Bassi e bassisti che mi hanno svoltato il 2022

Lo so, l’anno scorso avevo promesso di trovare un titolo migliore per questa rubrica, ma sono passati 12 mesi e ancora non ci sono riuscito… giuro che entro il 2023 cercherò di cavare un ragno da questo buco, ma nel frattempo questa rubrica (giunta ormai alla sua terza edizione) tocca tenersela così com’è. Per i neofiti, trattasi di roba da bass-nerds: una lista vieppiù casuale di eventi, strumenti musicali, artisti incrociati spesso (o quasi sempre) per caso che abbiano avuto una qualche influenza sul vostro blogger preferito nella sua veste di musicista non professionista nel corso dell’anno appena trascorso. Come direbbe Jack Stratton, Let’s Go! Let’s Go!

Come to the dark side! We have upright bass!

La principale novità musicale di questo mio 2022 è relativa al fatto che ho iniziato a suonare il contrabbasso (o quantomeno a farlo un po’ più seriamente)! Dopo un corteggiamento durato un annetto, a Marzo è arrivato anche il mio primo contrabbasso, che è un contrabbasso inglese ¾, modello Primavera50 bass, venduto dalla compagnia britannica tsp-ltd (The Sound Post ltd) e rilavorato dal mitico liutaio Alessandro Bellan di Fara Novarese (che come forse ricorderete è lo stesso uomo che ha ridato nuova vita al mio adorato fretless). Mi sarebbe piaciuto farvi vedere qualche video di me che suono, ma temo di essere ancora troppo cane per condividere roba in giro. Vi lascio una foto, e tre-quattro considerazioni sparse e banali: 1) il contrabbasso è tutta un’altra bestia rispetto al basso elettrico, e come mi dice sempre il Nesi “non perdona”; 2) nell’elettrico hai sempre i magneti che ti salvano, qui il suono lo devi cavare fuori tu (“cavata” è un termine chiave, per l’appunto); 3) è uno strumento meravigliosamente “fisico”, lo devi davvero abbracciare e devi sentirlo che ti pesa addosso: perfetto se sei in crisi d’astinenza di affetto e hai bisogno di molti free hugs; 4) in prima posizione c’è un universo intero, basta ricordarsi che si può suonare anche in discendente e non solo, perennemente, in ascendente. Ecco, non fate come me: studiate di più.


Sogni proibiti e cottarelle estive

Da bravo bass nerd, i bassi elettrici restano i miei principali oggetti del desiderio. Quest’anno ho cercato di trattenermi (anche perché un contrabbasso costa, credetemi…), però ho comunque provato un paio di bestiole che accoglierei volentieri nella mia collezione. La prima è un Music Man Stingray Special 4 dello splendido colore burnt ends con battipenna shell, provato da Tomassone lo scorso Maggio prima del concerto dei Low, di cui allego foto: prezzo proibitivo, ahinoi.

La seconda è invece un amore estivo travolgente, un bassettino short scale Gretsch, modello G2220 Junior Jet Bass II, con due magneti single coil meravigliosi e un colorino shell pink che mi piace assai: ho avuto il piacere di vedere e toccare con mano un modello analogo in verde, in possesso di un collega che viene a lezione con me, e devo dire che, dovessi decidere di provare una scala corta, questo mi intrigherebbe assai. Prezzo per tutte le tasche, peraltro.

Di quella volta che ho omaggiato (male) il buon Pino Palladino…

Da bravo fan dei bassisti di un certo livello, dopo aver massacrato il buon Tony Levin nel 2021 (cliccare qui per credere) ho deciso di dare due colpi ben assestati anche al grande Pino Palladino, che senza dubbio per fortuna sopravvivrà a questo attentato, risuonando (male e con un pessimo audio in presa diretta) sopra alla bellissima Waiting on the World To Change, tratta dal seminale album Continuum inciso dal trio di John Mayer (di cui ovviamente Pino ha fatto parte). Semmai decideste di schiacciare play, prendete il video per quello che è: 1) un perfetto appreciation post per il mio bellissimo Epiphone Jack Casady (ma quanto è bello???); 2) un’ottima occasione per recuperare Continuum nel caso non lo ascoltaste da un po’ o ve lo foste perso fino ad oggi.


… e di quella volta che ho fatto il turnista

Beh, in realtà il fatto vero e proprio è accaduto nel 2021 (e qui vi raccontavo tutti i dettagli della cosa), ma in ogni caso il brano è uscito quest’anno: sto parlando di Take Control, singolo apripista di Me And My Army, secondo album del buon Phomea (al secolo Fabio Pocci, già mio compare in MelaVerde Records insieme a Francesca Ulivi e Luca Di Nuzzo), sul quale (come forse già saprete) ho avuto il piacere (e l’onore) di suonare il basso. Take Control ve la lascio qui sotto, come buon augurio per un 2023 pieno di nuova musica, voi però ascoltatevi tutto il disco perché 1) è molto bello e 2) ci sono dentro un sacco di musicisti interessanti ma soprattutto la nostra Francesca!!


