Come vivere e per cosa vivere: “Interstellar”, di Christopher Nolan

Il Natale arriva in anticipo, sul nostro blog: come potrete notare, ci sono molte novità grafiche per questo nostro piccolo spazio. Le novità non finiscono qui, dato che nei prossimi giorni avrà luogo un approfondito restyling di molte delle nostre pagine web, ma per adesso consentitemi di ringraziare Sara Ridolfi per il suo prezioso contributo, concretizzatosi nel nostro nuovo, bellissimo header. Avere a che fare con me non è affatto facile, visto che a ogni pie’ sospinto mi balena un’idea nuova: dal momento che avevo subordinato la pubblicazione di questa recensione, scritta nei primi giorni dello scorso Novembre, alla consegna del nuovo header (giusto per mettere quel tanto di pressione che non guasta mai), spero che a Sara resti almeno la forza di affrontarne la lettura! Benvenuti quindi sul nostro nuovo blog, e buona lettura a tutti voi!

Che abbiamo in comune col bocciolo di rosa che trema perché sul suo corpo si è posata una goccia di rugiada? È vero: amiamo la vita non perché siamo abituati alla vita, ma perché siamo abituati ad amare. C’è sempre un po’ di follia nell’amore. Ma c’è sempre un po’ di ragione nella follia.
(F. W. Nietzsche, “Così Parlò Zarathustra”)

Interstellar/posterPotrebbe sembrare irriverente aprire una recensione di un film come Interstellar, l’ultima fatica di Christopher Nolan, con due righe di una delle opere principali di Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così Parlò Zarathustra. Potrebbe sembrare irriverente soprattutto perché, storicamente, non si può certo definire Nietzsche un campione del positivismo scientifico, ed è abbastanza chiaro a chiunque mastichi qualcosa di Scienza (la maiuscola non è casuale) che Interstellar palesi delle evidenti ambizioni di verosimiglianza e consequenzialità scientifica: a differenza di molti altri film appartenenti al genere della science fiction, i due fratelli Nolan (Christopher, oltre che della regia, si è occupato della scrittura assieme al fratello Jonathan), si sono fortemente preoccupati di garantire una coerenza logica e una forte verosimiglianza a tutto ciò che mostrano nel film, sforzandosi di rendere chiari a un pubblico di massa concetti della fisica teorica che sono a volte realmente astratti, e qua e là riuscendoci in modo anche piuttosto sorprendente (forti anche della consulenza scientifica del fisico Kip Thorne, uno dei primi scienziati “seri” a parlare di viaggio nel tempo e una figura con la quale, senz’altro, avranno familiarità almeno tutti coloro i quali hanno letto, con passione e ingenua curiosità, quel gran libro di divulgazione scientifica che risponde al titolo di L’Universo in un guscio di noce, opera di Stephen Hawking). Ovviamente, lo dico en passant, Interstellar non è sempre impeccabile dal punto di vista della mera scienza: in fondo è un film, non un trattato di fisica teorica. In rete troverete diverse analisi, alcune piuttosto pretestuose, altre decisamente interessanti, che vi chiariranno tutte le “licenze poetiche” prese da Nolan nel realizzare il suo film: ma sappiate che appunto di questo si tratta, licenze. Il cinema non può avere il rigore di un trattato scientifico tradotto in immagini. Quindi, stavo dicendo, c’è irriverenza nel voler apporre in calce a questa recensione, che tratta di un film tanto ingegnosamente e congruentemente costruito, nel rispetto delle idee più avanzate della fisica, la citazione di un pensatore che con la scienza non ha praticamente niente a che vedere (a meno che non si stia parlando della Gaia Scienza, ma questo è tutto un altro discorso). Eppure questa irriverenza è tale solo in parte, e di fatto la si potrebbe interpretare soprattutto come un artificio retorico che accenda un po’ la miccia dell’analisi, come spero di poter chiarire a breve. La trama non troppo in sintesi e con parecchi spoiler, tanto per cominciare. Terra, un futuro abbastanza distante da dare l’impressione di essere solo una rassicurante distopia, ma abbastanza simile al nostro presente da generare una sottile inquietudine. Il nostro pianeta sta lentamente cessando di essere Casa, un rifugio ospitale: le principali coltivazioni sono estinte a causa della proliferazione di batteri che hanno aumentato la percentuale di azoto nell’atmosfera a scapito di quella di ossigeno, e l’umanità è corsa ai ripari difendendosi come ha potuto, tornando alla