Home is where you’ve called my name: A Beginner’s Mind (Sufjan Stevens & Angelo De Augustine, 2021)

A volte si verificano, in tutti gli ambiti, delle consonanze inattese: accade, ad esempio, quando i talenti di due musicisti allo stesso tempo simili e diversi tra loro risuonano magicamente all’unisono, producendo melodie inattese. È soprattutto il nome di Sufjan Stevens a catalizzare la curiosità per questo A Beginner’s Mind (pubblicato da Asthmatic Kitty, etichetta del buon Sufjan, lo scorso 24 settembre), un nome ormai universalmente noto e garanzia di un cantautorato e di una scrittura di qualità cristalline, con un occhio sempre volto al disfacimento dell’essere umano in questo mondo disgraziato (d’altra parte, la grande domanda cui da sempre la musica di Stevens cerca di trovare risposta suona proprio come “Cosa significa essere umani in un mondo devastato?”); ma qui c’è qualcosa di diverso, di più, perché A Beginner’s Mind è un album scritto a quattro mani da Stevens insieme ad Angelo De Augustine, musicista americano decisamente meno noto ma i cui orizzonti musicali (sospesi tra Nick Drake, il surf-pop dei Beach Boys e tanto, tanto Elliott Smith) si sposano magnificamente al magico e lievissimo folk prodotto dalla sei corde di Sufjan (pure con tutte le sue derivazioni elettronico/alternative/sperimentali). Stevens e De Augustine, amici di vecchia data, hanno approfittato di un periodo trascorso in casa di Bryce Dessner (sì, proprio uno dei Dessner dei The National), nelle Catskill Mountains per guardarsi ogni sera un film di genere diverso e trarne ispirazione, al mattino seguente, per stendere le tracce che avrebbero fatto parte di A Beginner’s Mind: un mese di lavoro in totale isolamento, che ha prodotto un album di meraviglioso, elegantissimo alt-folk, un’opera lo-fi semplice quanto ricca di riferimenti, idee e derivazioni, e soprattutto piena di momenti di bellezza assoluta, totalizzante. Non deve essere risultato troppo complesso per Stevens frequentare un mondo di ispirazioni e panorami cinematografici (non dimentichiamo gli splendidi brani prestati dal nostro alla colonna sonora di Call Me By Your Name, ovvero Mystery of Love, Visions of Gideon e una versione remix di Futile Devices), che peraltro si sposa a meraviglia con le tendenze simonegarfunkeliane del folk predicato sia da lui che da De Augustine, declinate però attraverso un approccio più mesto di chiara marca Elliott Smith: ma i nostri non si sono fermati qui, ben consapevoli di come “non si faccia musica solo con la musica”. A Beginner’s Mind, fin dal titolo, diventa anche un calderone di ispirazioni che al cinema (anche quello di genere, e a volte di serie B) mescola filosofia zen, buddismo, i-ching e disilluse riflessioni che investono (politicamente) il destino di una nazione, gli Stati Uniti d’America, alla quale già da tempo Stevens ha pronosticato una deriva verso il collasso umano e sociale (basta riascoltarsi, tutto d’un fiato, l’ultimo, splendido The Ascension). Così rimbomba ancora quella domanda: cosa significa essere umani in un mondo devastato, che vede spegnersi ogni giorno di più l’ultimo barlume di lucidità? Se è vero come è vero che “laddove aumenta il pericolo, cresce anche ciò che salva” (così titolavo, lo scorso anno più o meno di questi tempi, la mia recensione di The Ascension), come si può mantenere una coscienza critica del mondo che ci circonda, esercitando il nostro umano diritto/dovere di scegliere a cosa pensare, e come pensarlo?
