Con amore e dolore: Dawn (Yebba, 2021)

Yebba è il nome d’arte di Abigail Elizabeth Smith, cantautrice ventiseienne proveniente dall’Arkansas con all’attivo già un Grammy Award (vinto nel 2019 insieme a PJ Morton nella categoria Best Traditional R&B Performance per il brano How Deep Is Your Love), numerosissime collaborazioni (cito soltanto Mark Ronson e Drake), una lunga serie di singoli (come ad esempio Evergreen, prodotto da BJ Burton) e infine un contratto con la RCA Records che ha accompagnato l’attesa per il suo primo album solista, intitolato Dawn, dato alle stampe lo scorso 10 Settembre. A produrre l’album, Yebba ha trovato un complice proprio nel già citato Mark Ronson, che si è prodigato nel dare una forma allo stesso tempo rétro e contemporanea ai brani scritti dalla giovane cantautrice: rétro nel tentativo di recuperare le atmosfere di uno degli album che maggiormente sembra aver influenzato il progetto, ovvero quel Voodoo pubblicato da D’Angelo nel lontano 2002, una volontà di mimesi tale da aver radunato per le incisioni di Dawn una bella fetta dei musicisti che avevano reso speciale il lavoro del rapper americano (su tutti, ma ci torneremo, Ahmir “Questlove” Thompson alla batteria, il monumentale Pino Palladino al basso e James Poyser alle tastiere, tutti nomi noti per aver partecipato all’esperienza seminale dei Soulquarians a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000); contemporanea, invece, per le scelte produttive, che cercano di sposare la naturalità soul e R’n’B e la levità folk dei brani di Yebba con ritmi, intuizioni e colori che provengono dalla più moderna scena pop ed elettronica. Dawn è un grande calderone, quindi, un laboratorio nel quale avviene una potentissima sintesi, ma non bisogna commettere l’errore di credere che si tratti dell’ennesimo disco semplicemente scritto-bene-e-prodotto-meglio, realizzato ad uso e consumo del lancio della “new sensation” di turno, perché Yebba è tutta un’altra cosa: è una songwriter eccellente, dotata di una voce straordinaria (One-In-A-Million Singer, la definisce Variety) e soprattutto capace di marchiare a fuoco, in maniera diversa e affascinante, ognuna delle dodici tracce di cui si compone il suo album di debutto. A ben guardare, per quanto l’influenza di Voodoo sia dichiarata, raramente questo Dawn suona come l’iconico album di D’Angelo: Dawn è un delicato intrico di pop (tra gli strumentisti, oltre a quelli già citati, troviamo anche il chitarrista Smokey Hormel, session musician per numerosi volti noti della musica mondiale, tra i quali Beck, e Andrew Wyatt), R’n’B e soul, qua e là languidamente ibridati con elettronica (cui provvede principalmente il talento del compositore canadese KAYTRANADA), rap (con gli interventi mirati di A$AP Rocky e Smino) e un briciolo di atmosfere jazz (garantite dalla presenza del pianista James Francies, che insieme alla Smith ha scritto molta della musica contenuta in questo album lungo un processo durato diversi anni), una sinfonia di ispirazioni totalmente al servizio della vocalità di Yebba, lontana anni luce dalle muscolari esibizioni di abilità tecnica che troppo spesso sviliscono numerosi ottimi prodotti e capace di veicolare, attraverso le inflessioni della propria voce, una profondità emotiva e un’introspezione non comuni per un’artista tanto giovane (sempre che abbia senso mettere l’età in mezzo a questo discorso). Dawn è, nonostante tutti gli artisti straordinari coinvolti, semplicemente il disco di Yebba, un album personale tanto doloroso quanto, sebbene intriso di passato, volto al futuro: il titolo allude infatti contemporaneamente al nome della madre di Abigail Smith, suicida solo pochi anni fa, e all’ovvia ri-emersione dalle tenebre rappresentata dal sorgere di un nuovo giorno. Così dentro le dodici tracce dell’album ci sono il dolore della perdita e la sensazione d’abbandono, l’incapacità di comprendere le ragioni profonde di un gesto (It’s two years, mom/ I still can’t figure it out, canta la Smith in Paranoia Purple), i ricordi dell’infanzia e le incertezze del futuro, e su tutto aleggia sempre la sensazione che su questo dolore si possa e si debba ricostruire un futuro completamente nuovo, che alla fine debba essere possibile scendere a patti, attraverso l’amore, anche con una sofferenza tanto grande, senza lasciarsene inghiottire irrimediabilmente.