terra per la coltivazione del mais, combattendo strenuamente contro sempre più devastanti tempeste di sabbia e contro l’avanzamento, apparentemente inarrestabile, dell’aridità. Uno di questi agricoltori è Cooper (Matthew McConaughey), ingegnere ed ex astronauta della NASA, uomo fuori tempo massimo, educato alla scienza e alla scoperta e costretto, suo malgrado, ad accontentarsi di programmare le mietitrebbiatrici automatiche o di hackerare droni indiani abbandonati a se stessi che passino sopra i suoi campi per caso. In questo futuro, la NASA è stata ufficialmente chiusa dal governo, dal momento che la razza umana si trova in tutt’altre faccende affaccendata, e Cooper vive nella sua fattoria, immersa nei campi di mais, insieme con l’anziano suocero (John Lightow, padre della moglie morta anni prima, che non si è potuta salvare a causa dell’impossibilità di eseguire esami strumentali sul suo corpo, conseguenza dell’impoverimento della razza umana, che ha spinto a investire denaro solo nell’approvvigionamento di cibo tagliando le risorse destinate alla ricerca, alla scuola, alla formazione di scienziati e, più in generale, di persone con una spiccata preparazione intellettuale: ecco, qui la verosimiglianza del film viene meno, perché è chiaro a tutti come non che ci sia bisogno di catastrofi ambientali per tagliare i soldi alla ricerca…) e i due figli, Tom e Murphy. Il sistema scolastico seleziona i ragazzi per una carriera ben precisa,Interstellar/2 non potendo i governi permettersi di investire troppo denaro nella formazione delle giovani menti: ecco che i dirigenti scolastici indicano per Tom una carriera di agricoltore (mandando su tutte le furie il padre) e puniscono la piccola Murph perché si rifiuta di credere alla Nuova Storia Ufficiale che cerca di accreditare la corsa alla Luna e lo sbarco sul nostro satellite non come una delle più grandi conquiste dell’ingegno e della curiosità umana, ma semplicemente come una geniale mossa strategica volta a spingere il blocco sovietico alla bancarotta nel tentativo di sopravanzare il nemico capitalista in un’insensata corsa al progresso scientifico e tecnologico. L’Umanità sembra quindi aver rinunciato allo spirito della scoperta e della riflessione, prerogative della Cultura con la C maiuscola, che non è solo quella scientifica, ma che di fatto è la spinta che rende l’Uomo ciò che egli è (nonostante i numerosi esempi che, anche ai giorni nostri, sembrano rendere piuttosto difficile definire senza imbarazzo la nostra specie come Vita Intelligente). È soprattutto il delicato rapporto tra Cooper e la figlia Murph a costituire l’ossatura di quest’opera, e il suo tema principale: il rapporto tra un padre e la figlia. La giovane Murph è una ragazzina curiosa, appassionata di scienza, alla quale il padre cerca di trasmettere il gusto dell’osservazione e l’importanza del Metodo: la ragazza sostiene che un fantasma metta a soqquadro la libreria della sua camera e il padre, che non può credere all’esistenza di qualcosa di soprannaturale come uno spiritello che si diverte a buttar giù i libri dallo scaffale, invita la figlia ad annotare tutti gli eventi e a tentare di interpretarli e inserirli in un quadro logico e coerente sul suo piccolo diario (un vero e proprio quaderno di laboratorio). Ed è in un giorno in cui una tempesta di sabbia piuttosto violenta, complice la finestra lasciata aperta sulla cameretta, riempie di sabbia la stanza di Murph, che Cooper scopre che forse, al di là dello spiritello, c’è dell’altro dietro ai “segnali” che la libreria cerca di inviare alla figlia. I due trovano infatti sul pavimento una serie di segni grafici, delle piccole colonneInterstellar/5 di sabbia ordinatamente disposte: codice binario, che indica delle coordinate, come i due scopriranno dopo una notte di riflessione. Un’anomalia gravitazionale, la definisce Cooper che, accompagnato dalla figlia (che si aggrega di nascosto alla spedizione, dopo il rifiuto del padre di portarla con sé in quella che potrebbe essere un’avventura troppo pericolosa), decide di raggiungere il punto indicato da quelle coordinate per capirne di più. Ed è così che i due scoprono che, nel luogo più inaccessibile del pianeta, di cui nessuno conosce l’ubicazione, la NASA (coi segreti finanziamenti del governo) ha attivato un progetto per la ricerca di nuovi pianeti in altre galassie che permettano la salvezza del genere umano o, in