February Round-Up: All you need is a HEADCLEANER

Ad inizio febbraio Theo Katzman ha annunciato con il singolo omonimo il suo prossimo album, Be The Wheel, che sarà pubblicato il 10 marzo; a questo brano sono seguiti altri due estratti nel mese di febbraio (Corn Does Grow e She’s in my Shoe) e un quarto pezzo pubblicato a inizio marzo (You Gotta Go Through Me). Il sound di questi brani è quello già ascoltato sul precedente lavoro di Katzman, il bellissimo Modern Johnny Sings Songs in the Age of Vibe (ne parlavamo qui ormai qualche anno fa), quindi un folk-rock con venature pop e molte reminiscenze sonore che vanno in direzione di gruppi come i Fleetwood Mac (essendo da sempre Stevie Nicks uno dei principali riferimenti dichiarati di Katzman). Be the Wheel è una bellissima ballad pianistica, con un testo nostalgico-retrò; Corn Does Grow un rock incarognito tempestato di distorsioni (sulla voce e la chitarra) e impreziosito da un solo di Dave Mackay a un filtratissimo wurlitzer; She’s in my Shoe una classica Katzman-ballad, una love song piena di immagini delicate e semplicemente efficaci (The windows down/ Radio’s on/ And on every station/ She’s in the song), capace di evocare tenere atmosfere domenicali, incorniciate da un prezioso e melodicissimo assolo del solito Joe Dart al suo Music Man. Su tutto a spiccare è il songwriting di Theo Katzman, sempre peculiare, tenero e graffiante al tempo stesso, originale e coraggioso: Be The Wheel si preannuncia come un altro piccolo instant classic per un cantautore che merita di essere annoverato tra i più interessanti della sua generazione.

‘I had this idea for ‘the court will rise’ chorus, so it became a free-form, impressionistic lyric that connected to justice, but there’s a sense of urgency there. A lot of life is a struggle between order and chaos and in some senses the justice or legal system is something that we impose to try and bring some element of order to the chaos. That’s often abused, it’s often unfair and discriminatory but at the same time it’s probably an essential part of a civilised society. But we do need to think sometimes about how that is actually realised and employed.’

L’attesa per i/o, il nuovo album di inediti di Peter Gabriel, continua, accompagnata durante febbraio dal singolo The Court, pubblicato ancora in due versioni (stavolta prima il Dark Side Mix, lo scorso 5 febbraio, opera dell’ingegnere del suono Tchad Blake, e a seguire, due settimane più tardi, il Bright Side Mix, realizzato da Mark ‘Spike’ Stent) cui dovrebbe aggiungersi stavolta un terzo mix, chiamato Atmos-in-Side Mix, opera di Hans-Martin Buff. Il brano, come il precedente Panopticom, è accompagnato da un artwork specifico, stavolta rappresentato dall’installazione rituale Lifting the Curse realizzata da Tim Shaw (The work was originally created to literally lift the curse the was issued to the Royal Academy and its members by the artists Gilbert & George, but is also addresses a wider gathering of dark forces with particular reference to the Russian invasion of Ukraine). The Court è un brano oscuro e magmatico, estremamente minaccioso, scandito da percussioni diseguali e sottolineato dai bassi spaziosi e profondissimi di Tony Levin, dedicato al tema della ricerca di giustizia e parzialmente ispirato all’attività di associazioni come NAMATI, impegnate per garantire l’accesso alla giustizia ai più deboli in tutto il mondo. Ovviamente il Dark Side Mix di Tchad Blake ha tinte più oscure, che fanno risaltare drammaticamente la coda finale del brano, scandita dal pianoforte, mentre il Bright Side Mix di Stent vede i synth di Brian Eno maggiormente avanti nel mix a conferire al brano tinte un po’ più ambient e sospese nella prima fase, che si colorano di tensione nei ritornelli e sfociano in un finale ritmicamente più definito, scolpito dall’interplay tra Manu Katché e Tony Levin. Insomma, in attesa delle date italiane del tour (il 20 e 21 maggio prossimi, a Verona e Milano) e della pubblicazione del disco, Peter Gabriel ci fa dono di un altro brano di altissima qualità.

