Cat Power + The National live (Lucca Summer Festival, 26/07/2014)

Luglio, pur col bene che gli si può volere, giunge al termine, ma lo fa senz’altro lasciando un ottimo ricordo, e questo lo si deve al concerto di ieri sera, chiusura del RadioDue Lucca Summer Festival 2014, affidata ai The National con, in apertura, la meravigliosa Cat Power. E quest’ultima è stata senz’altro un dono inatteso: quando ho comprato i biglietti per questo concerto, eoni fa, niente si sapeva di eventuali special guest, e l’acquisto l’ho fatto soprattutto perché adoro i National e perché insomma, il loro primo live cui avevo avuto la fortuna di assistere (lo scorso anno al City Sound Festival di Milano, se ne parla qui) mi aveva lasciato un certo languorino: ecco, non proprio fame, ma voglia di qualcosa di bello. E bello è stato, anzi, bellissimo, e questo lo si deve non solo al quintetto originario dell’Ohio e trapiantato a New York, ma anche alla splendida voce di Cat Power, originaria di Atlanta e anch’essa trapiantata nella Grande Mela. Per chiudere coi convenevoli e venire al sodo, va detto subito che, a differenza dell’esperienza fatta lo scorso anno a Milano, stavolta il pubblico è presente, e l’afflusso più che buono (ma non abbastanza, secondo alcuni; a questo comunque arriveremo a breve, portate pazienza); soprattutto, nessuno stormo di zanzare assetate di sangue piomba sulla piazza, probabilmente scoraggiato dai capricci del tempo e dalle previsioni che parlano di inevitabile tempesta per la serata. Invece non piove, quando sale sul palco Cat Power (al secolo Chan Marshall) con la sua band: avendo strappato i biglietti abbastanza in cima alla coda, abbiamo potuto scegliere con calma il posto migliore per vedere il concerto (il plurale non è un segno di delirio correlabile all’età, ma deriva dal fatto che, anche stavolta, ad accompagnarmi c’era la mia ragazza: per chi fosse rimasto nel dubbio dai tempi del post sul live dei National dello scorso anno, no, non ci siamo sposati, nonostante il pressing dei parenti; fortunatamente, non ho parenti in quel di Lucca, o comunque non ricordo di averne), e abbiamo deciso di posizionarci vicino al mixer, accanto alle transenne che recintano l’area dei tecnici del suono. Questa decisione è stata fruttifera per vari motivi che non starò qui ad elencare, ma soprattutto perché abbiamo potuto godere per tutta la serata dell’esuberante (trattasi di sarcasmo) compagnia di un mastodontico operatore della sicurezza che non ha fatto altro che parlare male di tutti i cantanti che si sono esibiti nei giorni precedenti (ne ha per Backstreet Boys, Emma Marrone, e via dicendo) e anche degli artisti che avrebbero dovuto esibirsi di lì a poco, manifestando un dente particolarmente avvelenato proprio nei confronti di Cat Power, con epiteti che non starò qui a ripetere al fine di evitare lo scontro diplomatico; ad ogni modo, siamo riusciti a capire che nessun etilometro sarebbe mai stato in grado di fermare la sete della cantautrice americana. E invero Cat Power sembra parecchio agitata e nervosa quando sale sul palco, camminando da un lato all’altro senza posa, ma basta che cominci a intonare le prime strofe di una versione rarefatta e stravolta di The Greatest (che niente ha a che vedere col video del link) perché si crei una sorta di incanto, una sospensione del tempo generata dalla sua voce splendida. Il resto della sua esibizione sono una decina di canzoni e un miliardo e mezzo di richieste di regolazione indirizzate ai tecnici del suono: complice un soundcheck pare frettoloso (anche queste, informazioni di prima mano che dobbiamo al nostro cicerone della sicurezza), infatti, la resa audio risulta quasi sempre ampiamente perfettibile (“fischia ogni ben di Dio”, cit.) e la buona Chan perde le staffe in un paio di occasioni, parlotta nervosamente col suo chitarrista e infine, durante un’intro chilometrica, si assenta dal palco per spiegare dettagliatamente ai tecnici cosa ci sia che non va. Ah, ma siccome Cat è una fuoriclasse, una voce di un altro pianeta, strappa applausi anche quando si scusa col suo pubblico per questi inconvenienti (“I’m sorry because I’ve lost my temperance”) prima di tornare a prendere il controllo della serata con le sue canzoni: da segnalare, un’ottima reinterpretazione di Manhattan, singolo estratto dall’ultimo album Sun, e la conclusiva Ruin. Poi Cat, con tutti i problemi tecnici e l’incanto della sua voce inconfondibile, lascia il palco ai National, non prima di