second’ordine (ma non troppo) la possibilità di ripopolare e conservare la razza umana a partire da embrioni congelati, pronti per essere incubati e far nascere nuovi uomini del futuro, uomini 3.0, per così dire, i nuovi figli delle stelle (ma, nonostante i sogni idealistici, senz’altro pronipoti di Sua Maestà il Denaro). Ed è qui che a Cooper, astronauta col sogno del Volo ma che, a causa di un incidente dovuto anch’esso a un’anomalia gravitazionale (come si scopre proprio nella nuova sede della NASA), non è mai riuscito a superare la stratosfera, viene offerta dall’anziano Prof. Brand (Michael Caine) l’occasione del riscatto di un’intera vita: pilotare una navicella del programma Lazarus che raggiunga un’altra galassia, attraverso un wormhole, un cunicolo spaziotemporale apertosi alcuni decenni prima in vicinanza del pianeta Saturno. Attraverso questo wormhole erano stati lanciati in gran segreto, circa dieci anni prima, una dozzina di altri esploratori, ciascuno diretto verso un pianeta, e tre dei quali hanno rimandato indietro segnali che potessero essere interpretati come “positivi” relativamente all’adattabilità del “proprio” pianeta alla vita umana: la missione proposta a Cooper permetterebbe di valutare la reale fattibilità di questa colossale migrazione di massa. Cooper capisce che questa sarà la sua ultima possibilità per realizzare il suo sogno, e decide di partire: la separazione dalla figlia sarà però traumatica, soprattutto perché il viaggio, com’è facile intuire, potrebbe non avere ritorno. A nulla vale il disperato tentativo operato da Murph per trattenere il padre, mostrandogli il messaggio da lei interpretato, lo schema nascosto dietro i libri caduti dallo scaffale della cameretta (quelli buttati a terra dal “fantasma”): il messaggio recita un laconico “resta”. Cooper parte, assieme con la figlia del Prof. Brand, Amelia (Anne Hathaway), e un equipaggio composto da Doyle (Wes Bentley), il fisico Romilly e due robot, TARS e CASE. La navicella attraversa il wormhole, che per i non avvezzi alla materia sarebbe in buona sostanza una particolare caratteristica topologica dello spaziotempo coincidente, di fatto, con un cunicolo in grado di connettere regioni dello stesso altrimenti incomparabilmente lontane (curiosità: la teorizzazione di wormhole attraversabili nella relatività generale si deve proprio a Kip Thorne e a un suo studente, Mike Morris, che li descrissero in un articolo scientifico del 1988. A questi ci si riferisce oggigiorno come wormhole di Morris-Thorne), e dall’altro lato del tunnel trovano la nuova galassia. Questa è dominata da un enorme buco nero, chiamato Gargantua, e contiene il sistema di tre pianeti che la missione ha il compito di esplorare per trovare conferma dei messaggi positivi inviati dalle spedizioni precedenti. Per primo, l’equipaggioInterstellar/1 sceglie di visitare il pianeta più “pericoloso”, che si trova in bilico in una posizione estremamente prossima all’orizzonte degli eventi del gigantesco Gargantua (chiarire di cosa si tratti quando si parla di orizzonte degli eventi non è mai banale, ma diciamo che, anche nel caso di Interstellar, una buona definizione-guida potrebbe essere quella data da Roger Penrose, che identifica nell’orizzonte degli eventi una particolare superficie dello spaziotempo in grado di separare regioni dello stesso dalle quali i segnali possano sfuggire, trasmettendosi altrove, da altre dalle quali alcuna informazione può uscire o essere trasmessa ad un osservatore): l’enorme massa gravitazionale del buco nero deforma a tal punto lo spaziotempo nei punti vicini al suo orizzonte degli eventi da far sì che una sosta di un’ora su tale pianeta si identifichi con circa 7 anni trascorsi lungo la “normale” (le virgolette ancora una volta non sono casuali) direzione di propagazione della freccia del tempo. Cooper comincia ad essere preoccupato di perdere troppo tempo (perdonate i frequenti bisticci di parole) su questo pianeta, e di non riuscire a mantenere la promessa fatta a Murph prima di partire, tra le lacrime di lei: quella di tornare presto. Tuttavia l’equipaggio escogita una manovra ingegnosa per compiere un’esplorazione il più possibile rapida. La manovra va a buon fine, ma i guai sono dietro l’angolo: il pianeta si rivela tutt’altro che ospitale, squassato da maremoti colossali, e l’equipaggio rischia la vita a causa dell’ostinazione di Amelia nel voler recuperare