"C'mon", Low (2011)

Scrivere dei Low significa affrontare un pezzo di storia della musica (se non altro di quella più recente): due dischi almeno, per il gusto personale di chi scrive, assolutamente imprescindibili (il primo I Could Live In Hope e il meraviglioso Trust), uno stile personale e sempre in fieri, ovvero una musica che è passata negli anni attraverso un gran numero di mutazioni, arricchimenti, esperimenti, conservando sempre quel tocco così tipico e la sua innegabile, magica riconoscibilità. Quindi con questo C’mon, che arriva a quattro anni dal precedente Drums & Guns, ci troviamo a battere territori “importanti” per il piccolo recensore, senza contare che, come soleva dire qualcuno, “scrivere di musica è un po’ come ballare di architettura”, e non c’è espressione più felice per dare l’idea della difficoltà di esprimere con poche (o anche molte) parole la profondità dei lavori della band di Duluth. C’mon riporta subito alla mente un ritorno al passato concretizzato in Try To Sleep, una classica ballad arricchita da una pioggia di xilofoni e governata dalla voce meravigliosa di Sparhawk; You See Everything riprende con forza il sound che abbiamo imparato a conoscere in Trust, ma il primo episodio che conquista per ricchezza e completezza è probabilmente Witches (l'unico video che ho trovato è abbastanza agghiacciante…chiedo venia!), sospeso tra le asprezze elettriche dello stesso Trust e suoni di banjo ignoti alla precedente produzione della band del Minnesota, un brano coinvolgente quanto semplice, ricco quanto scarno, armonica fusione di istanze e sensazioni diametralmente opposte, probabilmente uno dei momenti migliori dell’intero album. La successiva Done è lenta e corale, quasi un gospel nel quale si intrecciano le voci di Sparhawk e Mimi Parker, raggiungendo le consuete vette emotive, su un tappeto tenue intessuto dalle chitarre e sostenuto a tratti dai rintocchi della batteria; Especially Me trova nella voce eterea della Parker un perfetto appoggio per un incedere cupo e strozzato, sul quale vengono tratteggiate melodie tra le migliori dell’album in un crescendo cadenzato di grande impatto emotivo. $20 inizia con la voce si Sparhawk accompagnata da lievi singhiozzi delle chitarre per sfociare in un ritornello dilatato, un brano lentissimo ancora strettamente imparentato col gospel e, forse, con le notti scure del midwest, cucito addosso a quella che già altrove è stata definita, giustissimamente, una disperata richiesta d’amore. Una sensazione sempre fortissima, connessa all’ascolto della musica di Sparhawk e soci, è data dal contrasto tra l’intimismo e la contemporanea ariosità degli spazi che evoca: il contrasto tra i grandi spazi aperti, dunque, i suoni notturni, l’erba spazzata dal vento (tutte immagini, queste, che popolano i brani di questo C’mon così come quelli di molti altri album della band) e il grande impatto emotivo di composizioni scarne, fatte di pochi accordi e malinconiche armonie, suonate con un’urgenza che le rende vicinissime, la loro potenziale infinita apertura, come fossero minimali brecce in un disegno più ampio, solo “parti” di un canto più lungo, schizzi freschi portati sulla spiaggia dal riflusso di una marea enorme e nera, ignota e misteriosa in virtù della sua stessa enormità. Majesty/ Magic cresce proprio da questa oscura enormità, un crescendo di potenza realmente infernale, e sfocia nelle carezze chitarristiche di Nightingale, che ancora rimanda alla mente le atmosfere soffuse e notturne di Trust: la voce di Sparhawk si adagia perfettamente sui riverberi e gli echi strumentali, contribuendo a creare un senso di ondeggiamento in armonie vocali di profondità e incedere quasi religioso, per un altro dei momenti migliori di questa carrellata. Nothing But Heart inizia con una chitarra gracchiante, pesantemente distorta, per lasciare spazio ancora una volta alle delicate melodie disegnate dalla voce: un gioiellino slow-core incastonato nei sibili di delicati slide chitarristici, cadenzato dal charleston e dal rullante di Mimi Parker e sul quale vanno a intrecciarsi, nel crescendo finale, le voci dei coniugi Sparhawk. Si resta ammirati di fronte all’eleganza e al rigore con cui la band di Duluth riesce a fondere gli elementi di cui si nutre la propria musica andando a toccare sempre, invariabilmente, le corde giuste: la distorsione ritorna a sporcare e accompagnare il dondolio catartico del brano nel suo finale, per otto minuti che riconciliano con l’idea stessa di Musica e che dovrebbero esser studiati e ricordati a lungo. Something’s Turning Over riprende il discorso acustico avviato con la prima traccia, con una ritmica leggera e un piglio quasi pop, e chiude con freschezza un album che scivola via dolcemente lasciando una sensazione di calore dentro l’ascoltatore, qualcosa che si può compendiare nell’idea di sentirsi presi per mano e accompagnati a fare quattro passi fuori, sulla strada spazzata dal vento, sotto un sole freddo o alla fioca luce delle stelle, in un tempo/ non tempo indefinito, sospeso, ovattato. Non c’è in realtà niente di nuovo in questo C’mon: c’è un suono che ormai è un marchio di fabbrica, immediatamente riconoscibile e che abbiamo con pazienza e convinzione imparato ad amare, e fa davvero piacere rendersi conto di quanto i Low siano invecchiati bene negli anni. L’urgenza e la disperazione dei sentimenti cantati da Sparhawk e Parker e incarnati dalla musica della band sono rimaste le stesse, meravigliose sensazioni che innervano le minimali composizioni del debutto di I Could Live In Hope come le atmosfere dilatate e notturne di Trust o i singulti elettronici di Drums & Guns: lungo tutte queste dieci tracce si avverte la presenza costante di un sentimento lacerante e pervasivo, che non è stato affatto limato o normalizzato dal tempo ma che è ancora qui, in tutto il suo trasporto, in tutta la sua violenza, in tutta la sua disperata tenerezza. C’mon è un disco profondamente umano, e in un mondo che dell’umanità ogni giorno perde qualcosa è un po’ come una benedizione piovuta dai cieli di Duluth, Minnesota, “acqua che riflette il cielo”, se è giusto l’etimo del nome, collegato al vocabolo dakota minisota (wikipedia docet): su queste acque galleggiano ancora i suoni, le emozioni e la voce della band di Sparhawk, e sono suoni ed emozioni sempre magicamente vivi, dei quali non potremmo/dovremmo/vorremmo mai fare a meno.

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