È questo il nocciolo tematico affrontato dalle 14 tracce che compongono l’album, che non a caso si apre con un pezzo ispirato a quello che, nel lotto, è probabilmente il riferimento cinematografico più votato alla riflessione esistenziale, ovvero
Il Cielo Sopra Berlino: Reach Out è un alt-folk lieve, fatto di intrecci di voci e arpeggi di chitarra, che parte dal racconto degli angeli protagonisti del film di Wenders per intessere un’ispirata riflessione sulla mortalità, e sull’importanza dell’incontro con l’Altro (Home is where you’ve called my name, cantano i due, e soprattutto, nel finale, I have a memory of a time and place where history resigned/ Now in my reverie/ For the guiding light that opened up my mind). Più dichiaratamente smithiano è invece il folk di Lady Macbeath in Chains, ispirata dal film Eva contro Eva (All About Eve): voci e chitarre, sempre lievi, vengono rimescolate da un bel giro di basso sostanzioso nel pre-chorus che introduce ai ritornelli, e il pezzo si chiude in una brevissima coda strumentale colorata da percussioni elettroniche. È invece un fantastico groove alt-pop a base di chitarra elettrica riverberata ad introdurre Back to Oz, traccia ispirata da Ritorno a Oz, sequel del celebre Il Mago di Oz (The Wizard of Oz), e che Stevens usa come metafora per il trapasso dall’infanzia all’età adulta (All my life was calling/ All my dreams were buried away/ You love me, but you don’t know me/ In due time you’ll throw it away), con un ritornello indimenticabile che apre in maniera deliziosa e un solo acido della chitarra a tagliare a metà la coda finale del brano: nelle parole di Stevens, “Well, Return to Oz is a sequel to The Wizard of Oz, and there’s little or no resemblance to the original, so aesthetically that’s problematic. None of the characters resemble the former characters—they don’t even try. And then the first scene is the uncle taking Dorothy to a psychiatric hospital where she’s given electric shock treatment, which then precipitates all this calamity, and there’s a storm. Lightning strikes the hospital or something. Then through a moment of trauma, she’s transposed to this new fantasy world, and the Oz that we formerly knew as something that was full of Broadway songs and bright colors and friends and comrades is now replaced by violence. As soon as Dorothy steps into Oz, there’s just immediate antagonism. In every scene and every sequence, she’s met with violence. She’s risking her life. There’s just a whole cast of very problematic and strange and kind of nightmarish characters, and it’s all very life-threatening. It’s strange that it’s a Disney movie. My takeaway from that film is that it’s really about child abuse.” La splendida litania di The Pillar Of Souls apre invece il carosello di brani ispirati da film horror e affini, una tematica che sicuramente incuriosisce se associata a Stevens, e per tuttavia sono numerose le incursioni che il duo sceglie di compiere in questi temi all’interno della tracklist: fedeli all’idea di mantenere una beginner’s mind, una mente aperta alla meraviglia e priva di preconcetti, Stevens e De Augustine affrontano come punto di partenza delle proprie riflessioni anche opere disturbanti e/o difficili. È proprio questo il caso di The Pillar Of Souls, ispirata al controverso film Hellraiser III: Hell on Earth (1992), con Stevens e De Augustine che sposano il punto di vista dell’antagonista, Pinhead, nella sua fuga dal limbo: il brano è lento, enigmatico e sognante, e il racconto procede per oscure associazioni. You Give Death a Bad Name è invece ispirata a Night of the Living Dead: i primi versi citano un brano quasi omonimo di Bon Jovi, You Give Love a Bad Name, stravolgendone il senso (da “Shot through the heart and you’re to blame/ Darling, you give love a bad name” a “Shot to the skull or a strike to the brain/ As you withdraw, you give death a bad name”, abbastanza perché il senso della canzone passi dall’essere la storia di un rubacuori a quella di un killer a sangue freddo). Questi richiami ironici costellano l’intero brano (si pensi al verso Shot to the skull or a strike to the brain/ The cadaver on the cross, you give love a bad name), e la parte finale è puro Sufjan Stevens, ancora vicino alle intuizioni e alle atmosfere dello splendido The Ascension. La quasi-titletrack Beginner’s Mind è ispirata a Point Break e ai personaggi di Bodhi (Patrick Swayze) e Johnny Utah (Keanu Reeves): adagiato su un pianoforte lunare e romantico, il testo cita diverse sequenze del film (tra cui, a più riprese, il celebre finale e l’ultima onda di Bodhi), inanellando una serie di illuminazioni sotto forma di squarci di profonda bellezza, e come già accennato pesca a piene mani da concetti e riflessioni strettamente legate alla filosofia buddista. Fin dal titolo, riferito al concetto buddista di Shoshin, la pratica di rifuggire il cinismo e la ripetitività che appiattisce l’esperienza ricercando sempre un effetto “prima volta” al momento di posare il proprio sguardo sul mondo circostante, al fine di rinnovare sempre la sua apparenza in ogni occasione in cui lo si guardi, Beginners’ Mind è una dolorosa elegia sul rifiuto di cadere nel preconcetto e nell’autoreferenzialità, o in altre parole l’affermazione della volontà di mantenere il cuore e la mente aperti alle nuove esperienze. Il piano, in odore di dream-pop, accompagna delicatamente l’ultima onda surfata da Bodhi (Now we’re drowning in the moonlight) e il brano si gonfia proprio come l’oceano e sembra inghiottire sia Bodhi che l’ascoltatore, mentre cala la notte, profonda e chiara, sulle acque. Olympus prende ispirazione da Clash of the Titans (1981) e racconta la vicenda di Perseo facendo numerosi riferimenti alla figura di Roy Harryhausen, artista e responsabile degli effetti visivi di molti film tra i quali appunto quello in oggetto: Olympus