La delicata complessità dell’amore: Happy Together (Wong Kar-Wai, 1997)

Alla mezzanotte del 1 luglio 1997 si concretizzò la procedura di handover di Hong Kong, che prevedeva la cessione della sovranità sul piccolo stato asiatico dal Regno Unito alla Cina: una data epocale, destinata a mutare per sempre il destino della ex-colonia inglese. Quando Wong Kar-Wai iniziò a lavorare ad Happy Together, alla conclusione di questo complesso iter burocratico mancava ancora poco più di un anno e mezzo: si era agli inizi del 1996 e la prima reazione che Kar-Wai ebbe rispetto a questo cambiamento di prospettiva storico/politico fu quella di imporne uno altrettanto forte al proprio cinema, scegliendo di andare a girare in Argentina, un paese agli antipodi di Hong Kong, mai visitato prima. Happy Together, tornato nelle sale in questo 2021 a seguito del restauro in 4k eseguito da Criterion Collection e L’Immagine Ritrovata- Cineteca di Bologna (senza dimenticare la splendida edizione blu-ray The World Of Wong Kar-Wai, che comprende tutti e sette i titoli oggetto del restauro), fu il risultato di questo ribaltamento: presentato originariamente a Cannes il 17 maggio del 1997, dove ottenne il premio per la miglior regia, il film donò al suo autore anche un’agognata consacrazione internazionale, che permise all’opera di imporsi sui mercati occidentali forse anche di più di quanto non seppe fare su quello di Hong Kong. Facile speculare come questo titolo, Happy Together, potesse riferirsi alla speranza di un “felice” ritorno di Hong Kong tra le braccia dell’ingombrante vicino cinese: eppure lo stesso Kar-Wai, seppur non insensibile al tema, ha sempre scoraggiato un’interpretazione troppo apertamente politica di un film che è invece, essenzialmente, un’opera sul distacco, la lontananza e la separazione; quella distanza, anche e prima di tutto geografica, che, seppure all’autore stesso dovette risultare necessaria per mettere ordine nelle proprie idee sull’handover, di fatto nel film si esplicita in un’attenzione prevalente per la dimensione intima e personale piuttosto che per quella storica (o pubblica, che dir si voglia). In qualche modo Happy Together mette in scena il contrasto tra spazio intimo e spazio storico che farà da sfondo anche a In The Mood For Love, seppure con esiti rovesciati. Ma sarebbe riduttivo pensare che quest’opera costituisca una netta novità all’interno della filmografia del suo autore soltanto per la location in cui venne girata; Happy Together è soprattutto il primo film di Kar-Wai nel quale non sono presenti protagoniste femminili, e che è piuttosto incentrato completamente su una storia d’amore omosessuale, tratteggiando quello che, con le parole di Denise Tang, ha costituito “il ritratto più coraggioso e provocatorio dell’omosessualità che fosse mai stato prodotto a Hong Kong fino a quel momento” (D. Tang, Popular Dialogue of a “Discreet” Nature, Asian Cinema, Autunno 1998, citato in S. Alovisio, Wong Kar-Wai, ed. Il Castoro Cinema, pag. 129; il testo di Alovisio costituisce la principale fonte critica e bibliografica di questo scritto). In un paese in cui gli atti omosessuali tra adulti consenzienti erano stati depenalizzati solo pochi anni prima (1991), il ritratto offerto da Kar-Wai rifugge stereotipi e didascalismi, facendo dell’amore omosessuale un dato di fatto a substrato della storia, lo sfondo palese (e mai discusso) dell’intero racconto. Non è un caso che Happy Together si apra con un’esplicita scena di sesso (la prima di tutto il cinema di Kar-Wai) coinvolgente i due protagonisti, Lai Yiu-Fai (interpretato dal sempre magistrale Tony Leung) e Ho Po-Wing (cui presta il volto Leslie Cheung, alla sua ultima apparizione in un film di Kar-Wai), filmata con completa naturalezza e senza lasciare spazio al pruriginoso né cedere ad un sentimentalismo volto ad idealizzare il “diverso”: forse, al tempo stesso, anche l’occasione per Kar-Wai di rivendicare provocatoriamente la propria libertà d’espressione nei confronti delle derive censorie del governo cinese che, di lì a breve, avrebbe esercitato la propria sovranità su Hong Kong.

