I’ll Never Let You Forget Me: Friends That Break Your Heart (James Blake, 2021)

La mia storia di ascoltatore di James Blake è iniziata per caso più di dieci anni fa, sulla bacheca di un contatto su Facebook: schiacciai play sul video di The Wilhelm Scream, e ascoltati qualcosa che non avevo ancora mai ascoltato. Se la mia storia di semplice ascoltatore fosse quella di una relazione con l’artista, direi che il culmine l’ho raggiunto poco tempo dopo, a Londra, dove acquistai (in un vecchio negozio di musica che oggi non esiste più) una copia dell’album di debutto di questo artista inglese, l’omonimo James Blake, in edizione doppia insieme all’EP Enough Thunder (sempre del 2011, e che conteneva almeno un paio di chicche di un certo livello: la cover di A Case Of You, di Joni Mitchell, e Fall Creek Boys Choir, duetto con Bon Iver), pubblicato appena un mesetto prima rispetto al mio viaggio di piacere nella city. Ecco, quell’operazione commerciale, il doppio album, ha rappresentato per me il culmine di questa esperienza d’ascolto ma anche, se posso permettermi, un epitome di ciò che James Blake è e sarebbe stato (specialmente, ma non solo, in seguito): un talento sconfinato con una tendenza altrettanto enorme a esondare. La prolificità dell’artista londinese è infatti stata, almeno per chi scrive, croce e delizia di una carriera che dura da ormai oltre dieci anni e che è sfociata un paio di mesi fa (8 ottobre) nella pubblicazione dell’ultimo album di studio, Friends That Break Your Heart, il quinto: ma non è tanto questa ispirazione apparentemente inesauribile, che lo ha spinto a licenziare praticamente una media di un EP all’anno negli ultimi dieci anni (con un picco di cinque in circa un anno e mezzo a cavallo dell’uscita dell’album di debutto), che potrebbe anche costituire una giusta strategia artistica e commerciale; quanto la sensazione, divenuta per me quasi opprimente, che dietro a questa prolificità si celasse l’incapacità di selezionare tra le proprie produzioni. Questo sospetto, che già mi aveva sfiorato ai tempi di Overgrown, secondo capitolo della serie, riuscito ma inferiore al primo album, è deflagrato ai tempi di The Colour in Anything, un’operazione che, lo confesso, tutt’oggi fatico a capire: un disco che sarebbe stato perfetto se avesse avuto 7 tracce ma invece, sfortunatamente, ne conteneva ben 17. Ai tempi ebbi l’impressione che Blake stesse pagando lo scotto di voler passare da una musica che era in grado di plasmare fluentemente, fatta di passaggi eterei, pulsazioni minimali e arrangiamenti scheletrici seppur avvolgenti, a una forma-canzone più classica, nella quale dare maggior sfogo alla propria vena autoriale, introducendo nuovi strumenti, allargando la cerchia dei collaboratori e cominciando a scrivere molta più musica per duetti vocali, o in altre parole: meno sampling, meno lavoro di cesello da producer e più canzoni canoniche. Quello che veramente faceva difetto a questa transizione, di per sé non negativa (chi non cambia nel corso della propria vita?), era l’evidente mancanza di una messa a fuoco: molti di quei 17 brani suonavano indistinti, quasi non finiti, a malapena sbozzati, e certo non giovava loro il fatto di trovarsi mescolati a quei 7/8 pezzi parecchio sopra la media che, in ogni caso, il buon James non si/ci faceva mancare. Il mio temporaneo allontanamento da questo artista si è ricomposto davvero soltanto nell’ultimo anno, quando qualcosa nella produzione di Blake (a partire dai concerti registrati da casa durante la pandemia) ha lasciato intendere che covasse la voglia di un cambiamento di traiettoria: l’EP Before, e ancora singoli come Are You Even Real?, hanno riacceso gli antichi entusiasmi, e l’uscita di Friends That Break Your Heart mi ha dato l’occasione di vedere davvero come stessero le cose a casa del buon James: e stanno andando decisamente meglio di come le avevo lasciate.
