Dance me to the future: Fearless Movement (Kamasi Washington, 2024)

In un momento della vita nel quale stavo riscoprendo la passione per la musica jazz e, soprattutto, per il mio strumento, mi imbattei in The Epic, un disco del 2015 che recava con sé un’aura quasi sacrale fin dalla sua copertina, raffigurante l’autore, un certo Kamasi Washington (del quale ai tempi sapevo meno che niente), abbracciato al suo sassofono su uno sfondo di profondità siderale con l’allineamento di due pianeti. The Epic era un mastodonte di quasi tre ore di musica, diciassette tracce divise in tre dischi (tre autentici movimenti, ciascuno col proprio titolo), un viaggio spaziale tra le origini del grande jazz e il suo futuro, tre ore di musica mutante, difficile da incasellare, mai uguale a se stessa, coi piedi piantati nelle radici del passato e la testa (e il cuore) proiettati verso l’avventura dei tempi a venire, prodotto (e anche questo dà una misura del contesto culturale) dalla Brainfeeder di Flying Lotus. Ora, mi rendo conto che è difficile aver vissuto l’ultimo decennio e non aver mai sentito parlare di questo album (il che apparentemente rende tutta questa presentazione superflua): se non altro perché Kamasi Washington, che con The Epic era al suo debutto da band-leader sulla lunga distanza, era già da tempo asse portante della combo dei West Coast Get Down (che confluirono come strumentisti nella band che avrebbe realizzato The Epic e i successivi album del sassofonista americano) e uno dei fautori del sound di opere quali To Pimp A Butterfly di Kendrick Lamar, uscito nel corso di quello stesso anno e probabilmente uno dei lavori più influenti dell’inizio di questo millennio. Ricordo perfettamente la prima volta che ho ascoltato Askim, la seconda traccia di The Epic: non avevo mai sentito nominare Thundercat prima di allora, e da quel momento ho letteralmente divorato ogni cosa che Thundercat avesse (e avrebbe) suonato. The Epic è stato per me uno di quei dischi che hanno la capacità di aprire delle porte che conducono a intuizioni completamente nuove: il jazz racchiuso in quelle diciassette tracce è una musica profondamente contemporanea, ibrida, che tiene insieme tanto il sound dei grandi jazzisti del passato (su tutti John Coltrane, nume tutelare dichiarato di Washington, ma anche Sun Ra, un altro personaggio dal quale la verve del giovane sassofonista americano non è certamente distante) quanto le contaminazioni con la black music che verrà (attraverso la passione per l’R’n’B, il funk, il soul e anche, e forse soprattutto, il linguaggio del rap). Non è “tutto” il jazz che esiste oggi, come sa bene chi frequenta il mondo di questa musica e, in piccolo, anche chi legge queste pagine (che di jazz, purtroppo, parlano ancora troppo poco rispetto a quanto vorrei): ma rappresenta una visione assolutamente personale e originale di questa musica, ed è innegabile come, al pari di tanti altri artisti odierni, Washington e la sua band abbiano contribuito non poco a mantenere viva e vitale la scena del jazz, aprendolo al contemporaneo (e proiettandolo al futuro).

