Here Come the Supernatural Sauna-boys: Schvitz (Vulfpeck, 2023)

Il 2022 si è chiuso con la pubblicazione, avvenuta il 30 dicembre, del nuovo album di studio dei Vulfpeck, Schvitz, con lieve anticipo sul consueto percorso di disvelamento dei brani settimana per settimana fino a scoprire l’intera tracklist (la modalità promozionale che ha accompagnato tutte le ultime uscite della band, sottoposte a crowdfunding sulla piattaforma Qrates). Schvitz giunge a due anni di distanza dall’ultima fatica ufficialmente licenziata dalla combo guidata da Jack Stratton, quel The Joy of Music, The Job of Real Estate (per semplificare, d’ora in poi JoM/JoRE) che, a conti fatti, aveva fatto parlare di sé più per gli annessi e connessi (qualcuno ricorda il colpo di genio di bandire all’asta un posto nella tracklist, asta poi vinta dalla band emergente degli Earthquake Lights, il cui brano Off and Away chiudeva il disco?) che non per la qualità musicale, che aveva fortemente risentito delle limitazioni produttive generate dalla pandemia di Covid-19, impedendo alla band di trascorrere in studio tutto il tempo necessario alla stesura e al completamento dei nuovi brani. Di JoM/JoRE avevo parlato come di consueto molto dettagliatamente ai tempi dell’uscita, e ovviamente non intendo rimangiarmi quello che scrissi all’epoca, anche perché non si può non sottolineare come il disco contenesse alcuni passaggi di valore altissimo (penso soprattutto a instant classics come 3 on E, Radio Shack e LAX, oltre alla riproposizione di un amatissimo brano del vecchio repertorio, la prima stampa su album della meravigliosa rilettura di Santa Baby rigovernata dal talento sovrannaturale del buon Woody Goss), ma con Schvitz siamo di fronte a qualcosa di molto diverso, molto più compiuto. Innanzitutto Schvitz è stato evidentemente concepito e realizzato in un’unità temporale della quale JoM/JoRE non aveva potuto beneficiare. e questo si sente distintamente nella coesione sonora che traspare dai dieci brani della tracklist, un assortimento perfetto ed efficacissimo del miglior low-volume funk della combo americana; e il fatto che questi brani siano stati concepiti fin dall’inizio per stare insieme dentro un unico flusso sonoro permette alle qualità di tutti i musicisti di risaltare ulteriormente, sia dal punto di vista prettamente strumentale che, soprattutto, dal punto di vista compositivo. Gli anni di “stop forzato” legati alla pandemia non sono trascorsi invano, e il discorso musicale di Schvitz si giova senza dubbio dell’arricchimento portato dalle esperienze che, nel frattempo, hanno forgiato le carriere soliste dei membri della band: dentro ascoltiamo gli echi (e i frutti) del songwriting di Theo Katzman, che ha trovato il suo culmine (fino ad oggi) nello splendido Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe; si sente il riverbero del funk da camera sprigionato negli ultimi due album della serie Vulf Vault, ovvero Wong’s Cafe e soprattutto Here We Go Jack, opera caleidoscopica di quel Vulfmon che è un po’ alter ego del deus ex machina Stratton e un po’ folletto, dáimōn che si fa intermediario tra il funk e le masse attonite in attesa di conoscere il Verbo; e soprattutto si delinea un ruolo preponderante di Antwaun Stanley come vera voce leader della band, e anche questo è il culmine di un percorso che viene da lontano (in particolare dalle molteplici collaborazioni tra Stanley e i Vulfpeck, omaggiate non a caso nel primissimo album della serie Vulf Vault, uscito proprio nel 2020 funestato dal Covid) e che ha visto la maturazione dell’artista come voce solista di