i dati della navicella del primo esploratore, morto probabilmente nell’impatto con il suolo, addirittura forse (a causa delle bizzarrie temporali legate alla gravità) solo pochi minuti prima del loro arrivo. Alla fine Doyle muore poco prima che il lander riesca a lasciare la superficie, in una sequenza altamente drammatica e spettacolare, e l’equipaggio perde un enorme quantità di tempo: al rientro sulla nave, Romilly (che era rimasto ad attenderli) racconta ai superstiti di averli attesi per un tempo enorme (23 anni), e di aver ormai quasi perso le speranze relativamente al loro ritorno, poco prima che riuscissero ad attraccare. Qui si introduce la prima sequenza davvero emotivamente forte del film: Cooper che corre a vedere i 23 anni di messaggi video inviati dai figli nel tempo che lui ha trascorso su questo primo pianeta. Scopre così come Tom sia cresciuto, abbia avuto un figlio che non è sopravvissuto ai primi mesi di vita; come il suocero sia morto; e infine riceve il videomessaggio più atteso, quello dell’amata figlia Murph, che era una bambina quando Cooper lasciò la Terra per il suo viaggio ed è adesso una donna adulta (interpretata da Jessica Chastain), ed ha appena compiuto gli anni, venendo ad avere l’età che aveva il padre quando, anni prima, partì ignorando le sue preghiere di restare (potremmo avere gli stessi anni, quando tornerò, è quello che dice Cooper alla figlia al momento della drammatica separazione). Ormai alla spedizione non resta altro da fare cheInterstellar/4 raggiungere uno degli altri due pianeti in lista, e qui si introduce il tema principale della storia. Si tratta infatti di due pianeti assai distanti tra loro, e dato lo scarso tempo ormai a disposizione (i 23 anni trascorsi sulla terra potrebbero significare che rimane pochissimo tempo per salvare la razza umana dall’estinzione), l’equipaggio deve scegliere. Amelia vorrebbe raggiungere il pianeta più vicino, dal quale arrivano dati promettenti e che è stato visitato in precedenza dall’uomo che ama e col quale vorrebbe ricongiungersi, mentre Cooper insiste per cercare di arrivare al pianeta più lontano, visitato dal Dottor Mann (Matt Damon), anch’esso, pare, assai promettente. Alla fine la scelta cade sul pianeta di Mann, perché nel caso in cui l’altro (che Amelia vuole fortissimamente raggiungere per ritrovare il suo amato) non fosse un buon candidato, non resterebbe tempo sufficiente per raggiungere il primo. La navicella si mette in marcia, e l’equipaggio sbarca sul pianeta di Mann, che ha tutta l’aria di non essere granché, una landa desolata e completamente coperta di uno spesso strato di ghiaccio: tuttavia lo scienziato, risvegliato dal sonno criogenico, giura di avere dati sulla superficie che dimostrerebbero come il pianeta sia perfetto per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo della vita umana. L’equipaggio decide di stabilire una base sul pianeta e permettere a Cooper di ripartire per tornare a Terra dai figli, ma a questo punto, tramite un messaggio per Amelia inviato da Murph, scopriamo che il Dottor Brand, in punto di morte, ha rivelato come tutta questa missione sia stata fondata fin dall’inizio su una bugia: non c’è mai stato un piano A, l’idea di salvare gli esseri umani rimasti sulla Terra trasferendoli sul nuovo pianeta, semplicemente perché le equazioni che permetterebbero all’astronave progettata per questo scopo di funzionare non possono essere completate senza conoscere l’informazione quantistica perduta all’interno dei buchi neri. C’è sempre stato solo il piano B: ripopolare un nuovo pianeta colonizzandolo con gli embrioni congelati di Amelia. Amelia stessa non era al corrente di questa bugia del padre, e Cooper decide di ripartire immediatamente, dato che non avrebbe più altre speranze di rivedere i figli, ma il Dottor Mann non è d’accordo: lo scienziato (il migliore tra tutti noi, come lo definiscono a più riprese il Prof. Brand e Amelia), accecato dall’ambizione, ha in realtà falsificato i suoi dati, non potendo accettare di non esser riuscito a trovare il pianeta più adatto, e non può adesso permettere che Cooper porti via la navicella per tornare a casa, avendone bisogno per proseguire le esplorazioni. C’è una colluttazione, nella qualeInterstellar/3 Mann rompe la visiera del casco di Cooper, che rischia di morire: riesce per il rotto della cuffia a chiamare soccorsi, e Amelia parte con CASE per recuperarlo