Questo preambolo è un po’ lungo, lo riconosco: vorrei ritagliarmi lo spazio per parlare di The Epic con tutto il tempo che l’album merita, ma non è questa la sede. Questa lunga introduzione mi serviva però per arrivare a parlarvi dell’ultimo LP licenziato da Washington e dalla sua band, uscito lo scorso 3 Maggio per l’etichetta Young (precedentemente nota come Young Turks e associata a XL Recordings). Fearless Movement, questo il titolo del nuovo album, marca significative differenze rispetto ai suoi predecessori (appunto il già citato The Epic e Heaven and Earth del 2018, preceduto dall’EP Harmony of Difference dell’anno precedente). Innanzitutto, si pone come un lavoro maggiormente incentrato sul concetto della danza e del movimento, come lo stesso titolo suggerisce: non banalmente un ritorno al groove (che nell’opera di Washington non è certo mai mancato), ma un nuovo risalto dato alla musica intesa come momento di liberazione che passa anche attraverso la mimica dei corpi, la vera e propria fisicità. Questa nuova attenzione rivolta al ritmo si sposa con una significativa riduzione dell’estensione temporale dei brani: rispetto a due monoliti come gli album precedenti, che contavano rispettivamente 17 e 21 brani e le cui durate complessive si aggiravano intorno alle tre ore, Fearless Movement è composto di soli dodici movimenti, per un totale di meno di un’ora e mezzo di musica. Attenzione però, non lasciatevi ingannare dalla quantità: è la qualità che conta, e qui Washington e i suoi non fanno altro che alzare il tasso qualitativo dell’insieme condensandolo in circa la metà del tempo di riproduzione. Oltre a questo, bisogna segnalare che Fearless Movement è anche, in misura forse persino maggiore rispetto ai lavori precedenti di Washington e del suo clan, un lavoro “fatto in famiglia”: oltre ai sodali di lungo corso della West Coast Get Down, ovvero Miles Mosley al contrabbasso, Tony Austin e Ronald Bruner Jr. alle batterie (sì, anche qui si fa ampio ricorso al doppio drumkit), Ryan Porter al trombone, Cameron Graves e Brandon Coleman a dividersi tra piano e tastiere, Thundercat (Stephen Bruner) al basso elettrico e Patrice Quinn alla voce, con in più un intervento di Terrace Martin al sax alto, nel disco compare una melodia “scritta” dalla piccola figlia di Washington, Asha (Asha the First) e anche il padre del sassofonista, Rickey Washington, che presta il flauto in tre brani (The Visionary, The Garden Path e Lines in the Sand). Altro elemento distintivo, rispetto al passato, è rappresentato dall’ampia libertà creativa che il leader ha lasciato agli elementi della sua band: a differenza di quanto accadeva nei lavori precedenti, infatti, la composizione e la scrittura in Fearless Movement sono appannaggio di tutti gli strumentisti, e si incontrano quindi anche brani non scritti da Washington ma dai suoi collaboratori. In una certa misura, Fearless Movement si configura quindi come un’opera collettiva, incarnando nella prassi che ha condotto alla sua realizzazione quei principi di comunità e vicinanza (umane e spirituali) che da sempre hanno animato la musica di Kamasi Washington.

“[Il jazz è] una musica altamente espressiva che ha sempre avuto una forte connessione con la danza e con il movimento. Almeno per me. Gran parte della gente pensa che il jazz sia un tipo di musica difficile, che vada solo ascoltata e con attenzione. Io non l’ho mai pensata così. Quando abbiamo iniziato a registrare questo disco il ritmo era così trascinante e intenso che mi ha fatto subito pensare che questa musica poteva essere ballata, anche se non in modo consueto.” (intervista a Kamasi Washington, Musica Jazz 882, Maggio 2024, p. 32)

L’album si apre sugli enigmatici versi in lingua ge’ez (un’antica lingua semitica parlata in Etiopia fino al XIV secolo) di Lesanu, che preludono a una devastante esplosione swing per una overture che sa essere sia militante che trascendente, nel pieno solco di quel jazz spirituale al quale Washington ci ha da sempre abituati (Sing unto the Lord/ A new song): a ritagliarsi il primo, infuocato spazio solista è il pianoforte di Cameron Graves che snocciola le sue note sul jungle furioso imbastito da Ronald Bruner Jr., Tony Austin e Miles Mosley prima di lasciar spazio al sax tenore del leader, che dapprima segue un’ispirazione melodica per poi prendere un’improvvisa deriva totalmente ritmica, acida e quasi free, durante la quale ci si scopre a trattenere il fiato prima della boccata d’aria rappresentata dal ritorno sul tema. A Lesanu segue Asha the First, che nasce dalla rielaborazione della prima melodia improvvisata al pianoforte dalla piccolissima figlia di Washington, Asha (che compare anche sulla copertina e la cui corsa, “il movimento”, fa da contraltare alla scultorea e quasi