Il caso, il jazz, un’appassionata ricerca musicale: Birth, Death and Birth (MAG Collective, 2022)

Lo scorso novembre mi trovavo a Milano, dopo un viaggio rocambolesco che meriterebbe un post a parte per essere raccontato in tutti i dettagli, impegnato insieme al compare Fabio Pocci in un piccolo giro dei locali musicali in zona Navigli, ufficialmente in cerca di date per il tour di accompagnamento a Me and My Army, album di Phomea (progetto musicale dello stesso Fabio) al quale anch’io ho avuto modo di contribuire suonando sul primo singolo estratto, Take Control (ne avevo già parlato, tra le altre cose, qui). Nella nostra ricognizione ci siamo imbattuti a un certo punto nel circolo culturale La Corte dei Miracoli, un piccolo spazio gestito dall’associazione culturale La Taiga che, con regolarità, si trasforma in un palco destinato principalmente alla musica jazz e al cantautorato. Siamo arrivati un po’ presto, abbiamo deciso di fare aperitivo e siamo rimasti a curiosare durante il sound check della band che si sarebbe esibita quella sera, i MAG Collective. A incuriosirci (oltre al classico feticismo da musicisti per chi suona, e per cosa suona, e per come lo suona eccetera) il fatto che, come ci aveva raccontato il responsabile del locale, col quale avevamo chiacchierato all’ingresso, la band provenisse dalle nostre parti, “dalla Toscana, forse proprio da Pistoia”: ci siamo in sostanza trovati a formare, per una strana coincidenza astrale, una piccola exclave toscana nel pieno centro di Milano. Tutto questo giro di parole per dire quello che dico spesso all’inizio di queste “recensioni”, e cioè che al MAG Collective mi sono avvicinato per puro caso: un caso stavolta davvero assolutamente fortuito. Come se non bastasse, la serendipità di questo evento sarebbe stata destinata ad amplificarsi poco dopo, una volta lasciato il locale per proseguire il giro con la mezza promessa (fatta più a se stessi che ad alta voce e poi regolarmente disattesa) di tornare a curiosare più avanti nella serata, quando d’improvviso mi sono accorto che il bassista di quella band, Marco Benedetti, lo conoscevo già, anche se era passata una vita (e forse di più). Sicuramente lui non avrà motivo di ricordarselo, ma circa un 17 anni fa condividevamo lo stesso insegnante di musica, il Maestro Daniele Nesi, in quel di Pistoia: di Marco (del quale non ricordavo nemmeno il nome ma che ho riconosciuto, dopo quella sensazione di déjà-vu avuta al locale, dalle foto scovate sull’account Instagram della band) avevo conservato il ricordo come di uno dei musicisti più promettenti che mi fosse capitato di conoscere ai tempi della mia prima formazione musicale, un bassista che già ai tempi era tremendamente bravo e che forse (se la memoria non mi inganna) stava preparando l’esame di ammissione al Conservatorio. Alla serata dal vivo alla Corte dei Miracoli non siamo più tornati, risucchiati da altro: però mi ero ripromesso di dare una possibilità all’album del collettivo, Birth, Death and Birth, pubblicato a fine Giugno del 2022 (il 27, in particolare) per le Edizioni Discografiche & Musicali Dodicilune; l’album è stato registrato in due sessioni, tra il 27 e il 29 Settembre del 2021 presso Entropya Recording Studio a Balanzano (Pg), e tra il 16 e il 18 Ottobre dello stesso anno al Jambona Lab di Livorno, dove sono stati eseguiti anche mix e mastering (tra il 19 e il 21 Novembre). Quanto alla band, il MAG Collective è un collettivo jazz originario del senese, capitanato dalla cantante e compositrice Giulia Galliani e composto da un numero variabile di strumentisti: nella serata della Corte dei Miracoli la band contava 5 effettivi ovvero, oltre alla Galliani, il già citato Marco Benedetti al basso e contrabbasso, Andrea Beninati alla batteria (ma anche al violoncello), Andrea Mucciarelli alla chitarra elettrica e Giovanni Benvenuti al sassofono; tutti musicisti molto attivi nel circuito jazz nazionale e alcuni anche coinvolti in progetti musicali di particolare rilevanza (penso in particolare alle varie incarnazioni del Nico Gori Swing Sextet). Per la realizzazione di Birth, Death and Birth a questo nocciolo del collettivo che ho potuto ascoltare brevemente live si sono uniti altri nomi, su tutti quelli di Alessandro Lanzoni al piano (altro ricordo di gioventù: ebbi l’occasione di ascoltare Lanzoni dal vivo parecchi anni fa al Serravalle Jazz, sarà stato il 2006 o il 