Estensione del dominio della lotta: La scelta di Anne (L’Événement, Audrey Diwan, 2021)

Presentato in anteprima lo scorso 6 settembre alla 78a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha ricevuto il Leone d’Oro per il miglior film, L’Événement, distribuito in Italia col titolo di La Scelta di Anne, è tratto dall’omonimo romanzo autobiografico della scrittrice francese Annie Ernaux (originariamente pubblicato nel 2000 in Francia e sbarcato infine in Italia in prima edizione nel 2019, col titolo più filologico di L’Evento) ed è opera della giovane regista e sceneggiatrice francese Audrey Diwan (1980), che ha riadattato il romanzo della Ernaux per il grande schermo insieme alla collega Marcia Romano. L’Événement è prima di tutto un film doloroso, interamente incentrato sulla sua protagonista: l’accadimento che dà il titolo alla storia è il racconto autobiografico di una gravidanza indesiderata che coglie la giovane Anne (cui presta il volto, la determinazione e una straordinaria bravura la giovanissima Anamaria Vartolomei) proprio nel bel mezzo del suo percorso di studi, e della risoluzione della ragazza ad abortire, in un’epoca in cui questo era ancora illegale in Francia e ogni tentativo (se riconosciuto tale da una perizia medica) poteva essere punito con l’arresto sia per la donna che per tutti chiunque l’avesse aiutata o fosse anche solo stato a conoscenza dei suoi propositi.
Siamo ad Angoulême nel 1963 e Anne, giovane ragazza di provincia, studentessa modello determinata a frequentare l’università per poter intraprendere la carriera dell’insegnamento e, soprattutto, per fuggire agli orizzonti limitatissimi di una vita in campagna, lontano dai propri sogni, resta incinta dopo un incontro con un uomo di poco più grande, che avviene fuori campo e non viene mai mostrato nel corso del racconto. Anne capisce subito di non potersi permettere di portare a termine la gravidanza: non vuole farlo, sa che questa le impedirebbe di raggiungere la propria realizzazione personale in un contesto sociale, culturale e politico di stampo chiaramente patriarcale e in un paese, la Francia, nel quale l’aborto sarebbe stato illegale ancora per 12 anni (fu solo la legge Veil, nel 1975, a far emergere la pratica dall’illegalità). L’inattesa gravidanza sconvolge la vita della studentessa proprio quando ella inizia ad affacciarsi sul mondo e ad affrontare le proprie prime esperienze amorose e sessuali, l’incontro con gli altri, i primi sprazzi della vita adulta a venire; il piccolo mondo di Anne non è pronto ad accettare una gravidanza del genere se non stigmatizzandola e non è pronto soprattutto a confrontarsi con la tenacia con la quale la giovanissima ragazza perseguirà la propria autodeterminazione e si terrà stretta la propria libertà personale, la libertà (che dovremmo tutti considerare inviolabile) di decidere sul proprio corpo, il proprio presente e futuro, la propria vita. Il contesto nel quale Anne si muove è quello della società piccolo-borghese dei primi anni ’60: il campus scolastico, la vita condivisa con amiche che le sono del tutto simili ma sono incapaci di aiutarla ad affrontare questa situazione (e che, per paura soprattutto, date le pene previste per chi dovesse aiutare una donna ad abortire, si rifiutano persino di ascoltare la dolorosa confessione della giovane); amiche che la evitano, giovani che la corteggiano e altri amici che scelgono, meschinamente, di provare ad approfittare della sua gravidanza per potersi “divertire” con lei senza correre rischi, come fa ad esempio Jean (interpretato da
Kacey Mottet-Klein), cui Anne si rivolge a un certo punto per chiedere aiuto; proprio Jean metterà Anne in contatto con un’altra ragazza che, trovatasi in una situazione simile, si era rivolta ad una donna che l’aveva aiutata a compiere la pratica dell’aborto clandestinamente a un costo altissimo e con rischi enormi; due genitori lontani che si guadagnano da vivere gestendo un piccolo bar in campagna e con i quali la ragazza non parlerà mai di tutta questa situazione; e Maxime (Julien Frison), studente di scienze politiche a Bordeaux, padre biologico del bambino di cui Anne ha cominciato la gestazione, e che desidera che la ragazza risolva il problema da sola, di modo da non veder minacciata la propria carriera universitaria prima, e lavorativa poi. In questo contesto nel quale viene abbandonata via via da tutte le persone che le stanno vicino, Anne prende la decisione di rischiare tutto per poter interrompere la gravidanza indesiderata e portare a termine gli studi: cerca dapprima aiuto medico, senza fortuna, tenta di indurre da sola l’aborto e infine si affida a una donna (Anna Mouglalis) che, clandestinamente, pratica interruzioni di gravidanza nel suo appartamento di Angoulême .