ieratica fissità della posa nella quale viene immortalato il padre): il roboante e caotico assolo iniziale è affidato al basso Ibanez del buon Thundercat, che insegue frammenti di ispirazione melodica come decostruendoli dentro una successione di frasi a incastro che andranno a sviluppare l’ideale tappeto ritmico per l’intervento solista di Washington stesso, che intraprende un discorso sospeso ancora tra melodia e ripetizione ossessiva, intercalandosi magistralmente con la reprise del tema che prelude ai versi rap di Taj e Ras Austin che occupano la seconda metà della traccia. La linea di basso sulla quale atterra Thundercat al termine del suo intervento solista è irresistibilmente groovy, sia nell’iniziale (consueto) massimalismo che quando il bassista inizia a lavorare per sottrazione, con il secondo intervento cantato, prima di avvolgersi insieme al drumming attorno a una psichedelica tempesta di note del synth che riporta tutto al tema iniziale. Siccome i rimandi alla pop culture sono potenzialmente infiniti, anche Washington decide di riprendere a questo punto un celebre brano elettropop/R’n’B degli anni ’80, Computer Love degli Zapp di Roger Troutman, riproponendolo nelle vesti di una ballad espansa, dilatata ed elegantemente jazzy: è il trombone di Porter che lascia intuire la celebre linea melodica nell’etera apertura del brano, e il resto è affidato alla voce calda e potente di Patrice Quinn per l’unico brano in scaletta nel quale, al sax tenore di Washington, si affianca l’alto di Terrace Martin. È invece un futuristico e flebile solo del synth di Brandon Coleman ad aprire la sequenza delle improvvisazioni, cui segue un intervento mai meno che esplosivo di Washington al sax tenore prima del ritorno sulla struttura cantata del brano. Il breve intermezzo di The Visionary, appena un minuto e dieci secondi col solo Austin alla batteria e Thundercat al basso elettrico, sfocia nel funk interstellare e grondante black music di Get Lit, realizzata col contributo vocale di nientepopodimeno che Sua Maestà George Clinton e del rapper D Smoke: un funk grooveggiante, profondamente orientato verso un sound 70’s (corrono subito alla mente i Parliament, tanto per citare lo stesso Clinton: “The desired effect is what you get when you improve your interplanetary funksmanship”) e chiuso da uno strepitoso e delicato intervento solista del flauto del padre di Kamasi, Rickey Washington. A suggellare la prima metà del lavoro giungono i panorami ambientali e vagamente psichedelici di Dream State: André 3000 veste i panni di pifferaio magico e duetta coi suoi flauti insieme a Washington (che opta qui per il sax alto). Dream State è un brano onirico, una fusion elegante di jazz, echi classici e batterie/bassi funk, nel complesso un affascinante episodio dai caratteri nettamente notturni. La melodia (quello che chiamerei il tema) assume la forma sfumata di un qualcosa di delocalizzato, espanso ed etereo, mutevole: contrappuntato da fiati e synth, il filo rosso melodico si incastra efficacemente nei bassi sintetici governati da Brandon Coleman e nel drumming preciso e incalzante di Tony Austin (qui da solo, come nella precedente Get Lit), base ideale per il solo ondivago e affascinante di Washington, che accompagna il brano alla sua conclusione.

La seconda parte del lavoro è aperta da una ballad, Together, che si fregia della voce del cantante e cantautore BJ the Chicago Kid: un delizioso jazz-pop dall’incedere prossimo a quello di Computer Love e benedetto da un solo splendido del trombone di Ryan Porter, anche principale autore del brano, che si dà il cambio col sax tenore del band-leader, come sempre perfettamente a suo agio (e quanto mai romanticamente riflessivo) anche nelle strutture più dilatate. Anche qui torna il ricorso al doppio drumkit, con Ronald Bruner Jr. e Tony Austin a duettare alle pelli mentre il groove è affidato al contrabbasso suonato da Ben Williams: nel complesso, un brano tanto denso di jazz quanto luccicante di una sorta di elegante, luminoso R’n’B futuristico. The Garden Path torna a percorrere sentieri classici della musica di Kamasi Washington, un up-tempo costruito sull’incedere percussivo impresso da Bruner Jr. e Austin e accompagnato da cori in aria di gospel post-moderno (guidati da Dwight Trible e Patrice Quinn), che lasciano spazio a un solo lancinante del sassofono del leader e, a seguire, all’intervento prepotente e irresistibile della tromba di Dontae Winslow. Dopo una breve ripresa del tema, è Ryan Porter col suo trombone a ritagliarsi uno spazio personale che si spenge nel ritorno alle voci che accompagnerà il brano alla sua conclusione. La seguente Road To Self (KO) è il brano più lungo ed elaborato del lotto: composizione autografa (e solitaria) di Washington, Road To Self (KO) è aperta dagli intrecci dei synth di Brandon Coleman e dagli accordi del piano di Cameron Graves, mentre il contrabbasso di Miles Mosley impone la sua figurazione ritmica sotto il drumming discreto dei due batteristi e i fiati si occupano di gestire il bellissimo tema. Il pezzo si prende tutto il tempo che serve per aprirsi nei vari interventi solisti: ad aprire le danze è il tenore del leader, che gioca con frasi coltraneane che si accumulano come delicate increspature di onde su uno specchio d’acqua calma. Mentre il fraseggio di Washington scivola concedendosi lievi dissonanze inseguito dal pianoforte di Graves, la ritmica imposta da Bruner Jr., Austin e Mosley si fa più incalzante e serrata: a quello del band-leader succede quindi un intervento molto lungo del contrabbasso di Mosley, la cui melodiosità è stemperata dal sapiente ricorso all’effettistica (flanger e wah) che da sempre caratterizza la cifra espressiva del fortissimo bassista americano. Mosley decora il suo spazio con un fraseggio che va in rumoristico crescendo, intrecciandosi infine alla chitarra elettrica di Woody Aplanalp (una delle rare apparizioni di una sei corde lungo le tracce dell’album). Un breve rientro sulla struttura del brano consente alla band di lasciare spazio alle batterie in quello che forse è uno dei momenti più alti dell’intero lavoro, rappresentato da uno spettacolare fraseggio solista di Ronald Bruner Jr., magicamente sospeso tra solidità del groove e ricchezza dei fill e con un’espressività davvero esagerata. L’intermezzo ritmico sottolinea (se ancora ce ne fosse bisogno) l’importanza che Washington e la band riconoscono alla componente del “movimento” e riporta il brano sul tema iniziale, accompagnandolo alla sua conclusione. La successiva Interstellar Peace (The Last Stance), composta da Coleman Graves, torna a rallentare il ritmo: si tratta di una ballad caratterizzata da un suono evocativo e orchestrale, nella quale i pedali bassi sono affidati allo stesso Graves (grazie a una bass keyboard) e la band crea un pieno frastornante e pomposo, dotato di una magniloquenza splendidamente groovy, sul quale Winslow e Porter brillano con misurati intrecci di tromba e trombone. Lines in the Sand, altra composizione del solo Washington, è un R’n’B/soul che flirta con la complessità armonica del jazz: incernierato sui bassi profondissimi ed espressivi di un sempre superlativo Miles Mosley, il brano, tra gli interventi delle voci (è ancora Dwight Trible a duettare con Patrice Quinn), si apre su un magnifico chorus dei fiati (col sax in bella evidenza), per poi prendere un aspetto quasi urban mentre Washington avvia il proprio intervento solista, con batteria grooveggiante e contrabbasso che sconfina nel funk/soul. Il fraseggio di Washington è a tratti acidissimo, una breve tempesta di note che si abbatte violentemente sul ritmo scavato da Mosley e dai batteristi e che lascia spazio a un intervento frammentato e puntato del pianoforte di Graves, sostenuto dal crescendo strepitoso della sezione ritmica. La reprise del tema accompagna, come di consueto, il brano alla sua conclusione, impreziosita nuovamente dal flauto di Rickey Washington. A chiudere Fearless Movement giunge, ironicamente, un brano che si intitola Prologue. Come sempre accade per le opere di Washington (ma come, più in generale, dovrebbe sempre accadere), la musica è da intendersi principalmente come luogo di connessioni: non sorprende quindi che questa Prologue (arrangiata da Miles Mosley) germini da un seme prezioso come la celebre (e stupenda) composizione di Astor Piazzolla Prologue (Tango Apasionado) , inclusa nel bellissimo album The Rough Dancer and the Cyclical Night (Tango Apasionado) licenziato nel 1988 dall’etichetta American Clavé e riedito nei tardi anni ’90 per Nonesuch Records (il brano ha guadagnato notorietà anche per l’utilizzo che ne ha fatto Wong Kar-Wai nel suo Happy Together, datato 1997, del quale parlavo diffusamente qui). Del brano di Piazzolla questa Prologue riprende il tema, adagiandolo su un opening elettronico dei synth e un furibondo up-tempo delle batterie di Ronald Bruner Jr. e Tony Austin; la rilettura viene poi infiammata da una serie di interventi solisti travolgenti, da quello (torrenziale) della tromba di Dontae Winslow a quello, dapprima pensoso e poi sempre più coltraneano, del band leader, che accompagnano il brano in un crescendo quasi orgiastico verso la ripresa finale del tema, col trombone in bella evidenza. Da qualunque parte la si guardi, Prologue è una gemma preziosa di fusion e sperimentazione sonora, tenuta insieme da una band in stato di grazia, e rappresenta non soltanto una degna conclusione dell’intero lavoro, ma il miglior biglietto da visita per riprendere immediatamente la riproduzione dall’inizio.