Amor fou: i bassisti degli Steely Dan (e di Donald Fagen)

La grande riscoperta musicale di questo 2022, per me, sono stati gli Steely Dan: un nome che in passato associavo a poche canzoni e che invece, nel corso dell’anno, ho approfondito con parecchia intenzione (come avrà ben notato chi abbia frequentato il blog negli ultimi 2-3 mesi). Sugli Steely Dan e sul duo Donald FagenWalter Becker non aggiungo nulla, tanto non c’è nulla da dire che non sia già stato ampiamente detto: da “bassomane”, invece, non posso che restare ogni volta a bocca aperta (ma che dico aperta? Spalancata!) di fronte alle schiere di bassisti formidabili che si sono avvicendati negli anni nei vari dischi della band (e anche in The Nightfly, il debutto solista di Fagen). Nomi tipo Chuck Rainey, Anthony Jackson, Abraham Laboriel, Marcus Miller per non parlare dello stesso Walter Becker (signor bassista: ascoltatevi il suo lavoro su Gaucho per credere). Avrei voluto omaggiare (massacrare, n.d.r.) qualcuno di questi bassisti con un mio video, ma “ne devo mangiare ancora di pastasciutta”, come direbbero alcuni poeti contemporanei: vi lascio pertanto un pezzo che è una meraviglia sia per chi ama il basso elettrico che per chi ama la chitarra elettrica, ma diciamo pure una goduria per chi ama la Musica più in generale. A voi Peg, tratta da quel gran disco di Aja, con il signor Chuck Rainey al basso (buoni propositi per l’anno nuovo: magari poi più avanti la analizziamo insieme e facciamo anche un video)!


Però anche il bassista che suona questo pezzo qua non è male!

Da bassista ho questa tendenza ad andare sempre a cercare il basso in ogni brano che ascolto (deformazione professionale? Forse, se fossi un professionista). Nella musica che si sente in giro oggigiorno spesso è difficile anche trovare strumenti “reali”, ma per fortuna non sempre è così. Ad esempio, con About Damn Time di Lizzo non ho dovuto cercare nemmeno troppo, perché c’è una linea di basso ME-RA-VI-GLIO-SA, che fa letteralmente il pezzo. Facendo qualche ricerchina, ho scoperto che l’ha suonata un certo Ricky Reed, producer musicale anche un po’ sul genere fighetto, coautore del brano insieme a Blake Slatkin e, ovviamente, alla stessa Lizzo. Potevo esimermi dal massacrarla un po’? Ovviamente sì, ma l’ho fatto lo stesso, e quindi ecco a voi il risultato. Per guadagnare qualche punto, vi dico che mi sono addirittura sforzato di riaccordare il mio bellissimo Squier Classic Vibe 60s Jazz Bass un semitono sotto, perché i primi 500 tentativi li ho fatti con l’accordatura normale ed erano anche peggiori. Una cosa molto carina che ho scoperto le prime volte in cui ho suonato questo pezzo, la primavera scorsa, è che per improvvisare e per fraseggiare puoi usare la stessa scelta di note che può essere usata su Superstition di Stevie Wonder. Non è che sono fenomeno io, me ne sono accorto perché mentre studiavamo lo stile e gli accompagnamenti del basso nei brani di Wonder in previsione delle Pistoia Blues Clinics (vedi qualche scroll più giù), il mio Maestro (il grande Daniele Nesi, che colgo l’occasione per salutare) mi ha fatto vedere una scelta di note valida per “rilavorare” in maniera originale il groove del pezzo (mantenendo cioè la pulsazione ritmica ma variando la figurazione), e ascoltando About Damn Time mi sono accorto quasi istantaneamente che quelle stesse note ci suonavano proprio tutte (infatti se ci fate caso nel video a un certo punto durante un bridge suono, ma sarebbe meglio dire “improvviso”, una scalettina che non c’è nel brano originale: quella scalettina viene dalla scelta di note fatta ai tempi con Daniele lavorando su Superstition). Immagino che studiare serva proprio a questo!!
NB: chiedo perdono a tutti quelli che sanno slappare davvero e che sentiranno una fitta al cuore vedendo questo video, purtroppo sullo slap non sono un granché.


