direi che siamo in fase pandemica).

Sebastián Tozzola che fa cantare qualsiasi strumento gli capiti in mano

A proposito di timbre che invidio, qui c’è il buon amico Sebastián Tozzola che fa cantare il suo Music Man Stingray fretless BFR 5 corde, ed è sempre un piacere. Come forse ricorderà chi ha letto questa rubrica lo scorso anno, l’ascolto di Sebastián è stata una delle molle che mi hanno spinto a riprendere a studiare, e soprattutto a lavorare sul mio sound personale. Chissà, se un giorno farò meno ridere di quanto avete visto nel primo video, un po’ lo si dovrà anche a questa ispirazione (per farvi contenti, ho scelto a titolo d’esempio un video nel quale il buon Sebastián suonasse anche un basso fretted).

Ian Martin Allison è un altro bassista da seguire (soprattutto se vi piacciono i suoni un po’ sintetici/anni ’80 ma anche ambient)

Da quando ho ricominciato a studiare e a cercare massicciamente video di bassisti su YouTube, mi sono imbattuto in molti ottimi musicisti ma uno che mi ha fatto una grossa impressione è Ian Martin Allison: quello che mi ha colpito del musicista di Minneapolis è soprattutto l’inventiva, l’interesse per il mondo del synth bass, il gusto per i suoni, la voglia di trovare soluzioni che plasmino i brani. Un ottimo esempio è il suo lavoro su una traccia della band Oklahoma, Turn It All Back, di cui avevo già parlato: sfortunatamente non si trova più il video con la linea di basso isolata, che rendeva maggiormente l’idea della potenza della sua intuizione. Però la canzone è comunque bella. Vi lascio anche un bel video che testimonia del suo lavoro sull’effettistica, un duetto con la cantante americana Kara Laudon (notate che il buon Ian suona un Gibson semihollow che sarebbe lo zio del mio beneamato Epiphone Jack Casady).


Un altro mostro sacro: Tony Levin

Quest’anno ho scoperto che mi piace ancora tantissimo Peter Gabriel, e se date retta al riassunto annuale della mia attività su Spotify vedrete che, praticamente, ho trascorso in compagnia del buon Peter la stragrande maggior parte dell’anno. L’occasione di questa frequentazione era troppo ghiotta per non mettersi un po’ a studiare l’opera del bassista della band di Gabriel, ovvero il grandissimo Tony Levin: certo, chiaro che avrei potuto anche risparmiarmi/vi/gli di brutalizzare una delle sue linee di basso più note, ma com’è che si dice? Se non è sul web, non esiste. E poi volevo farvi vedere anche il mio splendido Fender Squier Classic Vibe 60s Jazz Bass.

Bakithi Kumalo, Richard Bona e lo sapevate che gli africani hanno inventato anche le poliritmie?

Un’altra bella fetta dell’anno l’ho passata ad ammirare alcuni bassisti africani, in particolare Bakithi Kumalo (mi autodenuncio: suona il fretless anche lui, ma che timbro mostruoso che ha!! NB: ascoltatevi tutto il pezzo, ma sappiate che a 2:00 minuti succede una roba da capogiro) e Richard Bona (la chicca che vi lascio è proprio da intenditori). Ovviamente si tratta di nomi che non abbisognano di ulteriori presentazioni, però anche qui ho capito che c’è tanto, tantissimo da studiare. Un bello stimolo è arrivato da una piccola masterclass fatta col sempre benedetto Maestro Nesi, incentrata in particolare sulle poliritmie: direte voi, che c’entra col resto? C’entra. Siccome siamo bassisti e si parla di groove, vi lascio un paio di spunti che magari vi stimolano qualche riflessione che non avreste mai pensato di fare.



Henrik Linder che fa cose estreme

Devo confessarvi che Henrik Linder non è il tipo di bassista che generalmente mi scalda particolarmente il cuore, anche e soprattutto perché si diletta principalmente di slap e a me lo slap non piace non riesce fa provare una tremenda invidia verso chi lo sa fare bene non entusiasma poi così tanto, però è veramente un grosso musicista e una bella prova la offre nel disco collaborativo tra i suoi Dirty Loops e Cory Wong, Turbo. Ci sono tanti bass moments di altissimo livello disseminati lungo le sette tracce dell’album, ma vi confesso che il solo su Follow The Light è quello che preferisco, e penso sia una di quelle cose che possono levarvi il sonno: la migliore risposta (l’unica?) è la faccia che fa Grace Kelly durante l’esecuzione (non temete, nel video qua sotto è mostrata chiaramente in un apposito riquadro). Come già scritto nella mia recensione di Turbo, l’unico aggettivo che mi viene in mente di fronte a questa cosa è in inglese: mesmerizing.

Le visioni di giada del più grande di tutti

Niente, alla fine vi voglio lasciare comunque con Scott LaFaro perché… beh, perché è Scott LaFaro. Jade Visions è una sua composizione autografa, suonata col trio di Bill Evans (che comprendeva anche Paul Motian) nel corso del celebre concerto del Village Vanguard del 25 giugno del 1961, e in tale occasione incisa, pochi giorni prima che LaFaro perdesse la vita in un incidente stradale. Il tocco di Evans su questo brano ricorda più che mai un Debussy misurato, essenziale, e ogni nota è densa di significato: LaFaro è stato una bellissima meteora che ha attraversato il firmamento della musica per un periodo decisamente troppo breve, e la sua morte improvvisa avrebbe lasciato Evans sconvolto per un lungo periodo. L’insistenza con la quale, negli anni seguenti a quel giorno, Evans continuò a riproporre nei suoi concerti Porgy (I love you, Porgy) , suonata quel 25 giugno insieme al trio, ma sempre o quasi sempre in versione per pianoforte solo, si può ricollegare a un ricordo di Motian: While we were listening to that number on the tape, Bill was a wreck, and he kept saying something like ‘Listen to Scott’s bass, it’s like an organ! It sounds so big, it’s not real, it’s like an organ, I’ll never hear that again’. Come faceva notare il giornalista Adam Gopkin in un suo bellissimo pezzo sul New Yorker, When we hear Evans play “Porgy,” we are hearing what a good Zen man like Evans would have wanted us to hear, and that is the sound of one hand clapping after the other hand is gone. Che questa delicata visione di giada possa accompagnarvi lungo un buon 2022.

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