Una relazione amorosa, quella tra Lai Yiu-Fai e Ho Po-Wing, è dunque al centro di Happy Together: non la storia di una coppia mai davvero nata, come avverrà nel successivo In The Mood For Love, ma quella di una coppia il cui legame si sta disfacendo. Il rapporto tra i due uomini è infatti segnato da continue liti e separazioni, cadenzate dai frequenti “ricominciamo da capo” coi quali, ogni volta, Ho riesce a convincere Lai a riprendere a tessere i fili della loro relazione. Il racconto si apre su un viaggio che, dopo l’ennesima riappacificazione, la coppia intraprende in Argentina in direzione delle cascate di Iguazù, luogo mitico (e mitizzato) rappresentato su una lampada che arreda la casa dei due: purtroppo Lai e Ho si perdono, non riescono a raggiungere le cascate e le loro strade si separano nuovamente dopo un altro, durissimo litigio. Per rimettere insieme i soldi necessari a pagarsi il viaggio di ritorno verso Hong Kong, Lai inizia a lavorare come steward in un celebre club di tango di Buenos Aires, il Big Sur; Ho, dal canto suo, inizia a prostituirsi per potersi permettere un più elevato tenore di vita. Ho e Lai si rincontrano per caso proprio al Big Sur e Ho, che dapprima aveva scelto di separarsi dal compagno perché annoiato dal rapporto di coppia, ricomincia a cercarlo ossessivamente allo scopo di riconquistarlo e “ricominciare”; tuttavia Lai, scottato dalle precedenti esperienze, cerca di tenere Ho a distanza. È solo dopo che Ho si presenta alla sua porta con le mani spezzate a seguito del furto di un prezioso orologio che aveva rubato ad un cliente per regalarlo all’ex compagno nel tentativo di riappacificarsi che Lai, spinto dal senso di colpa e di responsabilità, accetta di ospitare l’uomo nella sua stanza dell’Hotel Revera, in attesa della sua guarigione. Durante tutto questo periodo, Lai si fa in quattro per mantenere sé e Ho, e inevitabilmente si riavvicina al compagno. Nonostante le cure che Lai gli dedica, Ho continua incessantemente a sottoporlo a tristi umiliazioni: proprio per timore di venire nuovamente lasciato, Lai aveva da subito nascosto il passaporto del compagno. Nello stesso periodo, dopo aver perso il lavoro per aver aggredito l’uomo responsabile di aver picchiato Ho, Lai inizia a lavorare in un ristorante cinese, il Chino Central, dove conosce il giovane Chang (interpretato da Chen Chang), proveniente da Taiwan e in viaggio verso Ushuaia. Mentre l’amicizia tra i due uomini cresce, Ho riprende l’uso delle mani e ritorna rapidamente alla propria vita disordinata: al culmine dell’ennesimo litigio con Lai in merito al passaporto, Ho lascia definitivamente il compagno. Anche il rapporto di Lai con Chang, divenuto via via sempre più stretto, si interrompe quando il ragazzo, messi da parte i soldi necessari al ritorno a casa, lascia Buenos Aires diretto a Taiwan via Ushuaia. Prima di partire, Chang propone all’amico di registrargli un messaggio che lui possa affidare al vento dal faro di Ushuaia, il faro più a sud del mondo dove, secondo una tradizione, ci si può liberare di qualsiasi dolore ci affligga urlandolo verso il mare. Lai non riesce a trovare parole per esprimere il dolore dell’ennesima separazione, e tutto ciò che riesce a incidere sul nastro è un pianto a malapena soffocato. L’uomo resta dunque solo, e la solitudine lo spinge inizialmente a cercare sollievo in compagnie sessuali occasionali, in qualche modo replicando l’atteggiamento di Ho (come in una sorta di immedesimazione che possa smorzarne la solitudine): in questo periodo, si fa forte in Lai il desiderio di tornare a casa e riappacificarsi col padre, col quale ha interrotto ogni rapporto dopo aver perso un impiego che il genitore gli aveva trovato ad Hong Kong a causa di un furto di denaro commesso ai danni del datore di lavoro. Dapprima Lai tenta di contattare il genitore telefonicamente, senza riuscirvi: affida quindi il proprio desiderio di riappacificazione a una lettera, che spedisce a Hong Kong da Buenos Aires poco prima di lasciare a sua volta la capitale argentina. Per accelerare il ritorno a casa, Lai aveva intrapreso un lavoro notturno in un mattatoio (utile a riabituarsi al fuso di Hong Kong oltreché a incrementare i guadagni): raccolta la somma necessaria, decide di completare il viaggio verso le cascate di Iguazù, motivo originale della sua presenza in Argentina, prima di tornare definitivamente a casa. Alla partenza, lascia sul tavolo dell’appartamento il passaporto di Ho, che questi ritroverà dopo essere tornato a cercare l’ex-compagno, capendo infine che non lo rivedrà mai più. Nel frattempo Chang, giunto ad Ushuaia, ascolta il messaggio affidatogli da Lai prima della partenza da Buenos Aires: nient’altro che un pianto disperato, intriso di solitudine. Sceglie di ripassare da Buenos Aires nella speranza di poter salutare ancora una volta l’amico prima di tornare a Taiwan, ma al suo ritorno Lai è già partito, e nessuno ne ha notizie. Lai nel frattempo ha lasciato l’Argentina, ma nel tragitto verso Hong Kong si è fermato a Taiwan, mettendosi sulle tracce di Chang: in un chiosco di noodles del mercato di Taipei, l’uomo riconosce una foto dell’amico nella Terra del Fuoco e capisce che si tratta del chiosco dei genitori del ragazzo. Prima di concludere il proprio ritorno a casa e affrontare l’incontro col padre, Lai prende con sé la foto di Chang.

