Del tempo trascorso e del tempo perduto: Dog Years (The Night Game, 2021)

Cause I thought i saw a ufo
but I guess it was just a plane
and i thought maybe the seed would grow
yeah but it’s circling round the drain
i swear i’d be home for christmas this year
if i could just fix my brain
oh i thought i saw a ufo
but they all say i’m insane
never wanted to feel like i was grown up
saying i’d never ever was gonna ever grow up
living like i was forever young i’d never grow up
nobody told me that one day i was gonna wake up
grown up
and fucked up

Quello di Martin Johnson non è un nome molto conosciuto al grande pubblico, e confesso che anche io non lo avevo mai sentito nominare prima di imbattermi in questo Dog Years, ultimo album solita dato alle stampe dal cantautore americano nelle vesti di The Night Game, uscito lo scorso 5 marzo. Come sempre più spesso mi accade, ho incontrato questo lavoro usando Instagram, e in particolare ci sono arrivato dal profilo di Sean Hurley, notevole bassista/turnista che ha collaborato alle registrazioni del disco suonando in tutte le undici tracce. The Night Game, dunque: dapprima duo composto da Johnson e dal chitarrista Kirin J. Callinan, con un album all’attivo (l’omonimo The Night Game, pubblicato nel 2018), un tour come spalla di John Mayer, che in prima persona li ha voluti in apertura delle sue date (I heard this song. Then I listened to it again to make sure I heard what I thought I had. Then I asked them to open up for half the upcoming summer shows. This is that stuff we listen to new music for), poi, con l’uscita di Callinan, progetto solista dello stesso Johnson che culmina ora in questo Dog Years. Dal momento che l’attività principale di Johnson, da anni a questa parte, è quella di autore per altri interpreti (da Taylor Swift a Jason Derulo) non sorprende che il nostro sappia esattamente quali corde toccare per comporre la canzone pop perfetta: e infatti in questo Dog Years le tocca tutte, mettendo insieme una collezione scintillante di undici perfetti momenti di pop-music, in bilico tra orizzonti smaccatamente retrò (legati in particolare al sound degli anni ’80 e ’90) e luminosi slanci di inventiva futuristica, in equilibrio precario tra gli standard della live band (basso-chitarra-batteria) e l’ingegneria musicale (il pervasivo ricorso alla programmazione elettronica, le muraglie di synth), un ricco florilegio di ballate romantiche inframezzate da molti piccoli gioiellini power-pop che flirtano ora con il rock e ora con la dance. Ma Dog Years è soprattutto il disco di una persona che sa raccontare storie, che ha voglia di raccontarne e che si era stancata di farlo solo attraverso altri interpreti. Racconta soprattutto la storia di una solitudine, che poi è la storia di tutte le solitudini, e della solitudine di ciascuno di noi: in un mondo che corre veloce, senza il tempo di prendere fiato, le storie scritte da Johnson riguardano chi rimane indietro, chi non riesce a conformarsi e si sente sempre, in qualche modo, irrimediabilmente fuori posto.
L’apertura, affidata al sound apocalittico di
The Stiltwalker, che coniuga lo spoken word con un groove massiccio e futuristico, e sembra a tratti riecheggiare gli anni ’90 di Ok Computer (penso alla sciarada di note del piano) o addirittura di Ava Adore degli Smashing Pumpkins, non deve ingannare: come si intuisce immediatamente dalla successiva I Feel Like Dancing, si tratta di un momento di rottura, qualcosa di totalmente distante dall’abito pop (per quanto eclettico ed elegante) che Johnson indosserà nel resto del lavoro, un passaggio magnetico che riesce nello scopo dichiarato di prendersi immediatamente tutta l’attenzione dell’ascoltatore, incuriosendolo e spingendolo a proseguire. E proseguendo si incontra dunque I Feel Like Dancing, un brano che propone subito un’irresistibile impennata del ritmo, e il cui sound comincia a pescare a piene mani da un electro-pop di chiara matrice anni ’80, come spesso accadrà lungo la tracklist: ma soprattutto I Feel Like Dancing è baciata dalla grazia di una melodia che resta stampata in testa (altra caratteristica comune a tutte queste canzoni), e che spinge a canticchiare fin dal primo ascolto. Fa seguito la splendida Magic Trick, ballad dapprima adagiata su placide percussioni elettroniche e che esplode poi in un divertito ritornello ancora apertamente retrò (da sottolineare il lavoro splendido di Sean Hurley al fretless); Our Generation ha un piglio che sta da qualche parte a metà strada tra echi di Prince, un ritornello alla Katy Perry e un brano di critica sociale, rivolto