Di Ceilings ho già parlato abbondantemente e in più occasioni (tipo qui e qui), perché Lizzy McAlpine è stata una delle mie artiste preferite dello scorso anno e non finirò mai di scrivere bene del suo songwriting e della sua voce. Non mi dilungherò più di tanto, quindi, ma voglio solo segnalarvi che lo scorso 14 febbraio McAlpine ha pubblicato il video ufficiale di accompagnamento al brano, realizzato a partire dal cortometraggio di Gus Black che accompagnava l’album Five Seconds Flat con l’aggiunta di qualche nuova sequenza. È comunque una splendida occasione per riascoltare questo brano bellissimo, quindi schiacciate play!

(English Version) I have already spoken abundantly about Ceilings and on diverse occasions (such as here and here), because Lizzy McAlpine is one of my favorite artists since I listened to her last year and I never get tired of writing well about her songwriting and voice. I won’t go too much into details now, but I just want to let you know that last February 14th McAlpine released the official video accompanying the song. The video starts from the short film by Gus Black that accompanied the album Five Seconds Flat adding some new, beautiful sequences. Most of all, it’s a wonderful opportunity to listen to these beautiful song and voice again, so don’t waste time and hit the play button!

Lo scorso 23 febbraio i National hanno condiviso il secondo singolo estratto dal nuovo album First Two Pages of Frankenstein, in uscita per 4AD il 28 aprile prossimo: si tratta di New Order T-Shirt, una ballad nostalgica e romantica nel più pieno stile della band di Matt Berninger e dei fratelli Dessner e Devendorf, con un testo che si avvita attorno al tema dei legami e della loro rottura, che pare avviarsi ad essere il fulcro narrativo dell’intero nuovo album. Nelle parole di Aaron Dessner, “il verso ‘I keep what I can of you’ vale per tutti quelli che ho conosciuto o amato” : gli intrecci delle chitarre e una batteria geometricamente ordinata accompagnano il cantato di Berninger lungo un nostalgico viale dei ricordi, mentre si rende conto di dover prendere una decisione difficile o forse addirittura impossibile. Ascoltando questa canzone mi sono tornati in mente alcuni versi di un amico poeta, Simone Molinaroli, che voglio condividere con voi anche se non c’entrano forse niente, ma comunque c’entrano qualcosa: “anche se / abbiamo tutti amato / qualcosa che non esiste / e maledetto la speranza / e l’attesa incalcolabile dell’avvento / di un regno, di una parziale salvezza. / Abbiamo tutti amato / qualcosa che non esiste. / Per questo, sopravvissuti.”

Sedere sul molo con Otis Redding

Il 23 febbraio del 1968, 55 anni fa, Volt/Atco (branca della Stax Records) pubblicava The Dock of the Bay, album postumo del grande Otis Redding, morto appena un paio di mesi prima in un tragico incidente aereo. The King of Soul aveva lasciato, oltre a un’infinità di canzoni di clamoroso successo, un inedito, (Sittin’ on) The Dock of the Bay, che fu scelto come brano di lancio per questa operazione commemorativa. Si tratta di un brano che oggi tutti quanti conoscono, ma per l’epoca rappresentava una netta trasformazione nel sound dell’artista: di fatto, aveva un sound molto più pop del resto del catalogo di Redding, e questo causò non poche preoccupazioni in seno alla Stax Records, che aveva l’artista sotto contratto. Lo stesso Redding non considerava la versione del brano che oggi tutti conosciamo come quella definitiva, e pianificava di rimetterci mano: sfortunatamente, non ne ebbe occasione.