avercela gufata (ma con eleganza, va detto): “Rain is coming”. Gli vogliamo bene lo stesso, e comunque aveva ragione. Rapido cambio palco mentre il cielo si fa ancora più scuro, e qui bisogna fare una piccola digressione per presentarvi un’altra attrattiva della nostra serata: seduti accanto a noi fin dalla presa di posizione successiva all’apertura dei cancelli ci sono due ragazzi biondissimi e dell’aspetto inconfondibilmente nordico, una coppia di fidanzatini dedita ad effusioni dalla continuità francamente invidiabile. Hanno trascorso l’intera esibizione di Cat Power a tracannare una birra dopo l’altra, e adesso che il concerto di apertura si è concluso si volgono infine verso di noi per chiederci cosa diavolo mai sia scritto su quei megaschermi laggiù, ai lati del palco (che rimandano i tweet e le foto caricate su Instagram dagli spettatori e contrassegnate dall’hashtag #luccasummer). Non vi tedio a raccontarvi del misto di kierkegaardiano timore e tremore col quale rispondo “for sure” alla domanda della ragazza riguardo la mia conoscenza dell’inglese, e mi lancio in un’immaginifica traduzione di ciò che scorre sui teleschermi. Il mio approccio scafato deve funzionare, nel senso che i due si interessano a noi; tuttavia, per il resto della conversazione parleranno solo con la mia ragazza, complimentandosi infine per la nostra buona conoscenza della lingua che, a quanto pare, non è un tratto comune a tutti gli italiani (sic). Va detto che questo complimento lo rivolgono alla mia ragazza, e a me resterà per sempre il dubbio se quello “you” usato come soggetto nella frase “you speak a very good english” fosse una seconda persona singolare o plurale, ma tant’è. I due ragazzi (che scopriamo essere danesi) cominciano a raccontarci delle loro ferie in Toscana (sono impegnati in una sorta di Grand Tour di byroniana memoria); lui sembra un sosia ubriaco dell’attore Tom Hiddleston (il Loki di Thor, per intenderci), lei ride e si stupisce per qualsiasi cosa. Gli stiamo simpatici, e infine decidono di scattarci una foto col mio cellulare: noi decidiamo che è meglio di no, ma loro hanno già preso un’altra decisione e insomma, non c’è da discutere, questa foto s’ha da fare, una foto che, dovessi compendiarla in una frase sola, intitolerei “gli sguardi di un sostanziale disagio”. No, non la caricherò qua sopra, se proprio ci tenete a saperlo. Tra l’altro è proprio grazie al duo danese che apprendiamo come la bolgia di Piazza Napoleone, che ci pareva notevole rispetto anche all’afflusso di pubblico dell’anno precedente a Milano, non sia niente rispetto ai numeri dei quali sono capaci i concerti in Danimarca: i nostri si stupiscono sinceramente che in Italia i National abbiano così poco seguito, mentre ammettono candidamente di non aver mai sentito nominare Cat Power. Un po’ molesti, ma simpatici. Per il resto della serata continueranno a urlare, applaudire e lanciarsi in altre effusioni. Ma dove ero rimasto? Ah, il temporale. Come promesso da Cat Power, le prime gocce iniziano a cadere proprio mentre Berninger e soci guadagnano il palco: l’iniziale Don’t Swallow the Cap e una successiva, velocissima versione di I should live in salt vengono eseguite sotto una pioggia battente. La piazza si riempie di k-way e ombrellini, e anch’io, con la soddisfazione di chi si era coscienziosamente preparato al peggio, estraggo il mio ombrellino e lo apro; dopo poco meno di dieci secondi mi sento battere nervosamente sulla spalla, mi volto e un signore mi apostrofa con un secco “se apri l’ombrello o lo tieni più alto o io non vedo più un cazzo”. Eseguo, e quando torno a voltarmi indietro scopro il reale motivo di questa lamentazione: l’anziano signore altri non era che il padre di Capitan Video, in piedi proprio accanto a lui (per chi si fosse perso le precedenti puntate, qui c’è un ripassino). Questo però è un Capitan Video diverso, uno che ha pochi mezzi ma molto ingegno, per così dire: il ragazzo ha avvolto il suo smartphone nel nastro adesivo da pacchi marrone (sic) e l’ha attaccato a un bastoncino telescopico di alluminio, col quale lo solleva oltre il livello della folla a riprendere il palco. Non mi dilungherò sull’ammirazione che ho nutrito per la perseveranza dimostrata dal giovane nel perseguire il suo desiderio di filmare piuttosto che vivere, come uno dei Grandi Maledetti della Settima Arte, ma vi basti sapere che per rispetto nei suoi confronti ho limitato enormemente il numero di foto e video realizzati in prima persona: