Coming back home: The Paisley Park Session (Cory Wong, 2021)

Niente, è inutile, finisco sempre per avviare l’anno parlando di Cory Wong: ma il primo album che recensisco in questo 2022 è in realtà un album che il nostro ha licenziato insieme ai Wongnotes il 29 Ottobre scorso (il suo quarto lavoro del 2021, quinto considerando l’esclusiva bandcamp per il piccolo EP relativo al live Wong On Ice, di cui parlavo nell’ultimo RoundUp dell’anno appena concluso). The Paisley Park Session riveste un interesse soprattutto “storico”, considerando che si tratta di un album realizzato live all’interno degli studi della residenza di Prince, in particolare nel celebre Studio A: da genio di Minneapolis a genio di Minneapolis, il sapore è quello di un ritorno a casa (o di un cerchio che si chiude, se vogliamo). Per l’occasione, Wong schiera come detto i suoi Wongnotes, ovvero Kevin Gastonguay alle tastiere, Petar Janjic alla batteria, Sonny T. (al secolo Sonny Thompson, bassista e chitarrista di lungo corso più noto per aver fatto parte dei The New Power Generation, band live e di studio proprio di Prince dal 1991 al 1996), la percussionista brasiliana Nêgah Santos e un’intera sezione di fiati composta da 6 strumentisti (tra i quali 3 membri degli Hornheads, corresponsabili delle magnifiche tessiture sonore di The Striped Album, ovvero Michael Nelson, Steve Strand e Kenni Holmen, quest’ultimo già membro della Delta Force che aveva nobilitato anche il primo LP dei The Fearless Flyers, altro progetto coinvolgente Wong, oltre a Eddie Barbash, già coinvolto in diversi lavori dei Vulfpeck e parte del progettino Jon Batiste & Stay Human, house band del Late Show di Steve Colbert fino al 2016, Sam Greenfield e John Lampley): 11 artisti eccezionali, che sono poi gli stessi coi quali Wong ha licenziato l’omonimo Wong and The Wongnotes, di cui parlavo qui, e che hanno inciso anche il fantastico Wong On Ice. Così come quest’ultimo live, anche le Paisley Park Session arrivano con annesso video-documento, testimonianza favolosa della qualità strumentale e live di questa band (ve lo lascio alla fine del testo, come di consueto).
Janjic conta fino a quattro e parte il funk esplosivo di
Welcome 2 Minneapolis – The Paisley Park Session, opening track a base di tempi sghembi e cadenzati, una classica overdose di groove sostenuta dai fiati e scandita dalle infallibili ritmiche à la Wong: la parte centrale del brano comprende un inventivo botta e risposta tra i fiati e la batteria, preludio ad un solo di basso di Sonny T, con uno slap che rimanda alla mente qualcosa del grandissimo Johnny B. Gayden. Gumshü riprende il brano già contenuto in Motivational Music for the Syncopated Soul, a metà strada tra l’ossessione ritmica del funk e un R’n’B un po’ anni ’70 a base di organo hammond, bassi ciccioni e chitarre ritmiche Wong-style, ottimo apripista per un solo del sax alto di Eddie Barbash; Assassin è invece la riproposizione dell’omonimo brano contenuto nell’LP d’esordio dei Fearless Flyers, il che significa funk-tiratissimo-ad-alta-velocità e massicce dosi di urban swing iniettate dagli Hornheads dentro un tessuto ritmico irresistibile, con Sonny T che non fa rimpiangere Sua Maestà Joe Dart, specialmente sul finale, sul quale prende il là di nuovo il fraseggio di Barbash. Lilypad ha uno dei riff più belli contenuti nel meraviglioso The Striped Album, licenziato da Wong nel 2020 e di cui vi avevo parlato a suo tempo: solid funk che fa muovere il piede e culla con gli svolazzi dei fiati, a metà strada tra il background e il libero fraseggio, si accende nella sezione centrale con il solo della percussionista Nêgah Santos (che in realtà è più un duetto con Janjic, e così il doppio solo di batteria/percussioni è servito); Jet Screamer è invece un inedito, ispirato probabilmente ai Jetsons (ma qui sto tirando a indovinare perché davvero non lo so), con la sezione di fiati in bellissima evidenza e un poderoso solo del trombone di Michael Nelson cui risponde poi la tromba di Jon Lampley, piccole gemme jazz incastonate in un solido groove funk (sul quale peraltro Wongsuona una delle cloud guitars di Prince). Massive è una curiosa riproposizione dell’hard rock-funk del brano originale, incluso in The Striped Album e realizzato in collaborazione con Joe Satriani, nel quale i fraseggi della chitarra di quest’ultimo vengono gestiti dai fiati, e in particolare dal tenore del sempre scintillante Kenni Holmen (con tanto di solo, qualità altissima come di consueto); la seguente Meditation è una rilettura dell’originale, contenuto in Elevator Music For Elevated Mood (ne avevo scritto qua) e ripreso anche con Jon Batiste e Nate Smith per l’album Meditations (altro bel lavoro, peraltro nominato ai Grammy, di cui invece parlavo qui): il riff di chitarra è semplicemente geniale, per sound e dinamica, e l’ingresso della band crea un micro-clima groovy e al tempo stesso rilassato, disteso, un tappeto sonoro perfetto per l’escursione solista di Wong alla sua Fender signature, otto minuti di musica come cura per l’anima con un memorabile crescendo chitarristico al quale si accoda la band intera, fiati compresi, per dar luogo a un’autentica esplosione sonora, resa ancora più trionfale dall’unisono conclusivo. Meditation si raccoglie infine in un codazzo di feedback e si spegne lentamente sulla ripresa del riff iniziale, armonicamente alterato da Wong: l’esplosione si