è una delicata ballad surf-folk, con qualche tentazione psichedelica nei ritornelli, lungo i quali si ripete il verso There’s no place like home, ulteriore riferimento a Il Mago di Oz che porta il brano a riallacciarsi idealmente a quanto cantato in Back To Oz. Murder And Crime, legata alla visione di Mad Max, è un brano che Elliott Smith avrebbe potuto scrivere di suo pugno e inserire in un disco come Either/Or, e non ci avreste trovato assolutamente nulla di male: ballad per voce malinconica e chitarre sognanti, il brano riprende proprio lo stile di Smith, e racconta ancora di una riflessione sulla filosofia Zen e il buddismo, tornando a fare numerosi richiami al concetto di Beginner’s Mind di cui si parlava poc’anzi. “Nella mente del principiante vi sono molte possibilità, nella mente dell’esperto soltanto alcune”, diceva Shunryū Suzuki: Where does everything go when everything’s gone?/ For my heart cannot break much more, rispondono idealmente Stevens e De Augustine. (This is) The Thing parte dalla visione de La Cosa di John Carpenter ed è un tuffo dentro un universo musicale tipicamente à la Stevens, un brano che potrebbe essere uscito da The Ascension (tanto per fare sempre il nome dello stesso album del cantautore di Detroit): una ballata per piano e voce sognante che contiene alcuni dei versi più belli dell’intero lavoro (This is the thing about evil/ You never really know where it’s hiding/ Find your phantom in the cathedral/ The more you search for it, the less you’ll find/ My love is a witness for the loss of your innocence). Anche It’s Your Own Body and Mind è una ballatona, ispirata stavolta al film di em>Spike Lee She’s Gotta Have It del 1986: un piccolo gioiello dream-folk fatto di chitarre ovattate e voci filtrate che parla del diritto a riappropriarsi di se stessi, seguendo in questo un po’ il trend col quale Stevens sposa tipicamente alle tematiche esistenziali dei suoi brani una dimensione sempre più sociale, collettiva, politica. Lost in the World, basato su The Last Wave di Peter Weir, è un altro brano che sembra molto debitore di Elliott Smith ma che a questo consueto riferimento sposa anche un sound incline al misticismo e allo psych-folk, fatto di piccoli arpeggi stordenti e intrecci di voci che avvampano attorno all’esile struttura armonica. La splendida Fictional California (ispirata a Bring It On Again, film del 2004 che Stevens considera tra i suoi dieci film preferiti: And so I saw this movie last week and I was like – that’s really awesome that there’s this like idea of a cheerleading squad at every corner of every game. It doesn’t matter if its table tennis or croquette – and we need that, you know – at our jobs, at our cubicles. We need the deadbeat cheerleading squad to just pop out of nowhere and be like: “look alive”) racconta invece dell’avanzare dell’età, e della giovinezza: un altro piccolo gioiello folk-pop fatto di bassi rotondi e delicati rintocchi del pianoforte. Il folk lieve di Cimmerian Shade è una delle vette dell’intero lavoro (anche se è francamente difficile scegliere tra questi brani): l’idea è quella di una lettera che Buffalo Bill, il killer de Il Silenzio degli Innocenti, scrive al regista del film, il compianto Jonathan Demme, scivolando dentro una riflessione sul rapporto tra l’opera e il suo creatore (The song is essentially a dialogue between creation and creator that seeks to find understanding to some of the same questions that we ask ourselves about existence, free will, fate, purpose, guidance and if anyone or anything out there is listening or cares: sembra di trovarsi davanti a una versione musicale del meraviglioso The House That Jack Built di Von Trier). Chiaro il riferimento all’immagine di Buffalo Bill portata sullo schermo da Demme e aspramente criticata per aver fornito un ritratto negativo e pericoloso delle persone transgender (polemica che ha seguito Demme per un lungo periodo): Buffalo Bill chiede esplicitamente al regista, nel ritornello, di riparare a questo torto, dandogli una “forma” migliore, più rispettosa della sua reale complessità umana (Fix it all, Jonathan Demme/ Beauty resides where your spirit dwells). Interessante, nel testo, l’uso del termine autogynephilia: con esso ci si riferisce a quella vulgata scientifica che derubrica l’essere transgender a un feticismo, deprivandolo di un’identità di genere. Il termine risuona come un’ennesima accusa a Demme, colpevole di aver esemplificato un po’ troppo la questione di Buffalo Bill, restituendo un ritratto monodimensionale del suo assassino. I falsetti perfetti dei due artisti e le corde pizzicate delicatamente sulla chitarra accompagnano questo racconto così contemporaneo, con un pianoforte malinconico che rompe a metà la lettera, scandendo l’ultimo verso e la ripresa finale del ritornello, e la coda finale del brano che viene squassata da un synth e da un dedalo di voci angoscianti che ripetono i versi I just want you to love me/ (I just wanted to love myself), in un turbinio di piccole imperfezioni elettroniche. Cimmerian Shade, col suo testo che frulla identità di genere, mitologia americana e citazioni zen, rappresenta un ottimo riassunto del disfacimento culturale cui, nelle parole di Stevens, l’America sembra ormai condannata, incapace di cambiare, migliorare, crescere. Chiude il lavoro la breve Lacrimae (ispirata al cortometraggio del 1962 Lacrimae Rerum, diretto dal regista greco Nikos Nikolaidis e a sua volta legato a una poesia del poeta greco Lambros Porfyras) che racchiude in un delicato idillio un sentimento di profonda contemplazione della natura, misto a un anelito senza nome (I saw your eyes burn in the moonlight/ All I ask is a chance in this lifetime): Lacrimae è eterea e inquieta al tempo stesso, una visionaria digressione pienamente cinematica che sembra rendere tangibile il panorama che racconta.