con il lander, mentre Mann torna alla base per impossessarsi della navetta. Romilly muore in un’esplosione dalla quale TARS si salva, e dopo che il robot è stato recuperato, Cooper, Amelia e i due androidi si mettono all’inseguimento di Mann che, sulla navetta, tenta di raggiungere l’astronave principale per impossessarsene e proseguire la sua missione, abbandonando gli altri nello spazio. Tuttavia i piani di Mann sono destinati al fallimento: egli infatti fallisce l’attracco, e nel tentativo di aprire comunque il portello d’accesso alla nave madre causa una decompressione esplosiva che danneggia seriamente l’astronave uccidendolo. Cooper, con l’aiuto di TARS e CASE, riesce in qualche modo ad effettuare un docking con la nave madre riprendendone il controllo, e l’equipaggio tenta un’ultima, disperata accensione per lasciare quella zona di galassia sfruttando la fionda gravitazionale offerta da Gargantua per lanciarsi verso l’ultimo dei tre pianeti, quello sul quale era atterrato l’innamorato di Amelia. Ma la fionda da sola non è sufficiente: l’astronave porta con sé troppo peso. È così che, tenendo allo scuro fino all’ultimo Amelia circa i suoi veri piani, Cooper sceglie l’estremo sacrificio per permettere il compimento della missione: una volta raggiunta l’accelerazione sufficiente, egli distacca dall’astronave principale il suo modulo e quello guidato da TARS ed entrambi precipitano all’interno del buco nero, inevitabilmente attratti dal suo campo gravitazionale. Amelia potrà così raggiungere il pianeta dell’amato, dando un’ultima possibilità agli abitanti della Terra, le cui vicende abbiamo seguito in contemporanea a questi eventi e che stanno volgendo verso la catastrofe finale: acclarata la menzogna del Prof. Brand, Murph, che è rimasta l’unica a poter risolvere l’equazione, si trova con le mani legate. Suo fratello Tom, che ha seguito le orme del padre diventando agricoltore, è scivolato in un abbrutimento che gli impedisce di capire come la moglie e il figlio necessitino di cure mediche a causa della loro vita, condotta ai limiti delle possibilità umane su un pianeta ormai inospitale, e Murph non riesce a farlo ragionare. Anch’ella siInterstellar_6 trova adesso di fronte alla difficile situazione affrontata anni prima dal padre: dover salvare la Terra e, contemporaneamente, quel che resta della sua famiglia. Ma la chiave per la soluzione dell’arcano sta in quelle informazioni inattingibili contenute all’interno del buco nero, lo stesso dentro il quale sono stati risucchiati Cooper e TARS. Ed è qui che gli infiniti percorsi affrontati dal film di Nolan convergono in un unico punto. Murph sa che la sola risposta possibile può trovarla nella sua vecchia cameretta, dove tutto è cominciato con quelle bizzarre anomalie gravitazionali; nel frattempo (anche se l’uso di questo termine è in parte fuorviante e in parte no), Cooper e TARS, inghiottiti dal buco nero, riescono a rientrare in contatto tra loro. Il robot si rammarica (assai umanamente, come avviene lungo tutta la storia) che tutte le importantissime informazioni da lui raccolte sul buco nero siano ormai del tutto inutili, perché alcun segnale riesce a uscire dall’orizzonte degli eventi con le normali trasmissioni. Eppure, all’interno del buco nero, Cooper si ritrova alle spalle della libreria nella cameretta della figlia. L’astronauta e il robot sono infatti stati catapultati in una regione pentadimensionale nella quale il tempo altro non è che una nuova dimensione simile a quella spaziale, per così dire srotolata lungo una direzione che permette a Cooper di seguire, istante per istante, ciò che accade all’interno della cameretta. Cooper capisce di poter sfruttare la gravità nel tentativo di comunicare con la figlia, e le invia quei messaggi in codice che hanno scandito l’inizio del film: usa il codice binario per comunicarle la posizione della base della NASA, poi il codice Morse per scrivere quel messaggio, RESTA, che sembra essere rivolto quasi più a se stesso che a Murph. Ma presto Cooper capisce che può sfruttare la gravità per comunicare a Murph qualcosa di ancora più importante: l’informazione contenuta all’interno della singolarità rappresentata dal buco nero, che codifica con l’aiuto di TARS e invia alla figlia imprimendo il messaggio, in qualche punto nel tempo, nelle lancette dell’orologio che le lasciò poco prima di partire, uguale al suo. Murph infine trova la sua