alla denuncia dell’impossibilità dell’amore in una società votata all’apparenza e ai legami usa e getta, incapace di vera intimità, emotività ed empatia: il testo è divertente (cito a caso: from online dating isolation (our generation)/ to adderal and concentration (our generation)/ from marijuana legalization (our generation)/ to fetish porn and masturbation (our generation)/ what’s love in our generation? (in our generation)/ dressed up, but we’re super sedated, yeah/ so what, (what) we got information (whoa whoa, yeah)/ what’s love in our generation? (our generation)/ lifes tough when you’re on a perma vacation, yeah / got no one and i got no destination (whoa whoa)/ oh yeah, from fantasy and simulation (our generation)/ to self help books and meditation (our generation)/ from birth control and procreation (our generation)/ to sodomy and domination (our generation)/ designer drug self liberation (our generation)/ to likes for likes and validation (our generation)/ our empty dreams and aspirations (our generation)/ ahh, everyone across the nation (our generation) well oh yeah) e il brano, che ondeggia tra il puro cantato e lo spoken word, mettendo in scena un dialogo tra Johnson e Molly McCook che mima uno scambio di messaggi in chat, è ancora impreziosito dalla bassline di Sean Hurley (che non si nega un po’ di slap). La successiva Companion dichiara fin dai primi istanti il proprio debito estetico con le produzioni pop-elettroniche di metà anni ’90 (nei primi secondi sembra addirittura quasi un brano uscito da Pop degli U2, album prodotto da uno dei deus ex machina di questo sound, Howie B.): qui è il groove imbastito dal basso poderoso di Hurley e dal drumming quadrato di Rob Humphreys a spingere avanti il pezzo, puntellando il duetto tra Johnson e Elle King. One Phone Call rappresenta l’ennesima ottima occasione per godersi uno Sean Hurley ben oltre lo stato di grazia impegnato a sostenere col suo fretless (insieme al precisissimo Humphreys) una ballad che sconfina in territori di puro synth-pop, graziata dall’ennesima melodia destinata a rimanere marchiata a fuoco nella memoria dell’ascoltatore; Hurts So Good è scandita da una pulsazione elettronica e da una stratificazione di synth, un affresco di droni riflessivi cui presto si sovrappone il groove devastante portato dall’ingresso di Hurley e Humphreys nel ritornello, e fa il paio con Dancing in Heaven, ballad incentrata sul superamento di un lutto, sulla cui tessitura Johnson sfodera una prestazione vocale di valore assoluto, veicolando tutta l’emotività del testo attraverso un arrangiamento stavolta più semplice, accompagnato dai soli Brandon Paddock (anche co-produttore dell’album) e Sean Hurley; la seguente Beautiful Stranger spezza il momento riflessivo con i suoi synth ciccioni e i bassi sintetici a scandire ritmiche che citano smaccatamente il synth-pop inglese anni ’80, un ritornello ancora irresistibile e addirittura un sassofono che anima il bridge e il finale del brano (e che si deve allo stesso Paddock). Il piccolo capolavoro è però rappresentato da UFO, l’altro forte elemento di rottura del disco, di cui ho già parlato nell’ultimo Round-Up: Johnson lascia cantare il fretless di Sean Hurley, e ci costruisce intorno una ballad pop-rock sporca e malinconica, una specie di inno per tutti gli underdog del mondo, ora confessione di uno sconfitto (never wanted to feel like I was grown up/ saying I’d never ever was gonna ever grow up/ living like I was forever young I’d never grow up/ nobody told me that one day I was gonna wake up/ grown up/ and fucked up) e ora riuscitissimo affresco dalla periferia dell’America più profonda, tra isolamento sociale, solitudine esistenziale e incomprensione dilagante. La chiusura è affidata al lunghissimo ritornello di A Postcard from the City of Angels: con uno slancio di ottimismo, una confessione del desiderio di cambiare, andare via, trovare una nuova dimensione, che sia soprattutto una dimensione vera, autentica (and it’s halloween on christmas day/ in the land of make believe/ and there’s cocaine in my coffee cup/ I’m stuck here in my car/ and the miles and miles of streetlight rows/ are drowning out the stars, e poi I think its time for something better than this/ I think its time I got the hell out of los angeles/ the seattle skyline/ alabama moonshine/ I don’t need a new start just a little change of view/ I smell northern pine trees/ carolina sea breeze/ just get me somewhere that’s far away from you), un brano arricchito ancora una volta dagli arrangiamenti dei fiati scritti da Brandon Paddock.