Prima di ogni altra cosa, Happy Together è un road movie, per quanto un road movie atipico, quasi trans-dimensionale, che confonde i pieni temporali e in cui gli spostamenti avvengono principalmente nel ricordo: il viaggio si alimenta della distanza e dello smarrimento di sé, come avveniva nel primo Wenders, ed è soprattutto, lungamente, un falso movimento. Una distanza permane sempre tra i corpi dei protagonisti anche quando questi sono vicinissimi, ed è parte integrante del meccanismo che, sovrapponendosi al e sovvertendo il regolare scorrimento del tempo, genera il ricordo e la memoria, che nel film sono colti costantemente nell’atto del loro farsi. La struttura narrativa del lavoro è fin da subito abbastanza complessa, ellittica, per quanto sempre tendente a un’elegantissima rarefazione: dell’iniziale plot giallo immaginato da Kar-Wai, lontanamente ispirato al romanzo A Buenos Aires Affair dello scrittore argentino Manuel Puig (molto amato dal regista), non resta che la storia dei due uomini. A Buenos Aires Affair doveva essere anche il titolo del film, che però alla fine Kar-Wai cambia ironicamente in Happy Together, citando un brano dei Turtles (che risuona sul finale nella versione di Danny Chung), e aggiungendo lo spiazzante sottotitolo “A Story about Reunion”: spiazzante poiché la sensazione prevalente è piuttosto quella di trovarsi di fronte alla narrazione di un congedo, di una separazione. Ad un’analisi più accorta, tuttavia, Happy Together si rivela composto da due movimenti principali, apparentemente contrastanti eppure intimamente legati: un primo che allontana tra loro i protagonisti (la separazione, la solitudine, la distanza) e un secondo che li riconduce infine a se stessi (in particolare nell’ottica del ritorno a casa). In altre parole il viaggio è un espediente che Kar-Wai sfrutta per ricomporre la scissione interiore dei suoi personaggi in un poema del ritorno che prevede, necessariamente, il passaggio dalle stazioni della separazione, del dolore e della solitudine: “tutti i miei personaggi sono terribilmente soli”, avrebbe detto lo stesso cineasta in un’intervista rilasciata a El País qualche anno dopo (28 Febbraio 2001).
Fin dalle prime immagini,
Happy Together oscilla tra i poli opposti della vicinanza e della separazione: quest’oscillazione prende forma nell’alternanza di colori saturi, cui vengono associati i momenti di intimità tra Lai e Ho (l’iniziale rapporto sessuale, il contatto fisico e emotivo), e di bianco e nero, che relega da subito questa unione alla dimensione del ricordo, insieme alla voce over che parla rigorosamente al passato. Proprio attraverso l’espediente filmico della sottrazione del colore, che associa al bianco e nero lo spazio del ricordo, si innesca quel meccanismo, che cadenza la proiezione, della circolarità e della ripetizione di situazioni simili al fine di generare una sensazione di malinconica commemorazione (una generazione in tempo reale del ricordo e della nostalgia), un topos che (sotto forme diverse) sarà parte integrante anche delle atmosfere del capolavoro successivo di Kar-Wai, In The Mood For Love.
L’avventura promessa dal viaggio verso Iguazù incarna in realtà l’inizio della fine della coppia: nel disorientamento che caratterizza il percorso di Lai e Ho, nell’incapacità di raggiungere insieme la meta sognata che sublimi il loro rapporto amoroso, già si manifesta tutta la distanza tra i due, che sono lontani l’uno dall’altro anche mentre, fisicamente vicini, tentano di ritrovare una strada ormai definitivamente perduta. Paradossalmente, i campi lunghi che sembrano voler raccontare gli spazi liberi del movimento sono invece diorami all’interno dei quali le figure umane divengono, lentamente, punti lontani, non più in grado di riconnettersi e ritrovarsi: il viaggio allora non ha una vera meta, o meglio la meta vive solo nel ricordo e nel sogno, nella preparazione al viaggio, ed è infatti mostrata immediatamente all’inizio del film (ben prima che i protagonisti possano raggiungerla, cosa che di fatto non faranno mai, almeno non insieme) con una ripresa allo stesso tempo vorticosa ed angosciante nella quale la violenza della natura sembra capace di sopraffare finanche lo spettatore. Il movimento è chiaramente impedito anche in termini di grammatica filmica: come sottolinea lo stesso Alovisio nel testo già citato, Kar-Wai non filma mai lo spostamento dell’automobile di Lai e Ho lateralmente, di modo che si possa veder scorrere il paesaggio; preferisce mostrare questo spostamento come se esso, di fatto, non avvenisse, con la macchina da presa a viaggiare insieme all’auto, e l’inquadratura spezzata più volte nel corso della marcia come a impedire all’automezzo di inoltrarsi verso l’orizzonte, che resta davanti allo spettatore (e ai protagonisti) a tagliare a metà lo schermo senza poter essere raggiunto, come se ogni movimento fosse, per l’appunto, solo apparente. La staticità della macchina da presa, allo stesso tempo in corsa e ferma (perché solidale all’automezzo), rimanda chiaramente alla crisi del rapporto tra Lai e Ho, le cui strade si dividono infatti subito dopo. La separazione si ricompone quando Lai si imbatte nuovamente in Ho, per caso, durante il suo lavoro al