primissimo livello, percorso testimoniato ad esempio in un EP come Ascension, realizzato con Tyler Duncan (e del quale scrissi qui). E se questi sono stati i vertici delle avventure sonore in seno alla band, ovviamente gli altri non sono stati a guardare: né il Cory Wong solista, che ha dato alle stampe alcuni lavori di valore assoluto, confermandosi come uno dei migliori compositori attualmente in circolazione (cito soltanto The Striped Album e l’EP collaborativo Turbo realizzato con i Dirty Loops, ma come ben saprete se seguite assiduamente questo blog, Wong è uno prolifico e nella sua produzione i lavori veramente notevoli si susseguono senza sosta a ritmi vertiginosi); né Joe Dart, che ha lavorato con i The Olllam al travagliato (per le vicende distributive) LP Elllegy oltreché con la cantautrice irlandese Síohma, o Joey Dosik; né tantomeno il buon Woody Goss, impegnato in una serie di interessantissimi side projects tra i quali segnalo come particolarmente degno di nota il duo Woody & Jeremy (cito Gravy in My Coffee tanto per rinfrescarvi la memoria). Insomma, la band in questi tre anni è cresciuta, e Schvitz rappresenta appieno questa maturazione artistica: da un punto di vista estetico l’album prende ispirazione da una recente performance live dei nostri, caratterizzata da uno stringente dress code legato all’uso di accappatoi e buffi cappellini rossi (fa già ridere così, ma come sempre sul situazionismo di Stratton & Co. c’è poco da dire), e infatti sulla cover campeggia un ometto di bianco e rosso vestito; allo stesso tempo, per tener fede all’ispirazione, i brani sono stati tutti quanti accompagnati dai consueti video “live in studio” realizzati però all’interno di uno studio-sauna, con i musicisti (ovviamente in accappatoio) avvolti dal vapore e dal calore dell’acqua. Lo stesso lemma schvitz, d’altra parte, sembra riferirsi in yiddish al sudore o alla sauna (oppure si tratta di una semplice storpiatura gergale del verbo to sweat).

Date le premesse, l’album non poteva che aprirsi su un brano intitolato Sauna: composta a quattro mani da Stratton e Goss, Sauna è costruita su un delizioso giro armonico eseguito dal buon Woody al suo wurlitzer, sul quale si innestano i soliti bassi rotondi e funky di Joe Dart al Fender Precision Bass Junior. Joey Dosik accompagna il brano al pianoforte, insieme a uno straordinariamente compassato Cory Wong, col drumming deciso e quadrato di Stratton ad accompagnare gli intrecci vocali di Theo Katzman e Antwaun Stanley, impegnati a canticchiare un motivetto da doccia (con testo chiaramente non sense, anzi: direttamente senza testo alcuno). World’s first sauna where the water is heated with groove, è stato definito il brano dai soliti beninformati nella sezione commenti di YouTube: e come trovare una definizione migliore? Earworm, composta da Stratton, presenta anche il primo featuring tra Vulfmon e i Vulfpeck (I can’t believe Vulfmon is finally collaborating with Vulfpeck. It’s like a match made in heaven!), e porta dentro l’album un po’ del mood stralunato di Here We Go Jack misto alle atmosfere morbide e mattutine di un classico come Birds of a Feather, We Rock Together: Vulfmon ci mette la voce, come uno sgangherato crooner che canta di motivetti che rimangono stampati in testa (un po’ come quello canticchiato da Stanley e Katzman nel brano precedente) con un testo ovviamente surreale e placidamente divertito (I only know a couple of tunes/ Don’t take requests, no “Fly Me to the Moon”/ It’s gotta be simple, got no time for rehearsal/ How ‘bout that jingle from that jewelry commercial? Yeah!). Earworm, un