2007, quando era ancora agli inizi della propria carriera, e conservo tuttora una copia del suo album I Should Care, realizzato insieme al grande Ares Tavolazzi, acquistato quella sera), oltre a Tommaso Rosati (in carica delle perturbazioni elettroniche che si ascoltano nei brani), Valentina Gasperetti (viola), Anete Ainsaar (violino) e Lorenzo Cavallini a comporre la sezione di archi, e infine l’organista Matteo Addabbo. Birth, Death and Birth segue di circa 4 anni il primo lavoro del collettivo, Song for Joni (maggio 2018, uscito sempre per Dodicilune), incursione nel canzoniere sterminato di Joni Mitchell e soprattutto nelle sue piccole derive jazz. Birth, Death and Birth è già stato presentato dalla band in diversi contesti molto particolari, a cominciare da un live nella splendida cornice dell’Abbazia di San Galgano fino al Teatro Romano di Fiesole (per l’Estate Fiesolana) e al Barga Jazz.

Note di colore e riepilogo della situazione a parte, comincio col dire che Birth, Death and Birth è un gran disco: un disco ambizioso, sperimentale, a tratti anche spregiudicato, che si pone l’obiettivo (non di poco conto) di raccontare il ciclo della vita attraverso appunto le immagini della nascita, della morte e della ri-nascita, mettendo in musica i temi della memoria, l’uscita da e il ritorno verso sé, la vita e la morte e tutti quei miti che, da sempre, accompagnano l’esistenza degli esseri umani. È un percorso denso, densissimo, compresso meravigliosamente dentro 11 movimenti che costituiscono altrettante stazioni di un flusso elegante, continuo, un autentico vortice che, dapprima sotterraneo, si allarga al punto di avvolgere totalmente chi ascolta: si tratta di un percorso circolare, un maelstrom che inghiotte l’ascoltatore e, al termine della riproduzione, lo riporta alla posizione di partenza, al principio di un nuovo viaggio.

L’apertura di Birth, Death and Birth è affidata alla bellissima The time we were together, introdotta dalla voce di Giulia Galliani (anche compositrice): il brano è una ballad che tiene insieme la levità preziosa del miglior pop (nella deliziosa linea vocale) e le atmosfere cangianti del miglior jazz, perfettamente incarnate dallo splendido fraseggio solista del sassofono che taglia in due il brano nella sua lunga, affascinante sezione strumentale. Il dialogo tra il sassofono e gli accordi del piano, che sono come delicate increspature sulla superficie dell’oceano, onde che montano da una distanza, assume toni quasi marsalisiani, col basso elettrico a incalzare le rullate della batteria. Per racchiudere The time we were together dentro a un giro di parole (chissà quanto efficace) si potrebbe dire che si tratti di jazz for the masses, una visione estremamente moderna della musica più bella del mondo. Quello che emerge immediatamente è il ruolo preminente (da vero e proprio strumento aggiunto) della vocalità di Giulia Galliani, che disegna melodie tanto belle ed eleganti quanto orecchiabili, senza sacrificare la piacevolezza a un’evidente, magistrale proprietà tecnica. La progressione armonica di Lucid (composta dal chitarrista Mucciarelli), vagamente discendente, mima efficacemente una caduta a spirale dentro un’atmosfera di sogno: e di fatto questo strumentale è un brano onirico, fatto di momenti diversi che si sommano senza escludersi, e che sembra accompagnare l’ascoltare lungo una lenta, profonda discesa. Sugli scudi la chitarra di Mucciarelli e il piano di Lanzoni, presi in un avvolgente dialogo sostenuto prima da un denso, trascinante ostinato del contrabbasso e, verso la fine, dagli svolazzi degli archi. Ad ogni caduta che si rispetti segue un atterraggio: qui esso è rappresentato dalla lunga partitura di How to Breathe Underwater. How to Breathe Underwater è una suite camaleontica che nei suoi tre movimenti (i primi due composti da Galliani, il terzo e conclusivo da Rosati) abbraccia tanto il jazz quanto il prog, la fusion e persino tentazioni elettroniche. Ad aprire il brano c’è un ostinato del sax che esegue un arpeggio al quale si accompagna presto la voce, il tutto adagiato su una struttura minimale, un blocco di accordi che si ripete accrescendosi pian piano fino a formare una specie di onda di marea sostenuta soprattutto dagli accordi del pianoforte e dalle cavate del contrabbasso. Quando la tensione torna a distendersi si fa spazio la chitarra con un assolo lungo e meditativo, caratterizzato da