Big Sur. Da manuale l’inquadratura di questo nuovo primo incontro, sulla soglia del locale: la camera scivola elegantemente, in campo e controcampo, sui volti dei due uomini che si sfiorano, in un accumulo di tensione magistrale. Ovviamente Lai riconosce subito l’amante, mentre occorre aspettare che Ho lasci il locale per sapere se questi abbia a sua volta notato l’altro: mentre l’auto che lo riporta al suo hotel si allontana, Ho si volta e getta uno sguardo verso l’ex compagno. Da questo momento, Ho tenta di riprendere il rapporto interrotto con Lai, di “ricominciare” (come da leitmotiv). Inizialmente Lai rifiuta ogni proposta da parte dell’ex compagno (la confusione emotiva del protagonista è sottolineata in questa fase dai vari step framing, che lasciano esondare nel tempo oggettivo della storia il tempo interiore dei sentimenti combattuti di Lai), ma poi accetta un orologio che questi gli regala: sfortunatamente, però, il regalo era frutto di un furto, e il proprietario dell’orologio dapprima picchia Ho, e poi gli rompe entrambe le mani. Quando Ho si reca a casa di Lai con le mani spezzate e il viso ricoperto di sangue, un abbraccio apre alla riconciliazione tra i due, che verrà suggellata, al ritorno dall’ospedale, da un viaggio in taxi, uno spazio che nel cinema di Kar-Wai assume sempre l’aspetto di luogo privilegiato dell’intimità: l’amore tra i due ricomincia, e prende per Lai la forma della “cura”, ponendolo nell’inusuale posizione di poter avere un qualche potere sul compagno, che ha oggettivamente bisogno di lui per sopravvivere. È proprio in questo momento che Lai trova il passaporto di Ho e sceglie di nasconderlo, per timore (quasi una certezza) che Ho possa lasciarlo nuovamente una volta guarito e non avendo più bisogno di lui. Il tempo dell’intimità ritrovata coincide anche col ritorno del colore, che soppianta il bianco e nero (legato intimamente, come detto, alla separazione e al ricordo).
Fin da prima di riallacciare il rapporto con Ho, Lai è inquieto, come ricorda lo stesso Alovisio, poiché sa che l’eventuale ritorno dell’ex-compagno non potrà mai riattivare
“il tempo complice dell’amore”: la scena che lo stesso Alovisio pone a suggello di questa constatazione è di poco precedente alla decisione dei due di tornare insieme, un’inquadratura di Lai in campo lungo, seduto da solo al tavolo della sua stanza nell’Hotel Revera, che volge lo sguardo verso la lampada di Iguazù. Con un movimento del fuoco, la lampada si prende l’inquadratura per intero, mentre l’immagine di Lai, ora sfocata, esce dalla scena: l’astrazione del sogno amoroso che si sostituisce provvisoriamente al presente, nel tentativo impossibile di colmare un’assenza. Il ritorno di Ho segna, come detto, un ribaltamento di ruoli nel rapporto tra i due amanti: se fin dall’inizio Lai ha dato l’impressione di essere l’anello debole della coppia, quello succube ai capricci e alla volubilità del compagno, d’improvviso il ritorno di Ho lo pone in una condizione di superiorità, sovvertendo equilibri che si pensavano stabiliti. Lai si prende cura di Ho, che non è in grado di badare a se stesso: la dipendenza dell’uomo dalle sue attenzioni trasforma scopertamente la relazione in un rapporto di potere, che per Lai assume anche la dimensione del riscatto, dopo tanto tempo trascorso in balia degli umori del compagno. L’apice del loro rapporto amoroso Lai e Ho lo raggiungono nella scena del tango ballato nella cucina dell’Hotel Revera: per un attimo sembra che i due corpi viaggino all’unisono, sostenendosi l’un l’altro nella danza, e la tensione di un microcosmo che magicamente sembra riuscire a bastare a se stesso, per una volta, si scioglie in un bacio appassionato. Attorno c’è una Buenos Aires fumosa, inquadrata in pochi scorci assolutamente non “turistici”, una città che è sfondo per una storia che si consuma però soprattutto in spazi piccoli e chiusi (l’esterno del Big Sur, l’appartamento di Lai, il Chino Central). Quando Lai rivede l’uomo che ha picchiato Ho entrare al Big Sur con un nuovo accompagnatore, decide di vendicare il compagno e perde così il lavoro. L’uomo inizia quindi a lavorare al Chino Central, un ristorante di cucina cinese, all’inizio come lavapiatti e poi nella cucina, e qui si compie il secondo movimento, evidenziato dall’ingresso in scena di una seconda voce over, quella del giovane Chang, che altera il punto di vista privilegiato della storia, che fin qui era stato a favore del solo Lai: il rapporto tra Lai e Chang costituirà infatti lo snodo principale del racconto.