Prodotto da un’artista che si propone con una sincerità disarmante, buffo e malinconico al tempo stesso, un po’ anti-eroe vagamente tamarro che veste come
Kavinsky e accenna passi di danza alla Michael Jackson (si vedano i video di Magic Trick o A Postcard from the City of Angels: a un certo punto, durante quest’ultimo, scorre anche l’insegna del Million Dollar Hotel, e se non è una dichiarazione d’intenti questa…) e un po’ uomo tormentato che compone liriche piene di immagini di straordinaria forza ed esattezza, Dog Years è un album davvero strano: palesa una passione scanzonata, ai limiti del citazionismo e del feticismo, per un retro-sound grondante groove anni ’80 e atmosfere elettroniche anni ’90 e la coniuga con una dimensione letteraria che strizza l’occhio ora al post-apocalittico à la Cormac McCarthy (The Stiltwalker), ora allo zibaldone intimista (e post-modernista, come in Companion o Hurt So Good) e ora alla grande tradizione della canzone americana (debito evidente fin dalla grafica sporca e “on the road” della copertina, che contiene in un unico scatto tutta la periferia americana, e palese nei testi di brani come UFO), senza rinunciare ad incursioni in territori più apertamente contemporanei (almeno a livello per così dire “tecnico”, come nella già ampiamente citata Our Generation); un florilegio di 11 storie più spesso dolorose che piene di speranza (cui fa forse eccezione l’ultimo brano), cucite sopra arrangiamenti che si fanno forti del groove devastante condotto dalla premiata ditta Hurley/Humphreys e della ricchissima palette offerta dalle onnipresenti coroloriture sintetiche. Ma al di là dell’aspetto puramente musicale, il cui valore è indiscutibile, la cosa davvero importante di questo lavoro è il modo onesto col quale si confronta col dolore, la miseria e la solitudine: in fondo Dog Years è un disco che parla di sofferenza, rimorso, morte, perdita, e lo fa in modo schietto, senza negarsi niente di tutto quel percorso che serve ad arrivare dall’altra parte, a raggiungere la capacità di accettare, a crescere (ancora, never wanted to feel like i was grown up / saying i’d never ever was gonna ever grow up/ living like i was forever young i’d never grow up / nobody told me that one day i was gonna wake up / grown up/ and fucked up, canta Johnson in UFO, e quanto è bella quella pausa tra “grown up” e “fucked up”?); ed è anche un disco che parla del tempo, di come questo ci scorre via tra le mani, e di quanto crescere possa fare paura. “Time is scary. I’m about to be the age my dad was when he had me. My dad seemed young when I was a kid, but also, my dad was always an adult-adult. It is next chapter time. I can either kick and scream the whole way and be miserable or I can embrace it and be happy”, dice l’autore in un’intervista: e non è che catarsi quella che Johnson cerca (e trova) in brani come UFO, lunghe confessioni e insieme piccole sedute di auto-analisi in versi nelle quali riversare con la massima sincerità possibile tutto ciò che davvero si è, tutto ciò che si pensava di poter/dover essere, e ovviamente quel che si è stati. Tutto questo senza perdere di vista ciò che saremo, un domani: saper immaginare un futuro, che è un qualcosa di apparentemente banale, ma significa inventarsi una vita, e farlo continuamente, giorno dopo giorno. Dog Years, un bizzarro esperimento di songwriting in bilico tra la malinconia del passato e il brivido dell’inaspettato, in fondo non è altro che questo: un tentativo di mettere in musica il desiderio di autenticità, la volontà di essere pienamente ciò che si è e tutto un percorso di crescita, la mutazione, il cambiamento, una catarsi al tempo stesso dolorosa e affascinante, e soprattutto necessaria. Mi voglio sbilanciare: il 2021 è iniziato da circa 4 mesi, eppure questo disco qua è già un serio candidato al titolo di miglior disco dell’anno.

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