Dio benedica Tony Levin

Tony Levin ormai lo si può definire un amore di lungo corso. Smaltita la delusione per non essere riuscito a procurarmi un biglietto per il concerto di Peter Gabriel a Milano del prossimo anno (sigh), continuo ad ammirare il suono del buon Tony. Ve lo propongo in una performance decisamente niente male, ovvero mentre accompagna Starless dei King Crimson. By the way, pezzi come questo (e artisti come Levin) sono la ragione più valida per correre a comprarsi un Music Man prima di subito…


Le clinics del Pistoia Blues e la mano sinistra di Stevie Wonder

Anche quest’anno ho seguito i corsi delle Pistoia Blues Clinics, tenuti nuovamente a Serravalle Pistoiese (casa mia, tanto per intendersi) tra l’8 e il 10 Luglio. Il tema di quest’anno era The Legends, ovvero l’arte e la musica di Aretha Franklin e Stevie Wonder: in sostanza, un’analisi delle affinità e divergenze tra il sound della Stax Records e quello della Motown Records, con i rispettivi protagonisti (sto parlando sempre di bassisti, perché ovviamente ho seguito il corso di basso: Donald “Duck” Dunn, James Jamerson, Jerry Jemmott, Bob Babbitt e giù fino a Nathan Watts), passando attraverso lo studio, l’analisi e la pratica dei brani più belli tratti dall’infinito catalogo dei due artisti. Non mi dilungo sul valore formativo e umano di un percorso musicale che permette ad allievi di tutti i livelli, dagli absolute beginners ai musicisti quasi professionisti, dai bambini a chi ormai ha più di qualche primavera dietro le spalle (come il sottoscritto), di passare del tempo e soprattutto condividere conoscenze con artisti affermati e di altissimo livello, senza contare il fatto che con i Maestri si va a condividere anche il palco nel corso delle esibizioni: sono esperienze che lasciano a chi vi partecipa molto più di quello che si possa esprimere a parole, e soprattutto sono modi molto affascinanti di frequentare il bello e stare insieme agli altri, pratiche purtroppo sempre meno diffuse. Se ripenso alle mie due sole esperienze alle clinics, nelle edizioni 2021 e 2022, vedo una trasformazione in termini di consapevolezza, confidenza e voglia di provare cose nuove, e penso che la differenza nell’approccio che abbiamo quando ci mettiamo in gioco la facciano anche (e forse soprattutto) occasioni come queste: per me, è uno splendido percorso di crescita che si condivide appunto con grandi maestri ma anche con una bella masnada di amici, musicisti e gente con cui si sta bene insieme. Finiti i discorsi di rito, volevo arrivare a dire che l’edizione di quest’anno mi ha spinto a riascoltare un po’ Stevie Wonder, fino a rendermi conto di come probabilmente uno dei migliori bassisti della storia sia la sua benedetta mano sinistra: vi lascio un paio di pezzi che abbiamo suonato, avrei voluto mettere qualche video delle serate ma non ne ho di buona qualità, quindi meglio restare sugli originali. Una nota “buffa” (si fa per dire): di questa edizione mi resterà in mente sopra ogni cosa l’incubo di Master Blaster. Mi sarebbe molto piaciuto riuscire a suonarla sul palco, ma nonostante i molti, generosi tentativi di insegnarmela operati dal buon Marco all’ultimo tuffo, non sono mai riuscito a farla intera. Peccato, forse con più calma ce l’avrei anche fatta: magari la prossima volta. Quel che so per certo, è che canticchiare la linea di basso negli orecchi di un bambino è un modo efficacissimo per cullarlo e farlo addormentare: forse non era proprio quello che aveva in mente Wonder mentre componeva il pezzo ma si sa, le vie della Musica sono infinite.



Steve Swallow è l’unico cui sia permesso suonare il basso elettrico col plettro

Suonando basso e contrabbasso, è facile incrociare la parabola di un grandissimo come Steve Swallow. Quando era già un contrabbassista affermato, Swallow si innamorò fatalmente del basso elettrico e decise, non senza attraversare parecchi travagli, di abbandonare il jazz più prettamente acustico per dedicare tutto il proprio tempo e le proprie risorse allo studio del nuovo strumento. Pare che Swallow rimase colpito dal basso elettrico dopo aver osservato da molto vicino Jack Bruce, bassista dei Cream, in occasione di alcuni concerti su palchi condivisi. Da lì a procurarsi un Gibson fu un attimo: quella di Swallow è stata una fondamentale figura di ispirazione per generazioni di bassisti, sia per la scelta (sicuramente controcorrente) di pizzicare le corde del proprio strumento usando un plettro (si badi bene che lo si concede solo a lui), sia per l’uso pionieristico del basso a cinque corde equipaggiato non col Si basso, ma col Do alto, dando in tal modo al fraseggio un colore e un sapore assolutamente peculiari. Vi lascio due performance di una composizione bellissima di Carla Bley, Lawns, eseguite a distanza di un quarto di secolo l’una dall’altra: la prima, del 1989, in duetto con la stessa compositrice, anche sua compagna nella vita; e la seconda, del 2014, nel trio di John Scofield, live al Blue Note di Milano. Ho adorato Lawns dal primo ascolto, e avrei voluto potervela suonare, ma temo di non essere ancora pronto per questo. Godetevela suonata dai migliori!