È inutile negare come il film di Audrey Diwan sia prima di tutto un film politico: d’altro canto già il romanzo autobiografico della Ernaux andava letto in un equilibro tra memoria personale e riflessione collettiva, di respiro più ampio, centrata sull’impossibilità delle donne di decidere del proprio corpo e, in ultima istanza, della propria vita. Non è un tema lontano dalla contemporaneità, tutt’altro: pensiamo solo a quanto sia difficile oggi poter accedere a un aborto legale (e sicuro) anche in un ampie aree di un paese come il nostro (mi riferisco al numero sempre crescente di cosiddetti medici “obiettori”), che ciarla giorno dopo giorno di “dittature sanitarie” ma non sa riconoscerne i tratti nella vera coercizione, poiché disabituato a esperire e condannare ciò che non riguarda chi detiene il potere; e non è certo un mistero come il potere, storicamente, non sia mai stato dalla parte dell’universo femminile. Di tutte le donne escluse dalla Storia, Anne è il paradigma e l’incarnazione: cinematograficamente, la camera della Diwan le sta addosso per tutto il film, portando ad una sostanziale ed immediata identificazione col suo punto di vista. Così, lungo la proiezione, si susseguono i carrelli che accompagnano Anne mentre cammina e che abbracciano la scena attraverso i suoi occhi, piccoli piani sequenza che hanno l’effetto di calare lo spettatore dentro quel contesto apparentemente confortevole e amichevole nel quale ella si muove ma che si rivela essere una trappola asfissiante non appena questa decide di prendere una decisione che contrasta con la “moralità condivisa”. Altrove, centrando efficacemente il punto,
L’Événement è stato definito come un film “teso, drammatico e doloroso da fare quasi spavento”: e dolorosi e spaventosi sono lo iato e il contrasto tra il corpo di Anne, la sua tenacia nel perseguire la propria libertà, e l’oppressione del contesto sociale e culturale nel quale la ragazza si trova immersa. Il corpo di Anne è l’assoluto protagonista della narrazione: colto nello sforzo di liberarsi, la camera gli sta addosso, lo segue, lo abbraccia e lo accarezza, segue il suo muoversi sulla pista da ballo, gli incontri amorosi che fanno parte della giovinezza, segue il dolore e lo smarrimento nei confronti della gravidanza e della trasformazione anche fisica che ne consegue (e con tutto ciò che comporta in termini del mantenimento di questo segreto di fronte all’ambiente esterno, naturalmente giudicante); e allo stesso tempo, proprio con quella stessa macchina da presa che ne mette in scena la visione del mondo, il corpo di Anne sembra quasi voler combattere, sempre nel tentativo di uscire (anche dal fotogramma), di liberarsi (penso soprattutto alla fisicità delle sequenze dei balli, girate con la camera sempre vicinissima agli attori, o all’incontro amoroso tra Anne e il giovane pompiere conosciuto nella stessa sala da ballo). La lotta del corpo contro la camera riflette la scelta di mettere in scena l’oppressione cui il corpo di Anne è sottoposto attraverso una sua peculiare presentazione all’interno dell’inquadratura: Anne è sempre assente dalla scena come figura intera, non viene mai colta nella sua interezza, e questo appare quasi paradossale per un personaggio talmente centrale da essere presente in ogni singolo fotogramma del girato. La camera di Audrey Diwan resta sempre sul volto di Anne, sulle sue spalle, sulla schiena, sui dettagli del corpo della ragazza, sul suo sesso, ma raramente ce la presenta per intero se non per brevi fotogrammi (o indirettamente, riflessa in uno specchio) e per lo più laddove la tensione sembra allentarsi (i ritorni a casa, dalla famiglia); la pervasività dello stigma sociale, l’oppressione del contesto socio-politico, frammenta in qualche modo il corpo di Anne, ma non riesce mai a scalfirne la tenacia e la costanza nel perseguire la propria volontà. Il film si identifica di fatto nel corpo di Anne/Vartolomei: di Anne condividiamo speranze, passioni, smarrimento e dolore, anche quello fisico, e affrontiamo insieme a lei tutte le terribili prove cui la ragazza è costretta a sottoporsi per poter perseguire la propria libera scelta (comprese iniezioni, tentativi di aborti praticati in proprio con l’uso di ferri arroventati, fino alla pratica vera e propria, affrontata nella casa della donna in cui si conclude la vicenda); è il suo punto di vista a guidare il racconto, è il suo punto di vista l’unico che abbia importanza, è la sua vicenda personale ad essere dolorosamente collettiva, umana. Stritolato nelle dinamiche della Storia, il corpo di Anne, la sua sofferenza, viene colto nella battaglia continua per (ri)appropriarsi di sé: la Diwan mette in scena una lotta per la sopravvivenza, alla maniera di quella che coinvolge molte eroine dei film dei Dardenne, e lo fa con uno stile