risposta, risolvendo l’equazione, e la razza umana sarà salva, lontana da un pianeta ormai inospitale. E Nolan riesce, con questo espediente finale, a raccontare per immagini una pagina tra le più affascinanti e di frontiera della fisica teorica, legata allo stretto connubio che sembra esistere tra gravità e principio olografico. Il tempo ordinario così come lo conosciamo, la linea d’universo sulla quale tutti gli eventi si dispongono istante per istante, sembra fermarsi sull’orizzonte degli eventi di un buco nero: quando questo arresto si verifica, tuttavia, lo spazio tempo possiede una sua temperatura, e si comporta come se avesse anche un’entropia. In quale modo questa scoperta, che si deve a Stephen Hawking (sempre lui), dovrebbe essere collegata a Interstellar? Beh, si dà il caso che la formula dell’entropia di un buco nero colleghi questa grandezza termodinamica (che di fatto misura il numero di stati interni, ovvero di possibili configurazioni interne, che il buco nero potrebbe assumere senza per questo cambiare aspetto agli occhi di un osservatore esterno, che osserverebbe solo massa, carica o rotazione: in pratica, l’entropia coincide con una quantità di informazioni contenute all’interno del buco nero, che corrispondono tutte allo stato in cui esso sembra permanere osservandolo ma che ne chiarificano la struttura) all’area dell’orizzonte degli eventi: un po’ di quella informazione sullo stato interno del buco nero è contenuta dentro ogni unità fondamentale di area dell’orizzonte. Questo correla la gravità quantistica all’energia termica di un corpo, e al principio olografico:Interstellar_9 l’olografia è fondamentalmente un fenomeno di interferenza della radiazione luminosa, che permette di ricostruire un’immagine di un oggetto a tutti gli effetti tridimensionale immagazzinando tutta l’informazione necessaria allo scopo su una superficie di dimensionalità più bassa (ad esempio, nel nostro caso, una lastra), con la proprietà che anche il minimo frammento di questa lastra permette di ricostruire l’intera immagine. Ecco, le informazioni sulla regione di spaziotempo che si cela dietro l’orizzonte degli eventi potrebbero essere codificate proprio sul confine della regione, che possiede due dimensioni in meno: la gravità potrebbe essere la chiave per permettere al messaggio di passare da un lato all’altro di questo orizzonte? L’idea è quella (vertiginosa) secondo la quale la vita stessa, lo spaziotempo quadridimensionale che conosciamo (le tre dimensioni spaziali più la dimensione temporale), si sviluppi sulla zona di confine di una regione pentadimensionale, l’informazione a riguardo della quale si localizzi proprio sulla zona a dimensionalità minore, come fossimo tutti quanti ologrammi, immagini tridimensionali proiettate da una regione a più elevata dimensionalità. Quindi, di fatto, Cooper comunica alla figlia l’informazione contenuta in questo iperspazio a cinque dimensioni, necessaria per la risoluzione dell’equazione, attraverso fluttuazioni gravitazionali al confine tra la regione nella quale egli è intrappolato e quella, che sperimentiamo tutti ogni giorno, nella quale Murph è vissuta e cresciuta col sogno di potere un giorno rivedere quel padre che ha tanto amato. Perché certo, è vero, sulla trama di Interstellar si possono ricostruire tutte le elucubrazioni teoriche, razionali o fantasiose possibili, come anch’io non ho saputo esimermi dal fare fin qui, ma queste non bastano: Interstellar apre lo spazio a domande che, se possibile, sono ancora più fondamentali. Forse per la prima volta Nolan gira un film che non è complesso strutturalmente (come lo erano ad esempio Inception o The Prestige, enormi costruzioni concettuali sui temi del sogno e della visione: fondamentalmente, delle grosse riflessioni sul Cinema stesso, all’interno delle quali le storie umane, pur importanti, erano spesso solo espedienti narrativi), e anzi è in questo senso piuttosto lineare, ma è invece altamente non lineare nel suo contenuto: mescola al solito i piani narrativi, saltando da una galassia all’altra, lasciando slittare il tempo di alcuni suoi protagonisti (Murph e Tom, l’intero pianeta Terra, Romilly) rispetto a quello di Cooper e Amelia; introduce una certa abbondanza di sotto-trame e trappole che trasformano la storia nella versione in scala ridotta di un labirinto di specchi (la base della NASA che è un astronave, l’equazione che non ha