d’altra parte, coi professionisti non ha senso competere. Peraltro, c’è il caso che qualcuno dei video cui farò link possa esser stato caricato proprio da lui, dato che l’angolazione sembra quella giusta: in tal caso, gli mando un forte abbraccio digitale e lo ringrazio, in fondo qui si fa tanto per ridere. Fortunatamente, la pioggia se ne va con la stessa rapidità con cui era arrivata: il live prosegue sulle note di un’inattesa Ada, da Boxer, e inanella successivamente Bloodbuzz Ohio da High Violet e Sea of Love, uno degli ultimi singoli della band. Berninger sembra decisamente carico, e in questo forse lo aiuta il bicchierone di Vodka che si è portato dietro sul palco, e che più o meno a questo punto esegue un triplo salto mortale carpiato con avvitamento sulle prime file del pubblico con parte del suo contenuto, per venir sostituito da una più elegante bottiglia di vino (non si è capito se fosse bianco o rosso): il tasso alcolemico del frontman, ad ogni modo, sembra essere maggiormente sotto controllo rispetto all’anno prima a Milano, e gli attacchi dei vari pezzi se ne giovano parecchio (tranne alcuni selezionatissimi casi, ma, come mi è stato fatto notare, “il cantante dei National è lui e farà un po’ come cazzo gli pare”). Con Hard to Find, Berninger coglie l’occasione per ringraziare Cat Power per il suo show di apertura, inserendola nella lista delle sue fonti d’ispirazione (accanto a Nick Cave, Tom Waits e Leonard Cohen: non male come captatio benevolentiae); con Afraid of Everyone e la successiva Squalor Victoria è la batteria di Bryan Devendorf a irrompere potentemente sulla scena; I need my girl e This is the last time, entrambe estratte dall’ultimo Trouble will find me, rallentano il ritmo, che si fa ancora più dolce con Green Gloves, ancora da The Boxer, dedicata dai fratelli Dessner ad alcuni cari amici che hanno seguito da sempre la band e che si trovavano anche ieri sera in piazza. Il ritmo torna a salire con i crescendo di Abel (sui quali Berninger tortura le sue corde vocali) e Apartment Story, prima di piazzare la stoccata decisiva con Pink Rabbit, uno dei migliori estratti dall’ultimo disco e una delle massime esecuzioni della serata. A chiudere il concerto, prima degli encore, arrivano England, da High Violet, poi Graceless dall’ultimo disco e, come di consueto, Fake Empire (in una versione a tratti più veloci, a tratti più spensierata, complice un giro di pianoforte riproposto con grande “allegria”). I National a questo punto lasciano il palco per rientrare dopo pochi minuti tra gli applausi entusiasti del pubblico. E’ la volta di Mr. November e Terrible Love, e come successo l’anno precedente Berninger inizia le sue incursioni tra il pubblico: tra un crowdsurfing e una corsa attraverso la piazza, il frontman si conferma il peggior incubo degli agenti della sicurezza, costretti a rincorrerlo tra la gente che, come ovvio, gli si accalca attorno. In una delle sue puntate lontano dal palco, Berninger si spinge fino ad arrivare vicinissimo alla posizione in cui ci trovavamo noi: da vicino sembra anche più alto. La situazione torna a ricomporsi quando si arriva al momento dei saluti e i musicisti si accingono a proporre Vanderlyle Crybaby Geeks: restano solo due chitarre acustiche in mano ai fratelli Dessner e il resto è un coro della band sul palco e del pubblico nella piazza, ma stavolta Berninger, ancora non soddisfatto dei bagni di folla, s’inventa un estemporaneo karaoke arrampicandosi sulla barriera protettiva sotto il palco e porgendo il microfono a turno ad alcuni intonatissimi fortunati delle primissime file. Perdonate l’ironia. Poi il concerto finisce, la piazza si svuota, compro un cd al banco del merchandising e defluiamo tra la folla diretti verso l’auto che ci riporterà a casa, con ancora negli occhi e nelle orecchie quello che è stato, fuor di metafora e nonostante inconvenienti tecnici prima e incognite meteorologiche poi, davvero un grande spettacolo. Se poi per caso Berninger e soci dovessero imbattersi in questa pagina e accettassero un suggerimento, vorrei dire che a questo punto mi piacerebbe sentire dal vivo anche Sorrow: capisco che uno, dopo averla suonata per sei ore consecutive, possa averne le palle piene, però ecco, a me giusto una riproposizione veloce, una roba da tre minuti, andrebbe benissimo. Ma gli voglio bene comunque, mi sento straordinariamente bendisposto a perdonarli e questo non è affatto poco.

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