sonorità sognanti vicine al fraseggio di Pat Metheny (per fare un nome soltanto), appoggiato su un accompagnamento rigoroso di contrabbasso, pianoforte e batteria. Al termine dell’intervento solista di Mucciarelli fa ritorno la voce di Giulia Galliani, accompagnata nel secondo movimento della suite dal pizzicato degli archi e dai profondi rintocchhi del contrabbasso, con una piccola costellazione di suoni elettronici a vibrare liberamente attorno agli accordi del pianoforte. Ancora una volta a colpire è soprattutto la qualità cristallina della melodia vocale, e il suo modo di adagiarsi delicatamente su un tappeto sonoro tanto serrato quanto sparso, quasi minimale: è tutto strettissimo eppure c’è un ammontare pazzesco di spazio libero lungo questi quattro minuti, arricchiti dagli ulteriori interventi calibratissimi dei fiati e della batteria. How to Breathe Underwater si spenge infine in poco più di un minuto di singulti elettronici, una sequenza di accordi che sembrano frantumarsi contro le orecchie dell’ascoltatore e che occupano tutto il terzo movimento della suite. La seguente Tombeau for a Young Eagle è costruita attorno a una scansione ritmica in (quelli che mi sembrano) 6/4, con il sassofono che dipinge una frase melodica che si allunga progressivamente, composta da tre movimenti che in totale occupano due battute, creando un effetto di reiterazione ancora molto in odore di minimalismo. L’effetto è una sospensione straniante e ipnotica sulla quale cresce la parte vocale di Galliani, e con lo sciabordare della batteria che conduce naturalmente verso un ritorno a una scansione più consueta (direi 4/4) sulla quale Lanzoni suona un pregevole solo di pianoforte, lasciando poi spazio ancora al sassofono torrenziale e ispirato di Giovanni Benvenuti. Il brano si conclude con un unisono di archi dal tono profondamente elegiaco, in ideale consonanza col titolo. La seguente Marlh, composta da Galliani insieme a Benedetti, si nutre di sottili inquietudini elettroniche e fluisce come un magma oscuro e denso, quasi livido. La tensione del brano sembra rilasciarsi con l’ingresso dei fiati, ma Marlh resta un episodio compresso, lento e dall’incedere quasi minaccioso, che per certi versi rimanda alla mente le atmosfere di brani assai distanti quali Climbing Up the Walls (che tutti ricorderete dentro la tracklist di Ok Computer dei beneamati Radiohead), però riproposte nella chiave inconsueta di un jazz oscuro e notturno, alleggerito dal fraseggio del sassofono di Benvenuti. In Grace la voce di Giulia Galliani (anche compositrice del brano insieme a Mucciarelli) sembra quasi inseguire i fantasmi delle formwela di Esperanza Spalding, adagiata sul sottofondo di un jazz atmosferico disegnato dalla chitarra e impreziosito dagli unisoni ritmici tra contrabbasso e sassofono: il tessuto del brano viene giocosamente decostruito nella sua fase centrale, dedicata agli interventi solisti (particolarmente brillante quello della chitarra, che costruisce atmosfere molto differenti da quanto ascoltato, ad esempio, in Lucid o How to Breathe Underwater Pt. 1, cui fa seguito un’improvvisazione infuocata di Lanzoni al piano). Write Your Name in the Sand (composta da Matteo Addabbo) inizia come una ballad pianistica, con la voce doppiata da un sassofono sulfureo e accompagnata dalle tessiture degli archi, e diventa presto un crescendo infuocato dall’organo hammond dello stesso Addabbo, protagonista del primo, splendido fraseggio solista. Il brano sfodera quindi un forte afflato quasi cinematico prima di sfociare dentro una coda mutevole affidata a una specie di notturno pianistico che si incunea carsicamente dentro gli arpeggi dell’hammond. Happiness, altra composizione di Galliani, è un up-tempo che procede tra stravaganze sonore e coloriture elettroniche fino ad esplodere in una tempesta sonora incernierata su un crescendo magistralmente governato dalla tensione enorme creata dalla batteria. Tutto il brano è costruito sulla portentosa potenza del groove imbastito da Beninati, che si porta dietro tutti gli altri strumenti e in particolare (ovviamente) il basso di Benedetti. La conclusione del viaggio è affidata a Lullaby (composta da Lorenzo Cavallini), un adagio per archi che chiude serenamente il disco aprendo alla rinascita: un cerchio si chiude su se stesso e si riapre nuovamente, tutto muta e continua a cambiare, eternamente diverso ed eternamente uguale.