po’ ballad e un po’ filastrocca, si spenge delicatamente dentro il groove irresistibile di New Guru: Antwaun Stanley molla gli ormeggi e governa la barca dentro un’autentica tempesta funk, con tanto di esilarante richiesta di cambio di tonalità nel bel mezzo del pezzo, rispedita al mittente nel giro seguente (Nothing more respectful than Antwaun asking for the key change and immediately bringing it back. Pure class all the way). New Guru, composta da Stratton insieme a Jacob Jeffries, mette in mostra anche uno splendido solo di Dosik al sax e un rapido (ma come sempre più che incisivo) fraseggio solista di Dart. La breve All That’s Left Of Me Is You, composta da Theo Katzman, trasuda vibes beatlesiane ed è un po’ l’ideale seguito di brani come Lonely Town (anche se in versione decisamente rallentata): Katzman ci mette voce e wurlitzer, con Wong alla chitarra acustica e un fantastico cambio di tonalità non preannunciato (Very bold decision to key change without asking first, incredible, commenta qualcuno). Simple Step è un altro episodio irresistibile, caratterizzato da un suono letteralmente irreale delle tastiere di Stratton e Goss, e con un Dosik ancora in grande spolvero al sax: composta da Stanley, Stratton, Katzman e Dosik e precedentemente incisa sotto il moniker di Groove Spoon, Simple Step si giova qui di un lavoro ritmico memorabile di Dart e dello strumming camaleontico della chitarra ritmica di Wong, come sempre in moto inesauribile. A fare il resto ci pensa la vocalità mostruosa di Stanley, uno che ha pochi eguali in giro (The vocal pan at 2:17 sent chills down my spine, turned the water on my desk into wine, and then set my speakers on fire).

La seconda parte di Schvitz si apre con una decisa virata verso il folk acustico. In Heavan è una ballad per sole chitarre acustiche (tutti ne suonano una, tranne il buon Joe: They actually tried to get Joe Dart to play an acoustic guitar with everybody else but couldn’t figure out how to remove the bass from his hands without killing him in the process, si azzarda a suggerire qualcuno) cantata con tonnellate di soul dal solito Antwaun Stanley e composta da Joey Dosik: scarsi quattro minuti di beatitudine, col low-volume funk della casa che incontra il folk più delicato. Guest star del video, il cane Rivers che dorme ai piedi dei musicisti. Serve Somebody è la cover funk di Bob Dylan della quale non sapevate ancora di avere bisogno: l’originale Gotta Serve Somebody diventa un R’n’B grondante groove, quasi in zona Motown, col wurlitzer di Woody Goss a tratteggiare melodie, il Fender Precision Bass Junior del solito Dart in piena evidenza (Full scale basses are too big, everybody knows it) a duettare con la batteria quadrata e implacabile di Katzman e Wong che può tornare a imbracciare la sua Stratocaster signature. Anche qui Antwaun Stanley regala una performance quasi irreale, ma la cosa pazzesca è che un brano proveniente da un repertorio lontano anni luce da quello di Stratton & Co. possa suonare così perfettamente nello stile della band: i Vulfpeck non si limitano a riproporre un pezzo ma lo fanno proprio, plasmandolo per lasciar emergere se stessi, e questo accade solo con i migliori musicisti e fa di Serve Somebody qualcosa di più di una cover, quasi la riproposizione di un brano inteso come uno standard, e trattato come tale. C’è spazio poi per una piccola extravaganza, incarnata perfettamente dal groove delirante di Romanian Drink Song (manco a dirlo composta dal solito Stratton): uno strumentale con la chitarra acustica di Cory Wong che inventa l’extra