Come prevedibile, sembra che l’amore tra Lai e Ho non possa darsi se non come relazione di dominio: appena Ho guarisce ricomincia a cercare distrazioni in giro, e per Lai
“si apre nuovamente il tempo della dipendenza affettiva senza riscatto, dove dilagano l’ansia dell’abbandono, la gelosia e il vano desiderio di possesso” (S. Alovisio, in Wong Kar-Wai, ed. Il Castoro Cinema, pag. 121). Ogni flashback in bianco e nero di quello che la voce over di Lai definisce come “il periodo più bello del loro rapporto” rimanda in realtà a un amore vissuto quasi all’insaputa dell’altro: in ogni occasione, è Lai ad accarezzare il compagno mentre questi dorme, o a guardarlo riposare, senza che Ho possa vederlo, in una sorta di lacerante incomunicabilità che sembra essere alla base di questo rapporto amoroso, vissuto da due persone forse anche in grado di amarsi, ma incapaci di comunicarlo realmente l’una all’altra. Ho esce nuovamente di scena e la sua sparizione è pre-annunciata da una serie magistrale di elementi di montaggio: le immagini dell’appartamento con Ho che guarda la TV seguite da uno stacco in cui la stanza resta vuota preludono alla nuova separazione tra i due. Man mano che Ho riprende l’uso delle mani, e la sua salute migliora, il rapporto tra i due uomini ricomincia a incrinarsi. Lai cerca di trattenere l’uomo con ogni mezzo (ad esempio procurandogli più sigarette di quante egli riesca a fumarne, per evitare che decida di uscire durante la notte), ma è evidente come il rapporto tra i due stia nuovamente colando a picco. In particolare, l’esclusività ritrovata del rapporto di cura che si era instaurato tra Lai e Ho viene pian piano meno: Ho ricomincia a parlare di noia nel rapporto di coppia. Ricompare il bianco e nero, perché il tempo dell’intimità ritrovata è già di nuovo solo quello del ricordo, un tempo passato e distante: Lai ricorda le carezze date all’amante mentre questi dormiva. Ciò che non sa, ma che Kar-Wai mostra allo spettatore in una sequenza precedente, è come anche Ho restasse immobile, seduto e sveglio a guardare il compagno dormire. La frattura creatasi tra i due protagonisti è ormai troppo grande, preludio all’ennesimo litigio, il cui pretesto è ovviamente il passaporto di Ho. Quel movimento di apparente avvicinamento che aveva condotto all’idillio della scena del tango evolve in una nuova, dolorosa separazione: la splendida sequenza della deriva sul fiume è un’immagine onirica che spezza l’estetica monolitica del racconto rendendo tattile la sensazione di smarrimento di Lai.
Mentre il rapporto tra Lai e Ho si disintegra per l’ennesima (e ultima) volta, quello tra Lai e il giovane Chang cresce, venendo ad assumere un’importanza capitale per lo sviluppo del racconto. Si intuisce fin da subito una grande differenza, quando entra in gioco la nuova voce over: mentre quella di Lai usava l’imperfetto, che è il tempo della nostalgia, del ricordo e della distanza, la voce over di Chang è declinata al presente, e aderisce al racconto nel tempo del suo farsi. L’imperfetto di Lai è insieme il tempo del ricordo e quello della ripetizione poiché, in quello che appare a tutti gli effetti come un racconto ciclico (scandito infatti dai continui “ricominciamo” di Ho), l’accumulo e la ripetizione di elementi (sequenze, sensazioni, immagini) rappresenta il modo in cui il film costruisce una propria “memoria interna”. In questo meccanismo di ripetizioni si possono trovare chiavi interpretative che dicono molto più sull’evoluzione dei personaggi e della storia di quanto non facciano ad esempio i dialoghi: si pensi soltanto alle tre differenti partite di pallone giocate da Lai con Chang e gli altri colleghi sul retro del Chino Central. I tre diversi esiti di quegli incontri, ripresi tutti allo stesso modo, con la stessa luce e gli stessi colori saturi, raccontano meglio di ogni parola l’evoluzione del rapporto amicale tra Lai e Chang, eppure a uno sguardo distratto sembra di assistere alla ripetizione della stessa identica sequenza: se nella prima ripetizione Lai si fa cacciare dal gioco per il suo comportamento scorretto, nella seconda egli comincia a giocare insieme a Chang, a partecipare attivamente al gioco, e nella terza, raggiunta una grande complicità, i due arrivano perfino a vincere la partita, come se le inquietudini iniziali di Lai si fossero infine dissolte in una nuova pace interiore. È Chang a prendersi cura di Lai e a riaccompagnarlo a casa dopo una colossale sbronza, intuendo come l’amico abbia qualche problema di cui però non sembra voler parlare: in qualche modo, il ragazzo sembra in grado di cogliere la tristezza di Lai dalle sfumature della sua voce, e comprenderne appieno il dolore. Non è casuale, pertanto, che Lai evochi proprio con Chang l’immagine del faro di Ushuaia: in risposta, Chang propone a Lai di registrare un messaggio che egli possa lasciare al faro, che assume di fatto la stessa funzione che, nel film seguente, sarà ascritta alla leggenda del buco nell’albero, nel quale gli amanti potevano custodire per sempre i propri segreti inconfessati. Tutto ciò che Lai riesce a registrare è però solo un pianto, irrefrenabile. Quando i due amici si salutano, e Chang lascia Buenos Aires per proseguire il suo viaggio verso Ushuaia, l’abbraccio tra i due richiama alla memoria il tango ballato da Lai con Ho: tuttavia, laddove quel tango era la raffigurazione cinematica di un equilibrio amoroso precario, l’abbraccio tra i due amici costituisce invece, anche se all’inizio forse solo inconsapevolmente, il motore che rende Lai capace di camminare con le proprie gambe nel mondo, spingendolo al cambiamento. Uno step framing cerca di eternare l’ultimo sguardo tra i due, e quell’abbraccio che ha il sapore di un addio, distorcendo a dismisura il tempo oggettivo.