Al di là della bellezza senza tempo della canzone, riascoltare oggi un brano come (Sittin’ On) The Dock of The Bay significa soprattutto poter tornare a respirare l’atmosfera di un periodo storico in cui il sound di etichette come Stax Records e Motown Records dominava le classifiche e plasmava letteralmente la musica popolare americana: la ricchezza degli arrangiamenti, la qualità strumentale dei brani prodotti in seno a queste etichette sono ancora oggi stupefacenti. Sul confronto tra sound Stax e sound Motown si potrebbero scrivere diecimila pagine, e credo non sia il caso di affrontare qui un argomento tanto vasto (potreste cominciare da qui, tanto per iniziare a farvi un’idea): pur tuttavia, chiunque oggi voglia suonare, scrivere o anche solo comprendere la musica dovrebbe confrontarsi con la peculiare grammatica che le due etichette, coi loro artisti, hanno contribuito a scrivere tra gli anni ‘60 e gli anni ’80 del secolo scorso (in seno al rhythm’n’blues, al gospel e al blues country la Stax, più orientata al soul, all’R’n’B e al funk la Motown: non a caso i suoi formidabili strumentisti e session musicians erano raccolti sotto il moniker di The Funk Brothers). Su (Sittin’ On) The Dock of The Bay si ascoltano musicisti del calibro di Donald “Duck” Dunn (forse The Blues Brothers vi dice qualcosa…), Booker T. Jones e Al Jackson Jr, tra gli altri: in ogni caso un buon punto di partenza per approfondire tanta bella musica popolare americana del secolo scorso.

I primi 30 anni di Tabula Rasa

A febbraio del 1993 vide la luce il primo disco degli Einstürzende Neubauten uscito dopo la caduta del Muro di Berlino (il precedente, Haus der Lüge, era stato pubblicato appena due mesi prima di quell’evento, il 4 settembre del 1989, per l’etichetta Some Bizarre): come da titolo, Tabula Rasa (uscito per Potomak, etichetta della band, in Germania, e per Mute Records in tutto il mondo) avrebbe fatto piazza pulita di ciò che la band era stata negli anni ’80, aprendo a inattese nuove direzioni che avrebbero condotto Blixa Bargeld e soci al raffinato Neubauten-pop che la band ha prodotto negli ultimi 20 anni. Sospetto peraltro che la portata dell’influenza che un album come questo avrebbe esercitato su una bella fetta di rock mondiale negli anni a seguire sia stata piuttosto sottovalutata, sebbene appaia abbastanza palesemente oggi (col famoso senno di poi?) ad esempio anche soltanto nella scelta del titolo di quello che fu l’album summa dell’esperienza dei C.S.I. di Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, Tabula Rasa Elettrificata (nel quale la formula scelta per il proprio nuovo inizio da Bargeld e accoliti riecheggia evidentemente in tutta la sua chiarezza) o nelle sonorità di gruppi come i Nine Inch Nails di Trent Reznor, che è difficile non immaginare legate all’immaginario sonoro proposto da un album come questo. Potrebbe essere un caso, ma dato che nessuna rivoluzione si può fare se non accompagnandola a una feconda e appassionata distruzione totale, Tabula Rasa rappresenta la riemersione dalle macerie: le macerie del muro, le macerie di una città divisa, dimenticata da Dio e abbandonata per intero nelle mai inermi (e incapaci) degli uomini, ma anche le macerie del futuro; ferite troppo profonde per potersi rimarginare con uno schiocco di dita, promesse che sarebbero presto state tradite, una profonda disillusione che forse è anche un meccanismo di difesa contro i tradimenti dell’uomo. C’è tutto questo in Tabula Rasa: mi viene naturale il paragone con Così Lontano, Così Vicino (In weiter Ferne, so nah! ), il seguito che Wim Wenders volle dare proprio nel 1993 (non sarà un caso nemmeno questo) alla storia dei suoi due angeli Damiel e Cassiel raccontata insieme a Peter Handke nello storico e bellissimo Der Himmel über Berlin (1987). Se nel primo film, infatti, ad attendere Damiel fattosi uomo c’era una storia d’amore (“la storia dell’uomo e della donna”), e al di là dell’ombra del muro risiedeva la speranza, quando a “cadere” sulla terra è Cassiel dietro l’angolo ad attenderlo c’è una torbida storia di violenza, traffico di armi e pornografia: un intrico giallo, che è sempre in Wenders il modo nel quale i personaggi della storia si avvitano su se stessi quando perdono il controllo sulla loro realtà. Che le promesse portate con sé dalla riunificazione potessero essere disattese era probabilmente chiaro a molti: che tanto difficile sarebbe stata l’inclusione della Germania riunificata dentro la trionfante società capitalista, lo avevano intuito forse in pochi. Tra questi, sicuramente, uno come Blixa Bargeld, che dell’inquietudine esistenziale ha da sempre fatto metafora politica e sociale (e viceversa): man mano che la società come la conoscevamo andava perdendo i suoi connotati, la frammentazione sociale ed esistenziale avrebbe trovato piena espressione nell’opera della band (penso a un brano come Sabrina, dal venturo Silence is Sexy, con tutto il suo portato politico). Quando Blixa Bargeld, Alexander Hacke, F. M. Einheit, Mark Chung e N. U. Unruh entrano in sala di registrazione per dare alla luce il loro nuovo album, tutto questo è di là da venire: ma, come accade con la migliore arte, evocare il futuro equivale a trasportarlo di peso nel presente, e proprio per questa ragione Tabula Rasa è ancora oggi così potente nella sua resa sonora.