documentaristico, con un uso della camera a mano che porta lo spettatore dentro il dramma, senza nessun compromesso. La telecamera respira insieme ad Anne: personalmente ho trovato dolorosissime molte delle sequenze del girato, crude fin quasi oltre il limite della sostenibilità perché vere, perché viste (e vissute, e mostrate) in prima persona, perché lo sguardo della camera è lo sguardo di Anne e, in un miracolo di identificazione ed empatia, è anche il nostro. La macchina da presa filma così il corpo della ragazza, i suoi sguardi, e rende tattili i sentimenti della protagonista fino a che diventa tangibile il mostruoso isolamento che la relega a una solitudine profonda e praticamente incomunicabile (solo molto avanti nella storia, per esempio, la ragazza riesce a confessare alle amiche la propria situazione, ricevendo una distante freddezza come risposta): va in scena quella deresponsabilizzazione con la quale, tipicamente, la società si autoassolve tentando di lasciar cadere la “colpa” (come se ci fosse un crimine dietro una gravidanza indesiderata), e di conseguenza lo stigma sociale, su una sola persona, la donna, alla quale si continua ad impedire di disporre liberamente del proprio corpo e quindi della propria vita (poiché altro che questo siamo, il nostro corpo). È significativo che i medici ai quali Anne si rivolge, anche quelli che danno ipocritamente la sensazione di voler comprendere la sua situazione, non sappiano fare altro che ricordarle come ella non abbia scelta, a volte esplicitamente e altre volte prescrivendole con l’inganno farmaci, come l’estradiolo, che rafforzano il feto piuttosto che indebolirlo, palesando così un disprezzo per la volontà della ragazza, di cui evidentemente la cultura dominante ritiene di poter e dover disporre a proprio piacimento, che fa letteralmente rabbrividire; e la generale autoassoluzione con la quale il mondo e la società si benedicono per continuare a ignorare le proprie indicibili brutture è racchiusa nella frase con la quale Anne giustifica al professore di Lettere il calo del proprio rendimento scolastico, attribuendolo a “quella “malattia” che colpisce tutte le donne, trasformandole in casalinghe”. Non c’è alcun giudizio nello sguardo della Diwan, la rappresentazione e la raffigurazione del corpo di Anne sono “la” storia: sul suo corpo, presentato per quello che è, carne e sangue, e per estensione sul corpo delle donne tutte, si consuma quindi uno scontro violento tra le forze in campo, la libertà di autodeterminazione e la costrizione della morale asservita al potere; ed è nel corpo e dal corpo (mostrato senza finzioni né tabù, nudo e crudo per ciò che esso è) che prende forma il senso di rivolta teso alla riappropriazione di se stessi e al riconoscimento della propria dignità umana, una meccanica che mette in moto la ricerca di un’identità che possa trasformare quello che una grossa fetta della società considera semplicemente come l’oggetto del potere, il terreno sul quale si esercita il dominio, in un autentico soggetto dotato di tutti i predicati che comunemente gli riconosciamo, in grado cioè di autodeterminarsi, decidere, scegliere. Si potrebbe dire che in L’Événement si metta in scena un’estensione del dominio della lotta che fa dei corpi femminili non più l’oggetto della prevaricazione e della sottomissione imposta dal potere, ma piuttosto i soggetti della Storia: un messaggio di enorme potenza restituito attraverso la camera da presa e la scrittura di una regista in stato di grazia, e soprattutto tramite la mostruosa prova d’attrice della sua giovane protagonista, Anamaria Vartolomei. Nell’attesa che la capacità di affrontare questi temi diventi terreno comune (attesa che potrebbe essere vana, senza fare tutti quanti un passo avanti in direzione della loro comprensione), L’Événement resta un film notevole e dolorosamente necessario, che ferisce, fa pensare e si imprime a fuoco nella memoria: un film che una bella fetta di critica cinematografica (almeno di quella italiana, se critica è il termine giusto per definirla), più attenta a non disturbare il manovratore che a comprendere e abbracciare l’arte e il suo significato come mezzo attivo di presa di coscienza per coloro che abitano il mondo, dimostra già di non aver voluto capire; sicuramente un’opera destinata a dividere perché non insipida, ma capace di prendere una posizione. Per chi scrive, uno di quei film che davvero andrebbero fatti vedere nelle scuole, fosse anche soltanto per la lezione di umanità e autodeterminazione che sa impartire ai suoi spettatori, e che emerge soprattutto negli aspetti più crudi del racconto, ai quali sceglie coraggiosamente di non sottrarsi, per mostrare la realtà e la violenza del potere così come sono, senza filtro.

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