Il commento musicale affidato a due brani di Frank Zappa avvia l’ultimo tratto del racconto: Lai, rimasto solo a Buenos Aires, cerca conforto in compagnie occasionali, proprio come aveva fatto Ho. Ed è proprio Ho, tornato a prostituirsi, la persona in cui Lai si imbatte nei bagni pubblici, mentre consuma uno di questi incontri (
“avevo sempre pensato di essere diverso da Ho-Po Wing, ma quando si sentono sole, le persone sono tutte uguali”). È in questo momento che Lai avverte più fortemente la nostalgia di Hong Kong, e cerca di riallacciare i rapporti col padre: tenta quindi dapprima di chiamarlo, ma il padre gli chiude il telefono in faccia; si risolve quindi a scrivergli una lettera per gli auguri di natale, così da annunciargli il suo ritorno e il suo desiderio di “ricominciare” (ancora la tentazione della circolarità, un tratto caratteriale che Lai sembra prendere a prestito da Ho). Lai trova un impiego presso un macello, e raccoglie gli ultimi soldi necessari per lasciare l’Argentina e tornare finalmente a casa: la sua insonnia gli regala una potentissima nuova visione onirica, quella di Hong Kong vista al rovescio (in quanto agli antipodi dell’Argentina). Nel frattempo Ho torna a pressarlo per il passaporto, ma diventa presto chiaro che i due non si rivedranno mai più. Lai riesce infine a partire, abbandona il passaporto di Ho sul tavolo della sua stanza all’Hotel Revera e raggiunge le cascate di Iguazù.
Fin dall’inizio, l’amore tra Ho e Lai si è configurato come una sorta di fusione tra i due: ad ogni ricominciamo, Lai si abbandona al desiderio di Ho di smarrirsi nell’altro, desiderio che è sempre colto in una sorta di precario equilibrio con la paura di essere l’altro.
“Io non sono come te”, ripete Lai, così come, lungo In The Mood For Love, Su e Chow ripeteranno più e più volte “noi non siamo come loro”: eppure, nella solitudine che segue al nuovo abbandono, Lai capisce che “quando si è soli siamo tutti uguali”, e che sono davvero solo le scelte che facciamo a renderci ciò che si è. Quello dell’identità è uno dei sotto-testi più interessanti del lavoro: l’identità dei personaggi si costruisce in rapporto alle similarità e differenze con gli altri, si pensi ad esempio agli aspetti speculari del rapporto tra Chang e Lai rispetto a quello tra Lai e Ho, ma anche al confine sfumato tra le prerogative che si definirebbero femminili e quelle che considereremmo maschili nei tratti caratteriali di Lai e Ho. Lai è al tempo stesso femminile (dedito alla cura della casa e dell’amante, introverso) e maschile (violento nel rapporto sessuale, attivo poiché impegnato a lavorare mentre Ho vende il proprio corpo); Ho presenta caratteri femminili (il cliché della passività declinata come indolenza quasi patologica, la capricciosità e la volubilità) ma anche alcuni tratti che la cultura cinese attribuisce alla sfera dello Yang (estroversione, esuberanza ecc). La relazione amorosa, sembra dirci Kar-Wai, è un luogo in cui le identità si confondono e si rovesciano: se era Ho l’uomo dei “ricominciamo” a scandire tutte le sue molteplici indecisioni amorose, è un’analoga spinta a “ricominciare” che muove Lai nel tentativo di riallacciare il rapporto col padre. L’incontro con la diversità è anche un confronto con i luoghi della lontananza: la scelta di ambientare questa storia a Buenos Aires non era certo casuale, eppure l’alterità della capitale argentina è molto attenuata, perché di fatto la città è poco visibile. I luoghi chiave mostrati da Kar-Wai sono fondamentalmente il Big Sur, l’Hotel Revera, la locanda dei Tres Amigos e il Chino Central, ovvero, di fatto, tutti interni: le inquadrature destinate agli esterni sono quello che Cristopher Doyle, storico direttore della fotografia dei film del cineasta di Hong Kong, definì “empty shots”, fotografie di un’atmosfera sospesa tra velocità e stasi. Gli spazi si chiudono in risposta a un confronto con la materialità dei luoghi: Buenos Aires è spazio altro, distante ma vicino, e filmare la lontananza significa di fatto ricongiungersi con la prossimità, trovare quel che c’è di simile piuttosto che concentrarsi su ciò che resta di differente (si pensi alla sala da gioco del mahjong dentro il Chino Central: un pezzo di Cina precipitato dall’altro lato del mondo). Il viaggio diventa così un ritrovamento di sé, piuttosto che un allontanamento da sé: come nel tango, un equilibrio precario in cui ciascuno dei ballerini sostiene l’altro.