L’album è introdotto dal sabba post-industriale della devastante Die Interimsliebenden, summa filosofica della destabilizzante mancanza di riferimenti sociali in forma di metafora romantica, ovvero di storia d’amore tra due amanti ad interim, destinati a succedersi ma mai a incontrarsi davvero. Ai violentissimi rintocchi e alla potenza sonora di Die Interimsliebenden, che si scioglie in una pioggia di percussioni metalliche (Es gibt sie gestern nicht mehr/ Und morgen noch nicht), fa seguito l’inconsueta Zebulon, una ballad introdotta da armonici e nella quale la voce di Bargeld è addirittura accompagnata da cori. Dopo il disorientamento espresso in Die Interimsliebenden, Zebulon sembra voler raccontare della ricerca di un equilibrio (Lass deine Mitte meine Achse sein/ Um die dein Leib sich windet), ma l’illusione dura poco, perché la ballad si tramuta verso la sua conclusione in una tiratissima cavalcata punk scandita da percussioni in odore di metallurgia. A questo punto sono altri armonici a introdurre il meraviglioso haiku di Blume, un episodio raffinatissimo nel quale la voce di Bargeld si scontra con la vocalità gelida e suggestiva di Anita Lane (recentemente scomparsa): la sensazione è quella di entrare dentro un carillon a grandezza naturale (sensazione forse suggerita anche dal video), ma un carillon nel quale le forze centrifughe sono enormi e sconquassanti, il mistero profondo, la violenza sonora appena mitigata da una tensione che non si scioglie mai (My name, should you know it/ remains unspeakable), pena la maledizione eterna. La seguente 12305(te) Nacht è una cupissima suite industriale, tagliata a metà da un organo che rammenta una motosega avvolta da una pioggia di rumori metallici: ancora, precipitiamo nell’assenza di ogni riferimento plausibile (Von hier bis Mars war näher/ Als von mir bis zu die/ Ich schien aus Antimaterie zu sein/ Gefährlich! ) tenuti a galla soltanto dalla melodia cantata da Bargeld, largamente sepolta sotto gli interventi rumoristi della band. La concitata cavalcata di Sie fa i conti direttamente con Sie, “lei”, “Die Mauer” (il muro è femminile, in tedesco, come ci ricorda anche Zamboni in un passo del suo bellissimo Nessuna Voce Dentro): The wall decreases in size, eventually disappears but continues underground, canta Bargeld, ed è un po’ il centro dell’idea di un passato che continua a gettare la sua ombra su un presente solo apparentemente “migliore”, pacificato. Sie è un potentissimo accumulatore di tensione per la quale non è previsto un rilascio, che si spenge improvvisamente nell’incedere elegiaco degli archi di Wüste, sporcati nella loro eloquente magniloquenza da una sequenza di rumori ambientali oscuri e inquietanti: la bellezza ferita che emerge dalle macerie, accompagnata dall’intreccio delle voci spettrali di Bargeld e Anita Lane, a rendere il tutto ancora più inquietante. A chiudere il cerchio giunge la lunga suite Headcleaner, convenzionalmente divisa in due parti nella versione CD (I. “Zentrifuge” / “Stabs” / “Rotlichtachse” / “Propaganda” / “Aufmarsch”, II. “Einhorn”, III. “Marschlied” nella prima metà, III. “Das Gleissen / Schlacht” e IV. “Lyrischer Rückzug” nella seconda), nella quale Bargeld è istrione e direttore d’orchestra (Silence!, e poi Music! grida dentro il testo, assecondato dalla band): Headcleaner è di fatto un frullatore impazzito dentro il quale la band butta di tutto, rumori post-industriali, frastuono da baccanale tardo-capitalista, martelli pneumatici, seghe ronzanti, un altro sabba inquietante e multiforme che riesce a distorcere persino i tratti del celebre all you need is love beatlesiano, pervertendo la melodia dentro un sardonico all you need is a headcleaner che fa da grottesco refrain per questa violentissima discesa negli inferi (one half of my dreams is shaved bald/ violence/ waiting/ the first battering on the door/ or/ the first one from official quarters/ with questions/ a matchstick caught in my throat/ no phrase/ through my throat/ which would not/ start a blaze/ don`t wait/ get a close shave escape/ those were the dreams./ A song, one, two, three:/ “All you need is HEADCLEANER!”).