soluzione, la missione che dovrebbe dare speranza agli abitanti della Terra ma in realtà non prevede ritorno, eccetera eccetera eccetera), espediente questo che sembra essere un tòpos ineludibile delle sceneggiature dei fratelli Nolan; infine, avvolge la trama su se stessa per chiudere il cerchio, lasciando campo aperto a ogni genere di domanda filosofica: chi ha aperto il Wormhole? Dio, la natura, l’umanità del futuro che ha imparato a conoscere e governare la quinta dimensione? Cooper invia i suoi messaggi attraverso la libreria di Murph essendo consapevole che ciò è già accaduto, in una linea d’universo differente, oppure è esattamente in quel momento che quei messaggi vengono inviati? Stiamo osservando sullo schermo il tempo del film o il tempo della vita? E che relazione esiste tra i due? Cooper è di fatto un viaggiatore del tempo, oltre che dello spazio: ma il messaggio viene prima o dopo? Qual è il punto dello spaziotempo nel quale si decide ciò che sarà? E una volta deciso ciò che deve essere, questo avviene senza possibilità di scelta? Esiste qualcosa che si chiama destino, o stiamo solo parlando di una forma estrema di determinismo? Esiste il libero arbitrio? Queste sono solo alcune delle domande che possono formarvisi in testa mentre guardate il film, e dopo che le luci in sala si saranno riaccese. La sola novità, come stavo dicendo, è che esse non emergono direttamente dalla struttura dell’opera, cioè dal modo che Nolan sceglie per raccontarvela (come accadeva in Inception, ad esempio): piuttosto, in questo caso, sono connaturate alla storia stessa, mentre la telecamera di Nolan sceglie la via più lineare per metterci a confronto coi fatti, decidendo di seguire de facto la linea d’universo del solo Cooper, il suo protagonista, dall’inizio alla fine del film. Non esiste infatti un altro modo di descrivere questa complessità senza semplificarla, riducendo le dimensioni del problema a quelle di uno scaffale nella cameretta di una ragazza non ancora adolescente che adora il proprio padre, un padre che ha deciso di partire per una missione suicida, dalla quale potrebbe non tornare (o non tornare più com’era prima di partire). Alla fine la storia è più semplice di quanto appaia, pure agghindata di tutti questi sotto- (e sopra-) testi scientifici: è la storia di un genitore e di una figlia, fondamentalmente una storiaInterstellar_7 d’amore. Una storia edificante, l’ha definita la mia ragazza all’uscita dal cinema: sul momento, senza aver avuto ancora il tempo di rifletterci con calma, non potevo immaginare quanta ragione avesse. Ecco, per la prima volta è la storia degli uomini ad essere importante di per sé, e non soltanto l’espediente per una narrazione che sia di fatto semplicemente un racconto sul modo di raccontare storie. L’amore che Cooper prova per la figlia è importante quanto la gravità per salvare la razza umana: è l’amore per Murph che spinge Cooper alla missione, ancora più della volontà di realizzare il proprio sogno, l’amore per la possibilità di darle un futuro diverso; è ancora l’amore per Murph che lo spinge al sacrificio, nel tentativo di dare un’ultima occasione a Amelia di raggiungere l’ultimo pianeta, quello visitato a suo tempo dal suo innamorato; ed è l’amore per il padre lontano, nel tempo e nello spazio, e per quel che resta della sua famiglia negli occhi spiritati, brutali e imbarbariti del fratello Tom che riporta Murph, per la prima volta dopo tanti anni, nella sua vecchia stanza, a confronto con tutte le sue vecchie cose, il suo quaderno di laboratorio, il modellino del LEM dell’astronave Apollo, l’orologio che il padre le lasciò quel giorno, prima di lasciarla per sempre. Quell’orologio nel quale, in qualche punto nel tempo tra quel momento e questo, il padre le ha lasciato impresso il messaggio d’amore più importante. È una storia edificante, certo, perché sia Cooper che la figlia imparano qualcosa su se stessi e, ovviamente, l’uno sull’altro: quel padre intrappolato chissà dove nell’iperspazio impara che non soltanto la gravità riesce a propagarsi inarrestabile da un lato all’altro del freddo universo; e quella figlia riceve la carezza che ha desiderato per tutta la vita, e nella quale ormai non sperava più. Tutto quanto è strettamente interconnesso, sembra dirci Nolan, più di quanto pensiamo: ci possono essere infinite dimensioni extra arrotolate a ogni angolo del mondo in cui viviamo, e che magari