Inizio col dire che, con un’operazione che reputo coraggiosa e non scontata, Blake ha scelto di lasciare fuori dai dodici brani che compongono questo album proprio
Are You Even Real?, che personalmente considero una delle migliori se non proprio la miglior cosa incisa dal ragazzo dai tempi dell’esordio. C’è però subito un trittico d’apertura che non fa rimpiangere quel brano: l’opening Famous Last Words, una ballad che è di fatto una non-canzone d’amore, con un minimale tappeto elettronico scandito da un rintocco di batteria digitale sul quale Blake canta di una rottura (Ooh, you’re the last/ Ooh, you’re the last of my old things); poi le ritmiche delicatamente dubstep di Life is not the Same, brano tematicamente speculare al precedente, centrato su un incontro piuttosto che su una separazione, ma raccontato sempre attraverso una distanza che stende un velo di malinconica dolcezza (Life is not the same/ If we’re miles away, canta Blake nell’inciso, chiudendo con uno straziante I was your champion/ I did everything to help you stay); e a seguire il primo duetto importante dell’album, Coming Back, cantata con SZA, che sembra cominciare proprio laddove Life is not the Same si chiudeva (So I’m coming back, coming back, tail between my legs/ Forget what I said, what I said, what I said, what I said/ There’s a mile between my heart and my head) e sviluppa il racconto di un amore fuori sincrono su un irresistibile struttura dubstep, scandita da un indimenticabile pulsazione di drum machine che accompagna l’ingresso della voce di SZA (You say you love me, is it real?/ What do you fantasize about the things you really wanna feel?/ I know you fantasize about that lifе you really wanna build/ Know your eyes arе watching God/ But baby, my eyes are hidden in the hills/ Your first mistake was wanting me when you know I wasn’t ready/ You put that shit down heavy/ Couldn’t let you regret me/ We memorize about the time we spent when you first met me/ I put my shit down heavy), il tutto fino al formidabile refrain (Couldn’t let you forget me, mmm/ I’ll never let you forget me). Con Funeral il buon James ritorna in territori intimisti, pienamente à-la-Blake: piano e voce (e che voce) per un momento di raccolta introversione (This song is all me, done on a very sunny but slightly miserable day. I was thinking about how it feels not to be heard, and to worry that people have given up on you. During lockdown I specifically felt that. It had been many years since I had really popped up and done forward-facing stuff like interviews), scandito solo nei ritornelli da un battere di mani. Frozen propone la seconda incursione di ospiti nell’album, mescolando rap (col contributo vocale di JID e SwaVay) e la voce eterea e senza tempo di Blake, che scolpisce un ritornello assolutamente colossale, vero punto di forza del brano, ancora scandito da una base ritmica particolarmente azzeccata. I’m So Blessed You’re Mine tiene insieme la voce di Blake con un tappeto onirico di pad, andando a chiudersi d’improvviso in un inciso per voci filtrate digitalmente, geometrizzato da un pattern ritmico quadratissimo, con qualche eco arabeggiante nelle armonizzazioni. La scintillante (e brevissima) Foot Forward si pone sulla stessa falsariga del pezzo precedente, innestandosi su un loop del piano accompagnato da bassi profondissimi nei ritornelli, e sfocia nell’ultimo intervento collaborativo del lotto, Show Me, ballad per due voci cantata insieme a Monica Martin (già nota per le collaborazioni coi Vulfpeck, su tutte il duetto con Theo Katzman su Love is a Beautiful Thing). Tematicamente, il brano riprende l’idea della separazione ma guardandola dal punto di vista di chi sa che l’ex-partner è cresciuto dal momento in cui le strade si sono divise, e immagina di poterne osservare tutti i passi avanti (quel I put my best foot forward del brano precedente suona ora come qualcosa di più di un auspicio): musicalmente, Show Me è costruita su una pulsazione insistita di cassa, e sulle armonie vocali, frutto dell’ottimo lavoro di Blake e Martin. A Show Me segue Say What You Will, singolo di lancio del lavoro, pubblicato lo scorso luglio: un gospel un po’ surreale che inizia con l’applauso scrosciante di una piccola folla, come fosse un’incisione live, snocciola un testo che parla di fragilità umane, tema sempre caro a Blake fin dai tempi di Overgrown (quando