The dreamy sound of Charlie Haden

Beh, ovviamente Charlie Haden non ha bisogno delle mie presentazioni. Siccome il Nesi, che si sta per laureare alla Scuola di Musica di Fiesole, discuterà una tesi proprio su Haden, del grande musicista americano abbiamo parlato e parlato e parlato per mesi, e abbiamo anche ascoltato un sacco di bella musica, in particolare concentrandosi sul suo Charlien Haden Quartet West. Potrei elencarvi un milione di motivi per amare Haden, e farvi ascoltare un milione di pezzi sui quali ha suonato, svariando dal jazz più classico alle sue avanguardie (il quartetto di Ornette Coleman) fino alla musica popolare al pop, ma vi lascio Moonlight Serenade soltanto: godetevi questo tema cantato dal contrabbasso con una delicatezza, una sinuosità e un sustain che penso di aver sentito solo nei migliori bassisti elettrici fretless. Fidatevi, è roba che non si sente tutti i giorni (purtroppo).


Suonare il futuro: Paul Chambers che va incontro agli accordi di Blue in Green

Paul Chambers è un protagonista frequente di queste playlist, ma d’altra parte non può essere altrimenti per quello che probabilmente è uno dei tre contrabbassisti più importanti della musica popolare contemporanea: il fatto è che, banalmente, Chambers era avanti. Non lo sapeva nemmeno lui cosa stesse suonando, con tutta probabilità, perché quello che suonava era qualcosa che ancora non esisteva, prima che fosse lui a inciderlo nei solchi dei più grandi lavori del jazz a cavallo del decennio 1950-1960. Paul Chambers suonava il futuro, letteralmente, e poteva farlo perché aveva i piedi ben piantati nel presente (e una conoscenza, uno studio e un amore enormi per il passato: aveva avuto infatti una preparazione musica prettamente classica). Va bene un pezzo qualunque suonato dal buon Paul per intuirne le qualità, ma io adoro il modo in cui va incontro agli accordi nella celebre versione di Blue In Green inclusa nel capolavoro di Miles Davis, Kind Of Blue, e il suo uso degli spazi, l’alternanza delicata dei vuoti e dei pieni: correva l’anno 1959, occorsero ben cinque take per portare a casa l’unica versione completa del brano, e Chambers si beccò anche una ramanzina da Miles per come aveva suonato sul finale (Svegliati, Paul). Blue in Green è un pezzo sensazionale per un milione di ragioni, ma soprattutto perché dentro c’è un mondo e tutto questo il buon Bill Evans (principale compositore del brano) l’ha ottenuto praticamente con nulla: “Un giorno a casa di Miles lui scrisse su un foglio i simboli degli accordi di Sol minore e La aumentato. E mi disse: cosa ci faresti con questi? Non ne avevo la minima idea, ma poi andai a casa e composi Blue in Green”, ricorda Evans. Blue in Green è il trionfo del minimalismo, con un’introduzione enigmatica del piano e una struttura dei soli palindroma (tromba-piano-tenore-piano-tromba), e la cosa più pazzesca è che la durata della battuta viene contratta e dilatata passando tra i vari assoli (Davis conta quattro, Evans contrae a due, John Coltrane continua a contare due, poi Evans va addirittura a uno e infine Davis torna a quattro; nella coda finale, il pianista si produce in un’ulteriore serie di variazioni di durata da far girare la testa): magia pura. Se vi interessa la storia, la racconta benissimo Ashley Kahn nello splendido volume dedicato al più celebre disco di quello che forse è stato il più grande quintetto jazz della storia: il libro si intitola semplicemente Kind of Blue, e in Italia è edito da il Saggiatore. Qui sotto, semplicemente Blue in Green.


Chiudo cercando confusamente di farvi invidia

Per natale ho ricevuto tra gli altri un bellissimo regalo, una ristampa in vinile del meraviglioso disco Waltz for Debby del trio di Bill Evans (tanto per restare nei paraggi). Di Scott LaFaro parlavo già l’anno scorso, e mi piace chiudere di nuovo con lui, come fosse (e lo è!!) un nume tutelare per tutti i bassisti, elettrici e non. Godetevi questa meraviglia, uno di quei brani che si vorrebbe non finissero mai per tanto che sono belli, e un buon anno a tutti!

Post Scriptum: per fare doppietta, mi sono accaparrato anche la versione vinile di Sunday at The Village Vanguard, contenente le restanti tracce registrate in quel mitico 25 giugno del 1961 dal più grande trio della storia del jazz.

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