Una volta avvenuta la definitiva separazione tra Lai e Ho, il road movie riprende la strada interrotta all’inizio e, tra tanti falsi movimenti, ne produce almeno due reali. Kar-Wai segue le diverse parabole che interessano i tre protagonisti di questo triangolo amoroso, tre viaggi molto diversi tra loro per tempistiche ed esiti. Il viaggio di Ho si chiude sulle orme di Lai: dopo aver cercato invano di ricucire col compagno prima che quest’ultimo decidesse di lasciare Buenos Aires, Ho inizia a frequentare i luoghi di Lai (il Big Sur e le stradine adiacenti, l’Hotel Revera). Ad un tango ballato dall’uomo insieme a un compagno occasionale si sovrappone il ricordo del tango ballato con Lai, riflesso però in uno specchio, distante e freddo, irraggiungibile. Alla fine Ho occupa l’appartamento che fu di Lai, lo rassetta e lo restituisce all’ordine: quello che va in scena è l’ennesimo falso movimento che caratterizza il personaggio di Ho, volubile, indeciso e capriccioso, sostanzialmente incapace di trovare una condizione che lo soddisfi, un io profondamente scisso (è rivelatorio in questo senso il suo rapporto con gli specchi, e con la moltiplicazione della propria immagine, qualcosa che lo compiace lungo l’intera storia, ma che alla fine gli si ritorce contro per l’incapacità di trovarsi un “centro”). Il riavvicinamento a Lai è solo immaginario, perché l’ex-compagno è ormai fuori dalla sua storia, e ciò che Ho può fare è soltanto tentare di immedesimarsi nell’altro, sovrapponendo in qualche modo la propria immagine “sfuocata” al ricordo dell’amore. Una volta scoperto (e riaggiustato) il meccanismo che muove la lampada recante la decorazione delle cascate di Iguazù (palese metafora dell’illusione cinematografica), questo è tutto ciò che resta ad Ho del viaggio verso l’Altrove immaginato col compagno al culmine della loro storia d’amore: il ricordo (la relazione ormai chiusa) e un’immagine fittizia delle cascate. Ho lascia la scena con un pianto disperato (questa è anche l’ultima inquadratura di
Leslie Chang in un film di Kar-Wai: l’attore morirà suicida nel 2002), dopo aver compreso la propria definitiva solitudine e l’impossibilità di recuperare il rapporto amoroso con Lai.
Chi invece compie davvero il viaggio verso Iguazù è Lai che, dopo aver lasciato definitivamente Buenos Aires e prima di ripartire verso Hong Kong, decide di chiudere il cerchio della propria storia con Ho raggiungendo il luogo mitico che li aveva spinti a partire da casa. Quando infine raggiunge le cascate, la potenza della natura sembra travolgerlo: la sequenza è girata mettendo in soggettiva lo sguardo di Lai pur lasciando l’uomo dentro l’inquadratura. Le gocce d’acqua sono le sue stesse lacrime. La potenza della sequenza è pari a quella (immaginaria) mostrata all’inizio del film, quando la meta del viaggio non era che un Altrove irrealizzabile (e irrealizzato): cambia il commento musicale, all’inizio affidato a una languida versione di
Cuccuruccucu Paloma cantata da Caetano Veloso e ora rappresentato dalla melodrammaticità notturna del Tango- Apasionada di Astor Piazzolla, ma non cambia la vorticosa sensazione di chiusura in se stesso che sembra essere suggerita dalla macchina da presa di Doyle, intenta a roteare attorno alla propria posizione di equilibrio, come a voler avvolgere lo sguardo (e il corpo dello stesso Lai, non solo metaforicamente) in una spirale di dolore e sofferenza.