low-volume funk, e che è l’occasione ideale per uno showcase folleggiante di Katzman alla batteria e al kazoo (one of the great kazooing drummers of our generation), suonato all’unisono con la solita, fulminante linea di basso di Joe Dart. In particolare, il lick che si ascolta attorno ai 2:45 è talmente assurdo da aver spinto la band a ironizzare sui consueti post “for your consideration” che infestano le bacheche social nel periodo delle nomination ai Grammy condividendo il brano sui propri canali con l’eloquente sottotitolo di “For your consideration: best kazoo-bass fill in contemporary song”. Il vero colpo al cuore arriva però col penultimo brano in scaletta, che è una rilettura di What Did You Mean by Love?, piccolo gioiello di Theo Katzman incluso nel suo ultimo, bellissimo lavoro solita, Modern Johnny Sings: Songs In The Age of Vibe: i quattro minuti e mezzo di questo brano sono il trionfo definitivo del low-volume sound. Antwaun Stanley sussurra il cantato su una base cangiante e liquida di tastiere, basso e chitarra effettata giocando sul volume, suonata dallo stesso Katzman: l’ingresso del drumming tagliato di Stratton e dell’hammond, suonato da Joey Dosik, accompagna il brano verso lo splendido bridge. In qualche maniera, la band prende una canzone che è già da sé un capolavoro e la trasforma in una confessione sussurrata, cantata con un filo di voce da un interprete straordinario: la chitarra di Katzman cammina sempre sul filo del silenzio, come se stesse per essere inghiottita dentro i livelli della sezione ritmica (quante cose si possono ottenere con un uso sapiente del pedale volume), e si produce in una parte solista di brillante intensità. Il risultato è un episodio sospeso, affascinante, denso di significati, che riesce a rivaleggiare con l’intensità dell’originale. A chiudere il disco arriva l’episodio acustico/corale di Miracle, composizione di Stratton e Jeffries che è in realtà un po’ una meta-canzone (vedere il video per capire meglio): nel bridge, l’ambientazione del video si sposta infatti sul ponte di una navicella spaziale, che ospita proprio il gran manovratore Stratton (d’altronde chi meglio di lui potrebbe interpretare un alieno?), mentre il testo della canzone affronta di petto uno dei grandi temi della contemporaneità, ovvero i Pokémon (Thank you for addressing the hard questions. Too few artists have the courage to address Pokémon conflicts head-on. Vulf leading the charge as always.); passato il bridge, il brano riparte leggermente accelerato ma sempre benedetto dal magico intreccio vocale tra Katzman, Stanley, Jeffries e Dosik, con quest’ultimo sugli scudi anche al sax. In un certo senso, a Miracle i limiti della canzone canonica stanno un po’ stretti: come fa notare qualcuno nei commenti di YouTube (Glad to see the second entry into the “Vulfpeck pushing the envelope with track 10” series), l’esperimento Miracle ha qualcosa in comune con Off and Away posta in chiusura Jom/JoRE, se non altro nella voglia di sfuggire le catalogazioni e fare qualcosa di realmente stravagante, che lì era mettere all’asta un posto nella tracklist, mentre qui comporre una canzone che è allo stesso tempo una tavolozza espansa e un’esperienza sensoriale degna di un’abduzione aliena. C’è poi sempre la questione delle tematiche scottanti: Vulfpeck singing a verse about Charmander being nasty to Pikachu is something I didn’t know I needed. A chiudere definitivamente Schvitz, Miracle muta i propri accordi dentro una reprise del classico intro dei brani di Vulf Records, realizzata con la consueta leggiadria da Goss al Wurlitzer.