Un tappeto di tastiere ipnotiche che sorgono come un’alba va a fare da sfondo alla voce eterea di Yebba nell’opening track
How Many Years: How many years will it take for these tears to dry?, canta Abigail Smith nel primo verso, tratteggiando una melodia tanto delicata da essere quasi impalpabile, eppure questo è un momento già indimenticabile, sottolineato dal drumming tagliato di Questlove (che inizia ad accompagnare il brano sul verso How the hell on еarth can I set me free?/ Where can I run when the ground moves beneath my feet?) e dalle inquietudini degli organi governati, come le tastiere galleggianti e vagamente flangerizzate, da James Francies, anche coautore del brano con la stessa Smith. Il pop-soul luminoso di Stand alza il ritmo, introducendo i bassi dell’inarrivabile Pino Palladino a fianco della batteria di Questlove, e si avvale di un bridge che non esito a definire meraviglioso; significativamente, Stand, che è una sorta di flusso di coscienza dell’autrice, interpola ed espande il tema di When U Went Away, brano di Mark Ronson sul quale la stessa Smith aveva cantato nel 2019, modificando lievemente l’inciso da All that’s left is the matter of asking myself where you stand a All that’s left is the matter of asking myself: will you stand?, e trasferendo così il senso del brano dall’accettazione di una rottura amorosa al tentativo di trovare una ragione e riuscire ad accettare la morte della madre. La seguente Boomerang ricrea un’atmosfera quasi da sabba futurista, con percussioni (e organo, e basso, e chitarra) affidate a Thomas Brenneck, anche coautore del brano, tastiere lasciate nelle mani di Mark Ronson e tanta, tanta programmazione elettronica: il brano racconta della fuga di un’amica della Smith da un matrimonio abusante, e resta nelle orecchie soprattutto per la seconda strofa, accompagnata da un crescendo strumentale deliziosamente filtrato (evidente frutto di una produzione di altissimo livello e innegabile buon gusto). All I Ever Wanted è una specie di pop sinfonico, una fioritura di archi che emerge da un folk lievissimo e racconta di un amore impossibile destinato a restare irrealizzato (All I ever wanted was you/ And now I know we both got our obligations/ All I ever wanted was you/ And yes I know you promised her everything but/ All I ever wanted was you): scritta ancora con James Francies (e con i contributi della cantante Ilsey e di Mark Ronson), All I Ever Wanted si chiude su una breve, affascinante divagazione pianistica, lasciando spazio alla splendida Far Away, che riprende un po’ il discorso di How Many Years (What am I runnin’ from when I run so/ Far away) ed è arricchita dal drumming inquieto e geometrico di Questlove e dal duetto con il rapper A$AP Rocky. La linea di batteria di Far Away resta impressa nella mente e scava un evidente solco nel disco, che riprende con il brano strumentale Dawn, dedicato alla madre: attraverso una giungla di suoni a metà tra il concreto e l’astratto si apre la strada che conduce a uno dei climax dell’album, i meravigliosi tre minuti e poco più di October Sky, magistrale sinfonia di R’n’B acustico grondante ricordi da ogni verso, che è anche il vero centro di gravità permanente di questo lavoro. I versi della Smith, mai così pregnanti (Now I work in the city and I blend into the crowd/ And the pеople grieve with mе since the towers came down, down/ You could cut the pollution with a butter knife/ You could wake up at two and then party all night/ But I’m missin’ my mama, so I stand on the street and get high), vengono avvolti e sollevati da una piccola sezione d’archi (due violini, l’italiana Francesca Dardani e Sulamit Gorski, una viola, suonata da Tia Allen e il violoncello di Marta Bagratuni) e sostenuti dalla ritmica discreta ma costante di Questlove e di Palladino al basso: la prestazione vocale è fuori categoria, anche per gli standard delle migliori interpreti del pop contemporaneo, e il brano è nel complesso un piccolo gioiello emozionale, semplice e straordinariamente efficace, una canzone scritta bene e interpretata meglio, uno di quei brani di cui si sente sempre un gran bisogno. La premiata ditta Palladino/Questlove mette benzina anche nel motore di Louie Bag, R’n’B quasi dub nel suo incedere sotterraneo, e che si avvale stavolta del rap di Smino nella terza strofa. Il breve duetto tra il piano di James Francies e la voce di Yebba in One More Smile (Now I want to stay a while, stay a while/ And I can’t figure it out, but I’ll stay a while/ Stand outside my door, just one more smile/ Stay a while) arricchito da una ripresa del tema della precedente Louie Bag, introduce alla travolgente Love Came Down, ibrido sintetico di pop luminoso e soul malinconico: le sporcature elettroniche, governate tra gli altri da Mark Ronson, Maxime e Clemént Picard e KAYTRANADA, si appoggiano stavolta sul drumming dritto di Ilsey, anche coautrice del brano insieme a Smith e lo stesso Ronson. La splendida Distance, un altro dei momenti più alti della tracklist, è stato il primo singolo estratto per lanciare l’album: nelle parole della stessa Smith, il brano racconta ancora di una separazione, stavolta amorosa, nella quale “Emotionally, physically, and spiritually we were trying, but the only thing that came naturally was the distance. So, I wrote a goodbye before we ever got the chance to fight.” Distance è un R’n’B più tradizionale, gonfio di emotiva passionalità: il ritornello è francamente indimenticabile (Because of the time we shared/ Time we lost in love with one another/ Days we had, pay the cost of losin’/ Hearts desire, so soon/ I’ll be sending my love all over you), e l’interplay tra il basso di Palladino, la batteria incalzante di Questlove e le tastiere di James Poyser fa letteralmente il pezzo, allineandosi sotto l’ennesima performance vocale stupefacente della Smith, capace di camminare con equilibrio zen sul sottile confine tra magniloquenza tecnica e espressività emotiva, dando alla sua performance un colore e una multidimensionalità rare. La chiusura del lavoro è affidata alla già citata Paranoia Purple, un intrico di chitarre acustiche (Smokey Hormel e Rich Meyer) che diviene l’occasione per allineare gli ultimi ricordi della madre scomparsa e tentare, per quanto possibile, di sopravvivere al dolore. Stavolta il punto di vista nel testo è direttamente quello di Dawn, alla quale Yebba lascia cantare versi che tagliano letteralmente le gambe per quanto dolore trasportano con sé (Say now, when my life is over/ Will you find somebody good enough to hold ya?/ Someone like my Abigail/ To tell you all is good and well like me now/ Say now, I feel my color show how/ I think it’s almost time for me to go now/ Go now, go now), ma soprattutto perché sono insieme ricordo, nostalgia e reinvenzione, desiderio, speranza.