Il terzo viaggio è quello di Chang, che lo conduce infine alla solitudine pura del faro di Ushuaia, dove ascolta il messaggio inciso da Lai sul suo registratore portatile. Il termine del viaggio è anche per Chang il preludio all’unica conclusione possibile, il ritorno:
“all’improvviso, mi venne voglia di tornare a casa”, recita la voce over del ragazzo. Il faro di Ushuaia, come accadrà per il foro nell’albero di In The Mood For Love, allude a una leggenda: si tratterebbe di un posto dove gli uomini possono liberarsi delle proprie pene d’amore. Il pianto di Lai, a differenza di quello con il quale Ho esce dal film, viene sciolto nel vento della Patagonia, liberando l’uomo dalla sofferenza di una storia lacerata e giunta alla fine. Chang decide di tornare a Taipei, ma sulla strada del ritorno si ferma a Buenos Aires, sperando di incontrare di nuovo Lai per salutarlo un’ultima volta: torna alla cantina dei Tres Amigos, ma Lai è ormai partito. La camera lo coglie allo stesso tavolo che divideva con l’amico, seduto nella stessa posizione: ancora la ripetizione, che stavolta però serve ad accentuare e dare peso all’assenza di Lai.
Per chiudere il cerchio, Lai torna a Hong Kong, ma strada facendo si ferma a Taiwan (luogo che simboleggia ancora la separazione della Cina in molte Cine, oltre che ovviamente terra natia di Chang): qui lo raggiunge la notizia della morte di
Deng Xiaoping, altro spartiacque della Storia che entra per un momento nelle storie dei protagonisti, e qui affronta quello che resterà l’ultimo avamposto di una Cina “altra”, dopo il completamento dell’handover di Hong Kong. Lai si mette sulle tracce di Chang, sperando di ritrovarlo: ciò non accadrà, ma l’uomo si imbatterà nel chiosco del mercato di Taipei gestito dai genitori del ragazzo, dove troverà una foto di Chang, scattata ad Ushuaia, che porterà con sé a Hong Kong come ricordo. La separazione tra i due amici, dopo che ciascuno ha mancato l’altro a Buenos Aires come a Taipei, è in realtà quasi soft, e il finale aperto sembra stavolta addirittura ottimistico, come a lasciare spazio alla possibilità di un nuovo incontro. Questo aspetto, appena suggerito, rende significativamente diversi gli esiti della storia di Happy Together rispetto a quanto accadrà per i protagonisti di In The Mood For Love: se il tempo storico, la dimensione collettiva che fa da sfondo alla storia di Lai, Ho e Chang, costituisce un potente apparato metaforico che consente a Kar-Wai di riflettere su identità, distanza e ritrovamento di sé, senza tuttavia imporsi sul tempo privato, soggettivo dei suoi protagonisti, questa stessa fortuna non capiterà a Chow Mo-Wan e Su Lizhen, il cui delicato rapporto amoroso rimarrà schiacciato negli ingranaggi del conformismo e nelle trappole delle convenzioni sociali di un tempo ancora non maturo per accettare la sfida ai costumi sociali rappresentata dalla loro relazione clandestina. Chow Mo-Wan e Su Lizhen rimarranno tagliati fuori dalla prospettiva della Storia, che li macinerà incurante come un rullo, il segreto del loro amore affidato alle parole sussurrate da Chow tra le rovine di Angkor-Wat; Lai e Chang sembrano invece essere attesi, in qualche modo, da quella Reunion suggerita dal sottotitolo del film, e a loro Kar-Wai non nega la possibilità di un nuovo inizio. Forse anche per questo Happy Together è non soltanto la storia di un rapporto che muore, ma anche una formidabile macchina-oggetto-sogno piena di momenti profondamente onirici che riescono a rendere tattili e fisiche le sensazioni dei protagonisti (lo spaesamento rappresentato dalla deriva sul fiume dopo la separazione di Lai e Ho, il sole accecante nelle partite di pallone del Chino Central, la potenza devastante delle cascate di Iguazù, quasi irreale, come irreale è la solitudine dell’ultimo faro del Sudamerica in Ushuaia, o ancora la visione surreale di una Hong Kong rovesciata, sottosopra) e soprattutto permettono di non arrendersi al flusso di un tempo esterno, oggettivo, che cerca di divorare gli spazi dei protagonisti: per quanto disperato, un ologramma che attraverso l’alterità (i caratteri scissi dei personaggi, la distanza geografica che separa Hong Kong da Buenos Aires, dove comunque si può sempre trovare un posto dove giocare a mahjong) racconta di un confronto con se stessi, le proprie origini, il proprio io, non più eludibile quando il tempo sta per scadere (l’handover alle porte) e soprattutto necessario per riaffermare la sostanza più intima e vera di ciò che si è. Conoscersi è anche, soprattutto, riconoscersi, tornare a sé, scoprire se stessi negli altri e l’altro in sé: Happy Together riesce a raccontare, con la forza iconica dello sguardo peculiare del suo autore, tanto la terribile forza della solitudine quanto il tumulto di un mondo in trasformazione, che non sarà mai più lo stesso, senza rinunciare a tratteggiare, con un’eleganza che troverà estrema sublimazione nell’opera successiva di Kar-Wai, tutta la delicata complessità del sentimento che chiamiamo amore.

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