“Down Below On Your Own”, il secondo album dei Werner

"Down Below On Your Own", Werner (2014)Giungo in ritardo, come mi capita sempre più spesso: ma, fortunatamente, non sempre è importante il momento in cui si arriva a certi incontri, momento inteso come tempo fisico lungo l’apparentemente infinita e immota scala dei tempi; conta di più il tempo interno, per così dire, la tua disposizione d’animo. Non mi sembra fuori luogo sottolineare quanto sia importante approcciare a questo secondo LP dei pistoiesi Werner con la giusta disposizione: già l’esordio di Oil Tries To Be Water (se ne parlava qui) la diceva lunga sulle ispirazioni di questo insolito terzetto acustico, e sulle sue possibilità espressive; questo secondo episodio sulla lunga durata, intitolato Down Below On Your Own (per ascoltarne alcuni estratti e acquistarlo, cliccare qui), non fa che radicalizzare e condurre alle estreme conseguenze quel modo di intendere la musica e l’espressione artistica. Già con il primo album, e col seguente ep di cover QQ (recensito qui), l’universo musicale dei Werner veniva a definirsi in maniera piuttosto chiara come uno spazio abitato da melodie malinconiche, fantasmi cinematografici, tentazioni classiche e, a fare da sottofondo, una sorta di rete di sicurezza plasmata su un morbido, evocativo, lentissimo slow-core. Rileggendo la recensione che scrissi poco più di due anni fa per Oil Tries To Be Water ho realizzato compiutamente di aver pensato ai Werner, in quel tempo e lungo quelle dieci tracce che ne costituivano l’esordio, come a tre trapezisti in bilico su un abisso vertiginoso, fatto di tutte quelle ispirazioni elencate poco sopra: il risultato era un intreccio magico, colto in un equilibrio fatale e al tempo stesso miracoloso. Chiaro che il passo successivo dovesse identificarsi con la rimozione di quella rete di sicurezza, che si faceva forte anche dell’esperienza di Stefano Venturini, chitarra e voce del trio, come leader dei Ka Mate Ka Ora, altra interessantissima band delle mie parti di cui si è parlato estesamente su queste pagine (a proposito, se mi state leggendo: ci mancate!!): una transizione verso qualcosa che in Oil Tries To Be Water era appena accennato, quasi timidamente, l’emergere di una matrice chiaramente folk nelle composizioni del trio, e contemporaneamente la radicalizzazione della parte più atmosferica del proprio sound. Non fraintendetemi: ogni lavoro artistico si basa su un qualche tipo di equilibrio interno, che gli permetta di irradiare la propria ricchezza nello spazio e nel tempo senza collassare su se stesso; ma l’equilibrio su cui si fonda Down Below On Your Own è più assoluto, nel senso proprio del termine, sciolto, svincolato. Down Below On Your Own è un album che supera le ispirazioni e le aspirazioni (tutte legittime e valide) per definire una volta per tutte, a rischio della rovinosa caduta dal trapezio, un suono-Werner. La prima cosa che si nota, appena il disco comincia a girare, è il nuovo peso riconosciuto alle parti strumentali: sempre curatissime, come nell’esordio, ma stavolta spesso capaci di vita propria. Ed è una vita propria che affascina, calda e meravigliosa: sono le delicate carezze dell’archetto sul violoncello di Alessia Castellano ad aprire l’iniziale Lara, che ha il tono di un’elegia dolorosa ma culla dolcemente l’ascoltatore tratteggiando melodie crepuscolari e aprendo la strada ai crescendo di With Those Who Fall, intervallati da una chitarra acustica infine compiutamente folk. Già in questa seconda traccia, gli interventi strumentali del violoncello e del piano (suonato da Elettra Capecchi) danno la misura della consapevolezza raggiunta dai Werner nei riguardi del proprio suono: gli elementi si fondono magicamente, con la parsimonia che caratterizza solo i migliori lavori, laddove (ma questo era già vero per Oil Tries To Be Water) non v’è niente di troppo, né di troppo poco. Animal travolge con la sua dolcezza fuori dal tempo, che si apre su un ritornello molto bello: una composizione semplice, ma già perfetta. Across the Fence ritorna più apertamente al folk, con un ruolo prominente riconosciuto ancora alla chitarra di Stefano Venturini, sulla quale vengono calati, delicatamente, i contrappunti perfettamente dosati del violoncello e del piano. La successiva Red Room, di nuovo, procede lenta ed evocativa, disegnata da pochi, sospesi accordi: il cantato si sviluppa naturalmente, quasi trattenuto, un filo di voce che ricama sulla trama intessuta dal pianoforte. Qui gli interventi strumentali sono di nuovo fondamentali, contribuendo a stabilire un’atmosfera: Red Room, giocata sulla sapiente alternanza pieno-vuoto, si propone come un’ideale colonna sonora cinematografica, un meccanismo sonoro che genera l’attesa senza risolverla, senza soluzione