Se è vero com’è vero che
I still can’t figure it out, come canta la figlia di fronte alla madre che se n’è andata, è anche vero che dimenticare non sarà mai possibile (Tell me, how could I forget about you now?), e le ultime parole umane a risuonare nel disco le pronuncia proprio Dawn, e vengono da un messaggio audio registrato per la figlia. L’album si conclude quindi con la voce della madre che, diretta verso la propria figlia, pronuncia un “Love, Mama” che ieri era solo un saluto, e oggi è il sigillo di un addio per il quale non ci sono parole sufficienti, non c’è musica, non c’è nient’altro che silenzio. In qualche modo, dentro queste 12 tracce e dentro questi ultimi, strazianti secondi di Paranoia Purple sembra riecheggiare una frase splendida di David Foster Wallace: “la realtà è che morire non è brutto, ma dura per sempre. E per sempre non rientra nel tempo.” Dentro questa frase, dentro queste canzoni, c’è un orizzonte ideale che comprende la paura, il dolore, l’abbandono, la speranza e anche, perché no?, la disperazione, la mancanza di senso, l’impossibilità di conferire un senso. Ci vuole un coraggio enorme per mettere in musica un tale bagaglio di sentimenti, tanto più perché autenticamente (e tragicamente) vissuti in prima persona. Codificato in un linguaggio più apertamente pop, Dawn contiene un messaggio sul dolore e l’elaborazione del lutto (tema non certo nuovo) che in qualche maniera lo porta al livello di lavori come A crow looked at me di Mount Eerie, scritto in quel caso da Phil Elverum in memoria della giovane moglie Geneviève Castrée, morta di cancro poco dopo aver partorito la prima figlia della coppia, e che era stato probabilmente il mio album preferito del 2017 (leggere ma soprattutto ascoltare per credere): al pari di A crow looked at me, Dawn mi appare oggi come una delle pietre miliari di questo 2021 musicale, uno dei vertici più alti raggiunti nel corso dell’anno. Nel tessuto delicato di questi brani, torniti dalla mano sapiente di Mark Ronson e scritti insieme all’amico musicista James Francies, Abigail Smith riesce a intrecciare il dolore e l’amore con una forza che è già sublime, e come il sublime atterrisce: dentro un’immensa varietà di umori e stilemi (che lambiscono il jazz e l’elettronica, flirtano col rap e pescano a piene mani da soul e R’n’B, spesso declinandoli in inconsuete forme acustiche), facendo appello a una ricchezza sonora resa ancora più speciale dal valore dei musicisti coinvolti (questo disco non avrebbe avuto lo stesso suono senza i tamburi e i piatti di Questlove, ed è incalcolabile l’apporto che le linee di basso di Pino Palladino danno a brani come Stand, October Sky, Louie Bag e Distance) e soprattutto a una vocalità di purezza cristallina, che mi spingerebbe a dire che siamo di fronte a una delle migliori interpreti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni (e, indovina un po’, non è solo un’interprete ma anche un’autrice), Yebba intreccia un canto che è insieme elogio funebre ed elaborazione del lutto, ma soprattutto gesto estremo d’amore, quell’amore che non si subisce né si patisce, un sentimento che si sceglie e si affronta con tutto ciò che questo comporta. La domanda che sottende tutto il lavoro continua a risuonare anche dopo che le ultime note si sono spente: Tell me, how could I forget about you now? La sensazione è che non si possa mai, davvero, dimenticare, ma d’altro canto, come recitava una battuta di Ashes of Time, celebre film di Wong Kar Wai, “When you can’t have what you want, the best you can do is not to forget”.

Vi lascio anche questo preziosissimo Tiny Desk Concert, nel quale Yebba suona Stand, Distance, All I Ever Wanted e How Many Years, col contributo di Burniss Travis al basso, Charles Myers (si vedeva anche nel video di October Sky, poco sopra) e James Francies al piano, oltre a una larga sezione d’archi (Marta Bagratuni, Francesca Dardani, Sulamit Gorski e Nicole Wright), un coro e Stro Elliot alla batteria:

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