attraversiamo costantemente senza rendercene conto, spinti da una forza che le lega tutte assieme. Ecco perché ho scelto Nietzsche per aprire questo chilometrico tentativo di analisi: la follia che c’è nell’amore, e la ragione che c’è nella follia. Nolan saccheggia a larghe mani la science fiction (e non) di ogni tempo: plasma il carattere di Cooper su quello del Chuck Yeager dipinto nel magnifico The Right Stuff (it. Uomini Veri, 1983, tratto dal grandioso libro di Tom Wolfe), dove il celebre pilota aveva il volto del Grande Sam Shepard; ci porta nella fattoria di Cooper in sequenze che rimandano alla mente il certo non memorabile Signs di M. Night Shyamalan; mostra ancora gli abissali silenzi dei gelidi spazi siderali come avveniva in Solaris e nel recentissimo, e assai scientificamente discutibile, Gravity; mescola Contact e Inception, e i wormhole che una buona fetta di pubblico aveva imparato a conoscere, per esempio, con Donnie Darko; aggiorna A.I. ai suoi androidi TARS e CASE, novelli HAL9000 dal cuore d’oro, che hanno ormai definitivamenteInterstellar_8 scoperto e compiuto la loro trasformazione verso la macchina-uomo; infine, imprime su pellicola la danza elegante dei vascelli spaziali che ritmava le immagini immortali di 2001 Odissea Nello Spazio, il capolavoro di Kubrick col quale si sprecano, a torto o a ragione, la maggior parte dei paragoni. Non è un caso che Interstellar chiuda le sue linee temporali sovrapposte ricongiungendole in una stanza d’ospedale, bianca e asettica, che ricorda il letto di morte di Bowman nel capolavoro di Kubrick. Solo che stavolta non c’è un bambino delle stelle a guardare benevolo la sua vecchia casa: c’è piuttosto un pianeta, di là da un wormhole, nel quale infine Amelia, fidandosi del suo amore, ha trovato ciò che cercava, una casa per l’uomo. E questa è la ragione nella follia: la scelta di Amelia era sempre stata la scelta giusta. Ma, sembra ricordarci Nolan, non bisogna dimenticare che non esiste umanità evoluta che non cominci da qui e ora, che non sia discendente di questa nostra umanità: che siano stati gli umani evoluti del futuro ad aprire quel wormhole o meno, non ha importanza, perché quegli essere umani evoluti sono stati in primo luogo esseri umani che non si sono arresi, che non hanno placato la loro fame di crescita, conoscenza, scoperta. L’opera di Nolan è ambiziosa, audace, a volte anche troppo: la si può subire, annoiandosi a morte lungo le sue quasi tre ore; la si può bollare come una cacata pazzesca di fantozziana memoria, un giocattolone para-filosofico costruito sul solito, ineludibile hype hollywoodiano, o incensare come un capolavoro, restando ammirati di fronte alla complessità e raffinatezza del suo intreccio, per quanto non più così criptico come nel caso di quello di alcuni suoi illustri predecessori (2001 su tutti); ma non le si può non riconoscere il merito di aver tentato di racchiudere, in poco meno di tre ore di proiezione, qualcosa del senso stesso di ciò che significhi essere umani. Un’impresa, certo, da far tremar le vene e i polsi. Ma da affrontare affinché possa non essere necessaria l’esperienza estrema di attraversare l’orizzonte degli eventi di un buco nero per rammentarci chi siamo, da dove veniamo e, soprattutto, permetterci di sognare dove e come vorremmo essere, un giorno: l’Arte che, coraggiosamente, non si sottrae alla domanda fondamentale, su “come vivere” e “per cosa vivere”.

Vi lascio con qualche consiglio di lettura a modo di piccola annotazione: a parte recuperare i film citati nel testo, la visione dell’ultimo lavoro di Nolan potrebbe essere l’occasione per leggere (o rileggere, che non fa mai male) almeno un paio di testi di divulgazione scientifica molto accessibili ed estremamente interessanti. Vi lascio questi titoli: “L’Universo in un guscio di noce” (edito da Mondadori, collana Oscar Saggi) e “Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo” (edito da BUR, collana Best BUR), entrambi scritti da Stephen Hawking, e che ho citato più volte nella mia piccola analisi, e “L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima”, di Brian Greene (edito da Einaudi, collana Super ET). Sapete, non è mai troppo tardi per riscoprire un po’ di sano senso della meraviglia verso l’Universo nel quale viviamo, e verso lo sforzo dell’uomo di comprenderlo fino in fondo. Buona lettura!!!

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