catartica, stemperando il suo moto come onde di marea che si abbattono su una spiaggia deserta, intervallate solo dal riflusso delle acque verso il vasto oceano. E non è un caso che, a seguire, i Werner puntino ancora su un brano totalmente strumentale: il tema di Trees Have Something To Say, introdotto da un concerto di goccioline d’acqua, e tratteggiato ancora dal violoncello, rappresenta una delle migliori soluzioni melodiche che potrete apprezzare lungo le dodici tracce di questo disco, una dolente cascata di note che si esaurisce lentamente, intermittente come una lucciola d’estate, sospesa nell’oscurità, un altro momento altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente. Clouds torna ancora al folk: un giro di chitarra e pochi rintocchi di campane accompagnano la voce in un’atmosfera che ricorda da vicino quella di un risveglio, dolce e sospesa, mentre la coscienza si riappropria della mente e la melodia, dapprima appena tratteggiata, emerge compiuta solo per spegnersi sul più bello, ancora in quel meccanismo di climax non risolto già esperito in Red Room. Sunny Spell torna a coinvolgere tutti gli strumenti, un nuovo episodio breve ma perfettamente compiuto in sé: stavolta il brano sembra spegnersi soltanto per ripartire su un coro, accompagnato dalla chitarra acustica. Ed è ancora la chitarra a dare il là a Let Him Go On His Way, ancora melodicamente molto curata sia nella voce principale che nelle armonizzazioni corali, una delicata altalena tra momenti di “vuoto” (le parti cantate) e momenti di “pieno” (gli intermezzi strumentali e i cori). Ed è ancora la chitarra, sempre carica delle ormai già consuete venature folk, ad aprire Mountain: chitarra, voci, un’armonica a bocca, poi il crescendo sottolineato dal piano e dalle sinuose linee disegnate dal violoncello. In qualche modo Mountain rappresenta la continuità e la rottura: la continuità con l’idea di un “rock da camera” che sembrava animare Oil Tries To Be Water e la rottura con il precedente, una trama musicale sviluppata partendo da una matrice folk e che sfocia in un suono d’atmosfera, in cui è il crescendo strumentale a fare il brano, a conferirgli senso compiuto, a realizzare quell’equilibrio nel quale il suono dei Werner cessa di essere riferibile e qualcos’altro e diventa, infine, assoluto, chiaro e definito in sé, concluso. Ed è un suono semplice, dolce e carico di eco, come quello su cui si adagia As Simple As A Kettle, un’ovattata melodia che incede lenta eppure, a dispetto della propria palese malinconia, che uno potrebbe confondere, distrattamente, per debolezza, travolgente: ancora un crescendo, reso infinito dai riverberi, come una bolla che si gonfia fino al punto di esplodere ma resta, per così dire meta-musicalmente, indefinitamente sospesa nel magico equilibrio di cui ho cercato di parlare fino a questo punto. Piuttosto che esplodere, As Simple As A Kettle lascia spazio agli andirivieni nervosi della conclusiva 25th of November (Downfall Of Rain), interrotti solo dai lancinanti interventi della voce: in questo caso la musica non tratteggia un paesaggio che faccia da sfondo all’animo, ma si limita a sottolinearne la voce, contrappuntarne le parole, incastonarne il senso, una sorta di traboccante intimismo, un percorso all’opposto di quanto sentito fin qui. Lungo 25th of November l’atmosfera tenera dei brani precedenti si carica di un’inattesa oscurità, quella di un interno che proietta sull’esterno le proprie potenti sensazioni: un brano lungo che sembra parlare di solitudine, abbandono, paradossalmente in bilico sul silenzio. Quel silenzio che, per circa un minuto, inghiotte spaventosamente tutto fino alla chiusura reale, la ghost track rappresentata da Downfall Of Rain: una pioggia di voci, un coro accompagnato dalla chitarra, e infine un’armonica a bocca, gli unici suoni che emergono dal buio; ed è ancora un brano folk, filologicamente autentico per quanto destrutturato, quasi una canzone attorno al fuoco, e forse si può immaginare che, dopo la pioggia, si apra una breccia nel cielo nuvoloso che volge alla notte. Magari uscirà la luna, come scriveva Majakovskij: “Ci sarà la luna./ Ce ne sta già un po’!/ Eccola che pende nell’aria./ È Dio, probabilmente,/ che con un meraviglioso/ cucchiaio d’argento/ rimesta la zuppa di pesce delle stelle.” Non è un caso che, lungo i poco più di 45 minuti di questo album, tornino in mente sempre più spesso poesie, frammenti di libri, immagini di film, e sempre meno i riferimenti musicali che, seppur presenti, non sono più necessari a chiarire di cosa si stia parlando. Forse domani ci sarà il sole. Intanto c’è la musica dei Werner, il loro proprio suono, il miglior antidoto alla solitudine che possiate incontrare.

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