È evidente come questo Fearless Movement non abbia le caratteristiche di forte coralità e sacralità che potevano essere rinvenute nei solchi di The Epic, un lavoro che era tanto tentacolare e ambizioso quanto prepotentemente efficace, un autentico disco-mondo, insieme collezione di canzoni memorabili e azzeccata dichiarazione d’intenti: e pur tuttavia, nuovamente, anche questo episodio della ricerca musicale di Kamasi Washington è in grado di fotografare uno stato dell’arte, di immortalare la vitalità di una scena musicale nel momento stesso in cui essa si sposta per proiettarsi verso il futuro. Al fortunato esito di questa operazione concorre non poco la decisione del leader di farne un lavoro “collettivo”, coinvolgendo le migliori menti della black music contemporanea (da Thundercat, da sempre ospite di lusso nei dischi del sassofonista, a Terrace Martin, da André 3000 degli Outkast a BJ The Chicago Kid, da Dwight Trible fino a mostri sacri come George Clinton, oltre ovviamente ai compagni di viaggio della West Cost Get Down) e liberando un’energia che si respira ovunque nella quasi ora e mezza dell’esecuzione: come già accennato, Washington ha scelto di ispirarsi alla danza come elemento emotivo ancora prima che fisico, al movimento quasi come concetto spirituale, al cambiamento come forza trainante di ogni spostamento del limite, e ha trasferito questo afflato dentro dodici tracce che, a loro modo, sono tanto materiche quanto filosofiche, tanto tattili e fisiche (come fisica è quella tentazione di scuotere il capo o battere il piede a tempo) quanto cerebrali. In un’armoniosa unione degli opposti, dentro Fearless Movement (come accadeva anche in The Epic) osserviamo l’ibridazione gioiosa dell’intelletto con l’emotività, che produce una musica che è un piacere per le orecchie tanto quanto per l’animo. Che ci si trovi di fronte a una produzione di qualità superiore è palese: il livello dei musicisti coinvolti parla da solo, e per quanto si potrebbero passare ore e ore a discutere di quel fraseggio o di quel groove, penso che le parole non sarebbero comunque adeguate a rendere conto (e giustizia) dell’inventiva e dell’immaginazione di questi musicisti. Ecco perché non mi lancio in un’analisi del fraseggio torrenziale di Washington, o delle scelte di accompagnamento di Miles Mosley (altro numero uno assoluto), oppure non discuto qui di nuovo il drumming sfaccettato e multiforme di un autentico Maestro come Ronald Bruner Jr., e non mi sogno nemmeno di commentare gli interventi di musicisti come Ryan Porter o Dontae Winslow, e la lista potrebbe continuare. Qui si prende atto che siamo in serie A, e ci si gode il viaggio: Fearless Movement è un flusso inesauribile di prepotente gioia musicale, uno di quei dischi che riconciliano con l’essenza stessa della musica (almeno per come piace intenderla a me), una dichiarazione di profonda salute per tutto un movimento (quello del jazz, del quale, come abbiamo già discusso, la musica di Kamasi Washington non rappresenta che una piccola parte) e, soprattutto, un album con dodici bellissime canzoni da assaporare/ascoltare con attenzione/ballare/o-qualsiasi-altra-cosa-vogliate-fare mentre corriamo a perdifiato verso il futuro.

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