A Beginners’ Mind è una strana bestia, se mi passate l’espressione: assomiglia molto alla sua copertina, disegnata dall’artista ghanese Daniel Anum Jasper, che raffigura una medusa alata per metà immersa tra le onde, sovrastata da un arcobaleno e con una farfalla posata sulla lingua; un’illustrazione che è una composizione di elementi provenienti dall’immaginario cinematografico che ha dato origine al disco (l’arcobaleno de Il Mago di Oz, l’ultima onda di Bodhi, il bozzolo di lepidottero di Buffalo Bill ormai divenuto farfalla, il mito di Perseo, le ali di Damiel e Cassiel), e che raffigura proprio quel gorgo nel quale l’album ti attrae irresistibilmente. A Beginners’ Mind è un disco slow in tutti i sensi, e lentamente deve essere consumato, assaporandone le miriadi di riferimenti, intuizioni, suggestioni: uno scrigno pieno di infinite meraviglie che lentamente ingoia l’ascoltatore coi suoi suoni delicati e ricercati, che oscillano tra l’elettronica lieve (specialmente nel finale di Lady Macbeath In Chains, o di Cimmerian Shade), l’alt-folk più o meno groovy (Back to Oz), un sacco di psych-folk (sparpagliato a piene mani lungo la tracklist), ballatone dream-pop (Beginner’s Mind, ma anche (This is) The Thing), il lirismo cantautorale e le dissonanze gotiche in odor di Cocteau Twins. Ma, soprattutto, A Beginner’s Mind è un disco realizzato con una sensibilità profondissima, che può esser fruito a molteplici livelli, dalla semplice citazione cinematografica alla riflessione mistica o filosofica, dal gusto per la profondità negli arrangiamenti, pur senza rinunciare al caratteristico (per Stevens e anche e soprattutto per De Augustine) spirito lo-fi, alla purezza cristallina di immagini e semplici suoni, fino ai testi, tutti meritevoli di essere letti e assaporati prendendosi il tempo necessario. Sufjan e Angelo riescono in una specie di miracolo musicale: fondersi e confondersi dentro un flusso sonoro sfaccettato e multicolore (pensate a quante volte, lungo i brani, le voci si mescolano fino a non poter essere distinte), lasciando spazio allo sgorgare della pura emozione. Alla fine A Beginner’s Mind non è un semplice titolo, ma una dichiarazione d’intenti: lasciar divagare liberamente il pensiero in un gioco di associazioni, spogliato di qualsiasi preconcetto, allo scopo di gettare qualche luce su come si possa restare (riscorprirsi, tornare) umani in un mondo iper-civilizzato e ipertrofico come quello nel quale, quotidianamente, viviamo. Mi fa tornare in mente una celebre dichiarazione di David Foster Wallace: “Really good fiction could have as dark a worldview as it wished, but it’d find a way both to depict this world and to illuminate the possibilities for being alive and human in it.” Come facciamo a restare umani dentro un mondo come questo? L’urgenza con la quale Stevens e De Augustine si pongono questa domanda è tale che appare banale sottolinearne l’importanza: ma quante volte evitiamo questa domanda, ci neghiamo a questo dubbio, e scegliamo di non risponderci? Non mi piace continuare nel gioco dei rimandi, ma ricordo che fu Michael Ende a dire che “siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci. Ecco, mi piace vedere questo album come l’auspicio di ricongiungerci con la nostra umanità, come un fattivo tentativo di (ri)trovare l’umanità anche in tempi in cui questa sembra essersi ormai irrimediabilmente smarrita.

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