affrontare la fama era già diventato un bel problema), e si esaurisce in uno splendido intermezzo per sola voce prima del rientro dell’accompagnamento strumentale, arricchito da una piccola sezione d’archi. Il trittico conclusivo del lavoro richiama, per intensità emotiva e bellezza, la pregnanza dei primi tre brani, dando l’impressione che questi dodici pezzi, così interconnessi tra loro, abbiano un andamento perfettamente circolare, che accompagna per mano l’ascoltatore di nuovo all’inizio. Lost Angel Nights è probabilmente il brano migliore della tracklist (accanto a Coming Back) e, nelle parole di Blake, It’s about a lot of things, but primarily it’s about worrying that you’ve missed your shot: comincia con un tappeto di synth profondissimi squassato da un arpeggiatore, e piazza subito una di quelle linee melodiche vocali che si sentono una volta ogni duemila album (Lost angel nights/ Never jaded eyes/ Envy is no crimе/ Away from me’s just fine), capaci di causare autentica dipendenza, il tutto condito da una base fragile e lieve di elementi ritmici che contribuisce a creare un ambiente sonoro affascinante e perfettamente compiuto in se stesso. La titletrack, Friends That Break Your Heart, torna a lambire i territori dell’intimismo pianistico blakeano che già rendevano speciale Funeral, facendo segnare l’ingresso di una chitarra ad accompagnare la tensione del brano con un arpeggio tanto minimale quanto determinante; infine If I’m Insecure chiude il lavoro ibridando il soul più vibrante con le consuete derive dubstep, una ballad al rallentatore che si apre nell’ultimo, memorabile ritornello, coi versi che si adagiano magicamente su bassi profondissimi e tremolanti (And if I’m insecure/ How have I been so sure/ That I’m gonna care for you/ ‘Til I am no more), per spegnersi infine, dopo un lungo fade out, su un rintocco enorme, quasi irreale, della batteria.
Ecco,
Friends That Break Your Heart ha qualcosa che i dischi precedenti di James Blake non avevano: è un lavoro musicalmente e tematicamente coeso, concentrato, affilato, ricco di interconnessioni e rimandi interni, in cui anche la tracklist non sembra per niente composta in maniera casuale (a dispetto delle dichiarazioni dell’autore, per il quale quello della successione dei brani non costituirebbe un vero motivo d’interesse ma semmai una questione da trattare come si tratterebbe la composizione di una playlist per un dj-set). Non c’è un unico elemento di questo lavoro che sembri capitato lì per caso, come accadeva in molti dei lavori precedenti, e soprattutto i 12 episodi di cui Friends That Break Your Heart si compone risultano tutti meravigliosamente a fuoco, definiti, conclusi: necessari, verrebbe da dire. Non c’è nessun passaggio che sia di troppo, e al desiderio cantautorale si sposa finalmente in maniera efficace la tendenza al minimalismo che da sempre caratterizza le migliori produzioni di Blake: così forse il lavoro non avrà la leggerezza e la pregnanza dell’esordio, questo probabilmente no, ma riesce a prendere l’ascoltatore per mano e portarlo nel suo percorso circolare lasciandolo con la voglia di fermarsi ancora un po’, proprio come accadeva esattamente dieci anni fa; e la forma-canzone, tanto a lungo inseguita, trova infine una sua veste minimale, di certo scarnificata, tagliente ma mai ostica, anzi affascinante nel suo andamento sghembo, che oscilla tra il soul e le venature R’n’B del cantato di Blake e i droni e i tappeti sintetici che da sempre ne caratterizzano la scrittura e la composizione, con evidenti richiami anche a quelle strutture dubstep che hanno costituito l’ossatura dei suoi lavori migliori. A 33 anni compiuti, e dopo essere a lungo stato una sorta di enfant prodige, James Blake è oggi un artista maturo e Friends That Break Your Heart segna un gradito ritorno, tentando di rimettere doverosamente a fuoco i contorni indefiniti di un talento smisurato, capace oggi come dieci anni fa di emozionare e smuovere come pochi altri artisti sanno fare: I’ll never let you forget me, ripete Blake insieme a SZA nei ritornelli di Coming Back, ed è più che un verso, è un’indicazione programmatica, un desiderio reale di vicinanza, un segno di profonda umanità, parole che iniettano calore in un mondo sempre più esangue; fuori comincia a fare freddo, e di calore ci sarà sempre bisogno.

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