January Round-Up: Musica Amplificata

Quello di “panopticon” è un concetto col quale molti sono familiari: si tratta dell’idea del carcere ideale immaginato nel 1791 dal giurista Jeremy Bentham che sarebbe servito a oltre due secoli di filosofia e letteratura come metafora perfetta del controllo e del potere infinito (basterebbe citare Foucault, Chomsky, Bauman e Orwell). A dispetto dell’assonanza del titolo, però, il Panopticom di cui canta Peter Gabriel nel primo singolo estratto dal suono nuovo lavoro, i/o, in uscita in questo 2023 a oltre vent’anni dall’ultimo vero album di studio, Up, del 2002, non è un carcere, un luogo nel quale si privano le persone della loro libertà, ma il suo esatto opposto: l’idea di un enorme banca dati accessibile a tutti per poter ricostruire, ripensare il proprio ruolo e la propria posizione nel mondo e nella società (cliccando qui potete ascoltare Gabriel che parla chiaramente della sua idea di “rovesciare” il concetto del panopticon di Bentham). Panopticom references an idea that Peter has been working on to initiate the creation of an infinitely expandable accessible data globe. The aim is to “allow the world to see itself better and understand more of what’s really going on”, si legge sul post Instagram col quale Gabriel ha licenziato il singolo lo scorso 6 gennaio: com’è sempre stato, lo sguardo dell’artista inglese è rivolto ai più deboli, agli sconfitti, agli emarginati, e l’idea di Panopticom è un’idea di speranza, di una nuova comunicazione (il –com finale). Sempre per usare le parole di Gabriel, Some of what I’m writing about this time is the idea that we seem incredibly capable of destroying the planet that gave us birth and that unless we find ways to reconnect ourselves to nature and to the natural world we are going to lose a lot. A simple way of thinking about where we fit in to all of this is looking up at the sky… and the moon has always drawn me to it. Ovviamente, parlando di uno che ha scritto pagine memorabili della storia della musica popolare sia dentro i Genesis che nella sua ormai ultraquarantennale carriera solista, non dovrebbe sorprendere che Panopticom sia ben più di una semplice canzone, e anzi addirittura… due: anticipando un format probabilmente già in parte suggerito dalla scelta del titolo del nuovo album, i/o, di Panopticom esistono due mix differenti, il cosiddetto Bright Side Mix, opera dell’ingegnere del suono Mark “Spike” Stent, pubblicato il 6 gennaio, in occasione della luna piena (altra caratteristica della modalità con la quale Gabriel ha deciso di pubblicare i brani, uno ogni luna piena), e un Dark Side Mix, realizzato invece dall’ingegnere del suono Tchad Blake e reso disponibile il 21/1 (che ovviamente è una luna nuova). Ogni brano sarà inoltre accompagnato da un pezzo d’arte, un artwork dedicato realizzato da differenti artisti (la multimedialità è da sempre di casa nei progetti di Gabriel): per Panopticom si tratta di Red Gravity, opera dell’artista David Spriggs.

Dal punto di vista della composizione, Panopticom si sviluppa su un’affascinante tavolozza elettronica intessuta da Brian Eno, con le chitarre del fidato David Rhodes e la sezione ritmica inconfondibile costituita da Tony Levin e Manu Katché, ed è una canzone di una semplicità disarmante, ma di quella semplicità levigata che richiede un immenso lavoro per essere ottenuta: eloquente, per quanto diretta; complessa, per quanto minimale. I brani, come tutto l’album, sono stati registrati ai leggendari Real World Studios di Gabriel. Particolarmente affascinante e fruttuoso il confronto tra i due mix: tanto disteso e luminoso il primo quanto sotterraneo, sulfureo e inquietante il secondo, imperniato in particolare sui bassi profondissimi di Levin e la batteria di Katché, con tutte le sporcature elettroniche messe in bella vista, molto alte nel mix, al punto che lo “svuotamento” cui sono sottoposti i ritornelli, nei quali la voce di Gabriel è accompagnata dallo strumming del solo Rhodes, risuona ancora più secco e profondo, quasi fino a togliere il fiato. Una dimostrazione plastica di come si prende un’idea semplice e se ne danno due letture diverse e complementari: nel complesso, Panopticom ha il suono oscuro che caratterizzava gli ultimi lavori di Gabriel (Up, in particolare) con qualche eco dalle chitarre acide ascoltate su Us. Non aspettatevi un brano eclatante, o un singolo della presa di una Sledgehammer, perché Panopticom è (programmaticamente) qualcosa di un po’ diverso, un’opera a tesi che non manca di una sua magica leggerezza, uno di quei brani stimolano gli ascoltatori, li sfidano e forniscono loro idee e spunti di riflessione: musica amplificata, mi verrebbe da dire. Non resta che aspettare la prossima luna piena.