Come detto in apertura, dentro Schvitz si respira una coesione estetica e musicale che, per cause di forza maggiore, era mancata in JoM/JoRE: Schvitz è pertanto una piccola gemma che fotografa lo stato di grazia di una band che si reinventa ad ogni nuovo album, facendo tesoro delle esperienze portate avanti da suoi singoli componenti al di fuori della casa-madre. Dentro queste dieci tracce troviamo il solito, potentissimo low-volume funk che da sempre caratterizza gli album della combo guidata da Jack Stratton/Vulfmon, miscelato con un’inattesa vena acustica (sicuramente influenzata anche dalle recenti incursioni nel folk di Cory Wong, e soprattutto dalla ben nota passione di Theo Katzman per il rock-pop di artisti quali i Fleetwood Mac), uno spericolato desiderio di sperimentazione (la versione “atmosferica” di What Did You Mean by Love?, ma anche lo stravagante esperimento di Miracle o il bizzarro duetto basso-kazoo di Romanian Drinking Song), le armonizzazioni eleganti e raffinate delle tastiere di Woody Goss e tonnellate di soul e R’n’B, cui contribuisce soprattutto la vocalità inarrivabile di Antwaun Stanley; il tutto confezionato col solito gusto surreale e un po’ situazionista per il lo-fi, il do it yourself, l’ironia obliqua e citazionista (penso al testo di Miracle che parla dei Pokémon, o ancora al testo di Earworm) e un certo minimalismo sgranato, insieme buffo e bizzarro, un po’ quella vena stralunata che rendeva speciale il bellissimo Here We Go Jack licenziato da Vulfmon/Stratton giusto qualche mese fa. C’è anche da dire che non tutte le band possono vantare una line-up composta da strumentisti del valore di quelli che ascoltiamo su Schvitz: mettendo da parte il solito, monumentale Joe Dart, che coi suoi bassi FA letteralmente i pezzi (che stia suonando il suo modello signature jazz di Music Man, o il piccolo Fender Precision Bass Junior), decidendo con il suo groove innato (e con i movimenti del suo collo, chiaramente), dove il pezzo debba andare a parare, qui ci sono un chitarrista/compositore di livello assoluto (Wong), un cantautore che sa dividersi in maniera elegante e personale tra chitarra e batteria (e kazoo, apparentemente: mi riferisco come ovvio a Katzman), un tastierista di classe infinita (Goss), un polistrumentista che è soprattutto un folletto un po’ guascone ma sempre pieno di idee bizzarre e stimolanti (sì, parlo ancora di Stratton) e musicisti che, se dapprima erano side-men di lusso, adesso si sono ritagliati uno spazio personale e sono entrati a far parte della band in pianta stabile, ovvero Joey Dosik e Antwaun Stanley. Pare proprio che i Vulfpeck del futuro saranno una band di sette elementi, con in più il jolly di Jacob Jeffries da calare qua e là, soprattutto per l’apporto compositivo: una band di sette elementi che suona un low-volume funk da paura, con un groove e un feel d’altri tempi. Poi magari mi sbaglio, e dal prossimo disco torniamo ai santi vecchi (ovvero la vecchia formazione a quattro, che comunque buttali via), però voglio sbilanciarmi: è solo gennaio, ma Schvitz è uno di quei dischi destinati senza dubbio a finire nella classifica delle vette più alte di questo 2023. La parziale bella notizia, per concludere, è che se fino a qualche tempo fa queste erano quasi le uniche pagine in italiano sulle quali potevate trovare approfondimenti/info/recensioni sull’universo Vulfpeck e sulle produzioni dei suoi protagonisti, adesso anche dalle nostre parti la stampa musicale sembra infine essersi accorta della musica di Stratton e soci: parziale buona notizia perché purtroppo pare lo abbiano fatto soltanto per criticarne l’aspetto volutamente “giocoso” e “disimpegnato”, fraintendendolo abbastanza miseramente. Su un noto portale specializzato del bel paese potrete quindi leggere una lungimirante e molto ben scritta recensione di Schvitz (sono ovviamente sarcastico), che si apre e si conclude associando la parola “irrilevanza” al lavoro della band (ma che tutto sommato regala al disco un lusinghiero 7/10: si accettano scommesse sul perché). Come al solito, vi ricordo di stare alla larga da questa musica se cercate l’indie-pop che piace in giro, quello dei numerosi Soloni e loro cloni che infestano la “scena” nazionale sia nel mainstream che nei locali più piccolini, tutti intenti a guardarsi sempre più in profondità dentro l’ombelico e a litigarsi le briciole del Nulla alla grande periferia dell’Impero; partecipate e godete di questo disco con gioia, invece, se pensate che la Musica sia qualcosa di più che un taglio di capelli e il darsi arie da “artisti”. Sicuramente riparlerò di questo album, qui o altrove, ma intanto io vi invito ad ascoltarlo e farvi una vostra idea, e ovviamente che il groove sia con voi.

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