Gli amori di Astrea e Céladon (E.Rohmer)

 

AstreaIspirandosi all’Astrée di Honoré d’Urfé, uno dei capisaldi del romanzo moderno europeo (opera fiume di circa cinquemila pagine, edita tra il 1607 ed il 1625, riuscita sintesi dei generi avventuroso e storico col registro pastorale, impreziosito di elementi galanti, magici, mitici), Rohmer ci regala questo film, lento, poetico, affascinante.

La vicenda narrata, come nel testo di d’Urfé, è quella del pastore Céladon e della pastorella Astrea, innamorati ma separati dalla gelosia prima e dal senso del dovere verso l’amata dello stesso Céladon dopo. Le famiglie dei due giovani, in antipatia tra loro, ostacolano questa storia d’amore; è così che Céladon, sotto consiglio della stessa Astrea, finge d’amare la bellissima pastorella Amynthe, al fine di non agitare le acque. Tutto prosegue bene fintantoché Astrea non si lascia convincere, da un infido pastore, che ben più che un finto amore leghi i due. Ella, sconvolta da ciò che crede di aver visto, ingiunge al derelitto Céladon di non farsi mai più vedere da lei, fino a nuovo ordine. Così il giovane, disperato, si abbandona tra le braccia del fiume, cercando la morte ma, condotto a riva molto lontano dal suo villaggio, laddove “il fiume descrive una curva”, viene raccolto da tre ninfe, tre principesse druide (Galatea, Sylvie, Leonide): in particolar modo la prima tra queste, Galatea, si invaghisce del giovane, convinta che una profezia (preconizzante il ritrovamento di un grande tesoro sull’ansa del fiume) l’abbia condotto fino da lei, e ch’egli sia in realtà quel tesoro. Ben presto Céladon scopre di non poter tornare al suo villaggio, e d’essere ormai per sempre separato dall’amata Astrea; con l’aiuto di Leonide, però, il giovane riesce a fuggire dalle anguste mura del castello, divenuto una terribile prigione, per rifugiarsi nel bosco, non volendo infrangere l’ordine dell’amata, che gli aveva intimato di non farsi mai più vedere da lei finché ella non avesse voluto il contrario. Divenuto amico di Leonide e di suo zio, Adamas, Céladon trascorre le sue giornate nel bosco, cantando e scrivendo versi per l’amata ed edificando un tempio in onore di Amore, dea che viene dipinta sulle sembianze di Astrea, sfruttando un piccolo ritratto che il giovane portava con sé legato al collo. L’occasione, per Céladon ed Astrea, di rivedersi, è quella di una festa per la quale i pastorelli si muovono verso il castello: dapprima i due amanti si incontrano nel bosco, mentr’ella dorme e Céladon, che non riesce a smettere di ammirarne la bellezza, riesce a fuggire un attimo prima che l’amata si svegli; poi, travestito per interpretare il ruolo della figlia malata di Adamas, Alexis (cui lo lega una straordinaria somiglianza) riesce ad incontrare e divenire amica di Astrea, scoprendo quanto ella, se potesse, rivorrebbe indietro il suo amato Céladon. A quel punto egli svela la propria vera identità, e l’amato e l’amante tornano ad essere una persona sola, per sempre uniti.

L’opera di Rohmer, dipinta con colori caldi ed evocativi, ripropone molti dei topos letterari del genere pastorale in una versione cinematografica sempre affascinante, in bilico tra grande poesia e improvvisi ritorni ad una realtà, per quanto lontana o avvolta dal mistero, sempre presente (basti pensare al cartello iniziale, che spiega come non sia stato possibile girare nei luoghi reali del romanzo, oggi devastati dall’urbanizzazione, come a dare un fondamento “fattuale” alla vicenda narrata). Inoltre la riflessione sul significato dell’amore, di cui l’opera si fa portatrice, ci mette a confronto con un romanticismo disperato, profondo, realmente sentito, molto spesso perduto dalla modernità. Il film, come il testo di d’Urfé, risulta molto letterario, ma ciò che colpisce, in particolar modo, è la celebrazione della bellezza (e della bellezza femminile, in particolare) operata dall’autore francese: le bellissime protagoniste del film sono inquadrate con inusitata dolcezza, da loro secerne potente una sensualità a volte scoperta, a volte appena celata, a volte del tutto latente, ma sempre ben presente, che le circonda di un’aura mitica e al contempo le rende vere, vive, pulsanti. Riproporre un mondo mitico rifacendosi chiaramente ad un’iconografia che riconosciamo essere di matrice greco- romana (penso in particolar modo alla scelta dei costumi) è certamente funzionale alla volontà di rappresentare una vicenda sempre in bilico tra magia e realtà, tra il fantastico e l’ordinario, riuscendo così a condurre lo spettatore in un mondo sospeso nel quale il tempo scorre più lentamente e la sensualità è cristallizzata in gesti carichi di emozione, perdutamente poetici eppure immediatamente riconoscibili come del tutto umani. Le stesse protagoniste, le pastorelle come le ninfe, sono avvolte da un mistero, da colori che le rendono creature sospese, difficilmente classificabili, a metà strada tra il divino e l’umano. La sensualità profonda sottesa al testo, che come detto è soprattutto un grande storia d’amore, emerge a tratti in momenti carichi di un’intensità davvero sconvolgente, quali il canto di Céladon (durante il quale egli “vede” l’amata, rammenta i momenti d’intimità trascorsi con lei) o il finale, laddove Astrea e Alexis/Céladon si toccano, si accarezzano, si baciano, amando l’uno l’altra, l’altra l’immagine dell’uno nell’altra. Nel groviglio di baci, nell’intreccio delle braccia e dei cuori dei giovani amanti par di scorgere un vero abbraccio di anime, una fusione perfetta, un amore profondo che si manifesta nel calore e nella sensualità, pura e mai banalizzata, mai volgare, di corpi meravigliosi, che sembrano ritagliati direttamente da una dimensione mitica, una dimensione dal sapore più che umano, eppure del tutto umana.

2 Risposte a “Gli amori di Astrea e Céladon (E.Rohmer)”

  1. pastorelli canterini nei boschi francesi? druidi, castelli, ninfe e capanne? mausolei in memoria dell’Amore Assoluto, travestimenti? Materiale che in mano ad altri registi avrebbe prodotto più di una ciofeca, Rohmer ci dona invece una piacevolissima commedia di una dolcezza e leggerezza incredibile. Sorprese continue, ritmo straordinario e inaspettato. Ormai come si faceva per Lubitsch bisognerebbe parlare di Rohmer’s touch e inchinarsi. Delizioso.

  2. Non ho avuto la forza di volontà di vederlo a Venezia, in cuor mio so che non lo vedrò mai.E’ che gli ultimi Rohmer e Rivette, per quanto poi li capisca e ne apprezzi pi’u aspetti, mi annoiano a morte. e quindi s enon è necessario da un punto di vista storico o non mi vengono assegnati dalla redazione, non li recupero per passare un pomeriggio/sera di svago. Lo so, non si può dire, ma è così.

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