Parlando di album in arrivo, lo scorso 19 gennaio anche i National hanno annunciato il loro nuovo lavoro. Intitolato First Two Pages of Frankenstein, l’album della band di Matt Berninger e dei fratelli Aaron e Bryce Dessner e Bryan e Scott Devendorf sarà pubblicato il prossimo 28 Aprile per la label 4AD. Ad accompagnare l’annuncio della band il primo singolo estratto, Tropic Morning News: il classico sound della band americana si sposa a un substrato di percussioni elettroniche, e il ritmo incalzante accompagna la voce baritonale di Berninger verso un ritornello di luminosissima apertura pop. Le coordinate di First Two Pages of Frankenstein appaiono da subito chiare, come sempre: la ricerca della canzone pop perfetta, la stessa spinta ideale che muoveva la band fin dai tempi degli splendidi Alligator e Boxer (che a dire il vero arrivavano pericolosamente vicini al traguardo, specialmente quest’ultimo con un pezzo come Fake Empire), rinnovata attraverso l’esperienza di due album profondamente diversi tra loro e profondamente sperimentali, come il crepuscolare Sleep Well Beast (2017) e I Am Easy To find (2019). Dal punto di vista dei versi, il testo di Berninger tradisce un’ispirazione emersa da un momento di profonda cupezza: Tropic Morning News sembra infatti, come molti altri brani della band, centrarsi sull’incapacità di comunicare se stessi agli altri e di mettere ordine nei propri pensieri (Got up to seize the day / With my head in my hands feeling strange/ When all my thinking got mangled/ And I caught myself talking myself off the ceiling). In generale, proprio il profondo pessimismo delle liriche stride con l’atmosfera apparentemente solare e persino rilassata del brano, creando una profonda tensione e non poca curiosità per il resto della scaletta dell’album (che comprenderà anche brani realizzati insieme a Taylor Swift, Phoebe Bridgers e soprattutto Sufjan Stevens).

Di Aaron Percy ho parlato già diverse volte in questi RoundUp mensili, perché mi piace il suo modo di scrivere canzoni che sono buffe, tenere e delicate al tempo stesso, un cantautorato che prende ispirazione tanto da Nick Drake quanto da Joni Mitchell o Boniver ma sa essere sempre personale, intimo, densissimo. Così accade anche per Now We Grow, pubblicata lo scorso 6 Gennaio: un brano che racconta, con delicatezza, di due strade che si separano, di una relazione che si mette in pausa, di un nuovo percorso di crescita. Percy ha voluto cantare, nei versi di Now We Grow, un rapporto che per lui è stato importante, cercando di fermare nella mente e nel cuore ciò che importante lo ha reso: I spent last year with someone truly special, a best friend. Our relationship grew in ways we never thought possible- defying its limits through care, optimism, and love. But eventually it became clear: our lives were stretching in different directions. So we had our Free Willy moment: we let each other go out of love and respect. My heart is still beating furiously to catch up with my brain. I wrote this song to honor our relationship, my continued gratitude for this person, and to hold forever a glimmer of what we once had. Now We Grow. Al fianco di Percy troviamo il sempre ottimo Seth Thackaberry al basso e Jordan Rose alla batteria, oltre a Eric Tarlin e Jeff Kolhede: Now We Grow è un brano leggero come una carezza, che si posa sul cuore con una delicatezza fuori dal comune, offrendo autentici momenti di beatitudine musicale.

(English Version) I’ve already talked about Aaron Percy several times in these monthly RoundUps, because I like his way of writing songs that are funny, tender and delicate at the same time, a songwriting that takes inspiration as much from Nick Drake as from Joni Mitchell or Boniver but always remains really personal, intimate, very dense. This also happens for Now We Grow, released on January 6th: a song that delicately tells of two roads which separate, a relationship that pauses, a new path of growth that is beginning. In the verses of Now We Grow, Percy sings about a relationship that was important to him, trying to capture in his mind and heart what really made it so: I spent last year with someone truly special, a best friend. Our relationship grew in ways we never thought possible- defying its limits through care, optimism, and love. But eventually it became clear: our lives were stretching in different directions. So we had our Free Willy moment: we let each other go out of love and respect. My heart is still beating furiously to catch up with my brain. I wrote this song to honor our relationship, my continued gratitude for this person, and to hold forever a glimmer of what we once had. Now We Grow. Alongside Percywe find excellent musicians such as Seth Thackaberry on bass and Jordan Rose on drums, as well as Eric Tarlin and Jeff Kolhede: Now We Grow is a song as light as a caress, which settles on the heart with an uncommon delicacy. A true moment of musical bliss.

Chiudo con un nome che i lettori di questo blog conoscono molto bene, ovvero quello di Ella Hohnen-Ford, protagonista di queste pagine negli ultimi mesi dello scorso anno con la release del suo splendido primo EP, Infinity, del quale avevo parlato con dovizia di particolari in più occasioni (tipo qui e qui, tanto per tirare le somme). Vi segnalo che questo mese sono usciti un paio di video interessanti, recanti delle riletture di alcuni brani dell’EP di Hohnen Ford realizzate col supporto di una sezione d’archi: la già profonda ricchezza armonica e melodica dei brani della cantante inglese e soprattutto la sua voce straordinaria emergono ancora di più da questa affascinante riproposizione. Onestamente non saprei scegliere quale video lasciarvi, quindi ve li lascio tutti: ci sono Don’t Fall Asleep (in realtà pubblicata un paio di mesi fa) e poi Infinity e Send Me A Sign, pubblicate proprio sul finire del mese scorso. Buon ascolto, e non dimenticate che questa è musica che fa bene all’anima.

(English Version) I close this RoundUp with a name that the readers of this blog know very well, that of Ella Hohnen-Ford. She has been a true protagonist of these pages in the last months of 2022 along with the release of her splendid debut EP, Infinity, of which I had spoken extensively details on several occasions (such as here and here, just to cite a few). I would like to point out that a couple of interesting videos have been released this month, featuring re-readings of some songs from Hohnen Ford‘s EP made with the support of a string section: the already profound harmonic and melodic richness of the English singer’s songs and most of all her extraordinary voice emerge even more from this fascinating re-proposition. Honestly, I could not choose which video to link here, so I’ll link them all: Don’t Fall Asleep (actually released a couple of months ago) and then Infinity and Send Me A Sign, released right at the end of January/beginning of February. Happy listening, and do not forget that this is not simply music, but an actual balm for your soul.

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