Lungo Tabula Rasa, il terrorismo sonoro degli esordi degli Einstürzende Neubauten lascia spazio a qualcosa di diverso, a un lavoro da archeologi della bellezza, che scavano immagini e suoni dalle macerie di una società collassata: c’è una patina di antico, di classico e insieme un rovente senso di contemporaneità in queste sette tracce, nelle quali una band che da sempre ha destrutturato e sbriciolato ogni rimasuglio di musicalità usa proprio le sue stesse macerie per ricomporre una sinfonia. Tabula Rasa è così un disco per tempi complessi, non del tutto compresi (né forse comprensibili), un’epoca di confusione della cui violenza Bargeld e soci avevano già scorto, in tempo reale, i limiti estremi; e di tutto questo un racconto crudo, mai compiacente, un ascolto non facile ma necessario. Gli spettri del Muro che ha tenuto il mondo diviso a metà per quasi trent’anni si aggirano ancora lungo le strade, nei quartieri che affrontano la ricostruzione, permeando i luoghi e prima ancora le menti: dalle macerie tornerà a emergere il profilo della Città, Berlino, attraversata da tutte le sue inquietudini, le sue sottili (ma profondissime) domande. Non a caso è su un suono confortante, mattutino, sporcato soltanto dalla vocalità aliena di Bargeld (l’elemento che porta l’inquietudine nel brano) che si spenge Headcleaner, e con essa l’intero lavoro. Resta appunto una tabula rasa, un enorme spazio affidato all’immaginazione, un territorio bianco, vergine e inesplorato, pieno di domande, attraversato da tensioni, dubbi e nel quale pochi (e difficili) sono gli appigli: We, however, who now know the danger and/ who are aware of it, even we cannot yet make up our minds…, canta Bargeld ovvero, nell’originale tedesco, wir aber, die jetzt die gefahr kennen, und solcher gegenwaertig sind, koennen uns auch jetzt nicht entschliessen… Come scriveva Hölderlin però e come dovremmo sempre ricordare, “laddove aumenta il pericolo/ cresce anche ciò che salva”.

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