tramuta così in un’implosione lieve, appena cadenzata dalla batteria che Janjic suona a mani nude e che accompagna il pezzo alla sua conclusione. La seguente Headin’ Down To Bunkers riprende il brano contenuto in Cory Wong and the Wongnotes, un gran varietà funky old school imperniato sui bassi colossali di Sonny T, gli svolazzi della ritmica di Wong e i fiati che forniscono un inesausto background al torrenziale solo di tastiera di Kevin Gastonguay prima e al fraseggio della tromba di Lampley dopo; quest’ultimo si produce in un solo ininterrotto sulla scorta di Sonny T, Janjic e Santos, con gli echi jazz della sua tromba che si fanno predominanti finché non si dà il cambio con Kenni Holmen, che prima veleggia un po’ in solitaria e infine ingaggia un botta e risposta con il supporto ritmico di Sonny T, che oscilla tra puro groove e fraseggio solista facendo cantare il suo cinque corde, mentre Holmen passa agevolmente dal sax alto al tenore, praticamente gestendo due soli in uno, e arrivando persino a suonare i due strumenti in contemporanea. Sarebbe fantascienza, se non fosse semplicemente un live di Cory Wong. Clickbait torna a pescare nuovamente da The Striped Album, ed è di nuovo un funk massiccio accarezzato dagli arrangiamenti dei fiati di Nelson (che per inciso aveva arrangiato i fiati anche per il padrone di casa, Prince), mentre Merci arriva da Cory and The Wongnotes ed è un autentico trattato sul ritmo, un concentrato di groove guidato dalla meravigliosa mano destra di Wong, un’esecuzione assolutamente a livello della prova di studio (in effetti, ora che ci penso, potrebbero aver registrato anche l’originale in presa diretta e non mi stupirei affatto). Il finale è affidato alla riproposizione di un classicone dei Vulfpeck, Dean Town: i fiati provvedono al background e Sonny T “joedarteggia” con stile infinito, accompagnato all’unisono da Wong e Gastonguay al NordLead. A questo punto il disco finisce, ma nel video (vedi sotto) c’è un’ultima jam con due soli strepitosi di Barbash e Sonny T, tanto per dispensare un altro po’ di splendore.
The Paisley Park Session è un po’ come una fotografia di una band (e di un band leader) in stato di grazia: un’ora di performance infuocata, che alterna il potente funk di cui Wong è maestro a piccole svisate jazz (favorite soprattutto dal lavoro dei fiati arrangiati da Nelson) e momenti più “raccolti” e riflessivi (penso soprattutto a Meditation). Non serviva certo un altro album per dimostrarlo, direte voi, e di fatto anche la follia di Wong On Ice non fa che testimoniarlo chiaramente, ma con i Wongnotes Cory Wong ha trovato la band di supporto perfetta: la solidità ritmica garantita da Peter Janjic e dalle linee di basso inventive e originali di Sonny T, con l’aggiunta degli elementi percussivi della bravissima Nêgah Santos, dà vita a una sezione con così tanto groove da fare invidia a centinaia di band piatte e tutte uguali che potete ascoltare facendo skip su YouTube o nella maggior parte delle playlist di Spotify; il lavoro di cesello e rifinitura di Gastonguay alle tastiere fornisce un magnifico tappeto al tessuto ritmico e ai drappeggi confezionati dalla sezione di fiati, affiatatissima (perdonate il gioco di parole) e piena zeppa di solisti da capogiro (il lavoro di Lampley alla tromba è commovente, Holmen come sappiamo è una bestia rara e Eddie Barbash… beh, è Eddie Barbash). Ovviamente, il fulcro di questa narrazione funky è la chitarra di Wong, che disegna musica e tiene insieme tutta la band, sia che si tratti di fare ritmica (e che ritmica), sia che si tratti di illustrare temi o lavorare su fraseggi e assoli: inutile ripetersi, Wong è un musicista di un’altra categoria e soprattutto, come scrivevo recentemente nella recensione del suo album collaborativo coi Dirty Loops, Turbo, è un musicista con una chiara Visione, uno che fa attenzione ai particolari quanto al quadro d’insieme, e che sa perfettamente in quale direzione mandare la propria musica, e per quel che mi è dato vedere penso che sia proprio una bella direzione (per non parlare del percorso col quale il nostro ci sta arrivando). Certo, Wong qui è facilitato dalla bravura dei suoi musicisti, perché questa è una Band con la B maiuscola, gente che suona per davvero, e pian piano sta tornando a casa, da Minneapolis… a Minneapolis, passando stavolta per un confronto con l’eredità musicale di uno dei grandi geni del pop dello scorso millennio, quel Prince che è padrone di casa a Paisley Park e il cui spirito aleggia distintamente lungo queste composizioni (sia direttamente, nella cloud guitar usata da Wong, che indirettamente, nei collaboratori di cui Wong si è circondato, come Sonny T e Michael Nelson).
Intanto, giusto per non far raffreddare gli entusiasmi, è già uscito un nuovo album a nome Cory Wong,
Wong’s Café, che in realtà sarebbe il volume 5 della serie dei Vulf Vault licenziata da Jack Stratton, deus ex machina dei beneamati Vulfpeck: un disco, a differenza dei precedenti quattro della serie, fatto totalmente di inediti, alcuni provenienti dal passato e altri conclusi o rifiniti di recente appositamente per la pubblicazione del vinile. Un vero e proprio nuovo disco di Cory Wong, con una support band d’eccezione (ovvero gli stessi Vulfpeck). Non mi dilungo, tanto di questo ne parleremo in abbondanza (e ci mancherebbe) la prossima volta…

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