Come scrivevo poc’anzi, Birth, Death and Birth è un disco ambizioso: ma la sua ambizione, perfettamente espressa nella complessità della sua trama, è sostenuta magistralmente da una qualità esecutiva altissima, che fa del suo ascolto, prima di ogni altra cosa, un profondo piacere per le orecchie. La compiutezza e l’eleganza di queste 11 partiture testimonia una maturità musicale, dal punto di vista prettamente compositivo, non comune: dentro i brani di Birth, Death and Birth si trovano compresse atmosfere, mood, divagazioni che coprono un arco di generi e idee enorme, capace di abbracciare tanto il jazz quanto il prog, tanto la fusion quanto l’elettronica. A tenere tutto insieme, oltre al rigore e all’ordine di una sezione ritmica davvero di grande spessore (Benedetti e Beninati), spiccano le sonorità morbide e jazzy delle chitarre di Mucciarelli, l’espressività torrenziale del sassofono di Benvenuti e, soprattutto, la vocalità ricca, multiforme e potentissima di Giulia Galliani. Gli interventi di un fuoriclasse come Lanzoni al pianoforte non sono che la ciliegina sulla torta che completa un quadro già di assoluto valore: quello che fa la forza di Birth, Death and Birth è prima di tutto il gusto per la composizione, e la spregiudicatezza con la quale il MAG Collective si prende ben più di un rischio nel confezionare questi undici brani. Non è semplice sposare con questa esattezza l’evidente gusto per la melodia pop e il jazz più morbido ed elegante, il tutto intercalato tra lunghe e caleidoscopiche sezioni d’improvvisazione, allo stesso tempo lasciando convergere nella propria musica quelle molteplici ispirazioni e idee di cui parlavo poco sopra e mescolandole con sapienza ed efficacia. Molto spesso si abusa del termine “sperimentale” per descrivere un certo approccio alla scrittura e alla musica: questi giovani musicisti (miei coetanei, a occhio e croce, forse con qualche anno in meno sulle spalle; comunque giovani artisti, almeno per i canoni dell’universo musicale italiano, e anche questo è qualcosa che mi lascia ben sperare in un panorama artistico come quello del nostro paese, sempre più avaro di autentiche sorprese e di proposte indipendenti di valore) restituiscono allo sperimentalismo musicale un senso di avventura, il piacere della scoperta, la ricchezza programmatica del gioco. Il coraggio di provare, ecco, di lasciarsi un po’ andare: d’altro canto il collettivo si auto-definisce come un “gruppo di ricerca musicale”. Tutto questo si respira dentro il racconto di Birth, Death and Birth, un brivido di azzardo e coraggio, e soprattutto quella capacità che serve per governare questo azzardo e approdare a un lavoro così ben pensato, ben scritto e ben eseguito: quello col MAG Collective è stato un incontro fortuito ma che mi ha lasciato l’assoluta certezza di aver ascoltato qualcosa di non comune, e la voglia di ascoltarne di più, magari meglio ancora se dal vivo (magari senza farsi promesse mentali che poi non si mantengono, come accaduto a Milano). Nel frattempo, parlarvi di questo bel lavoro, per una volta tutto italiano, mi è sembrato il modo migliore per inaugurare il 2023 della nostra rubrica Play What’s Not There: Jazz on Arcipelaghi: ascoltate anche voi, e buon jazz a tutti!

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