La ferita e la sutura: HEY WHAT (Low, 2021)

Il tredicesimo album di studio dei Low, HEY WHAT, pubblicato per Sub Pop lo scorso 10 settembre, è il terzo nella carriera della band di Duluth ad esser prodotto da BJ Burton: un discorso iniziato nel 2015 con Ones And Sixes e proseguito nel 2018 da Double Negative, un autentico capolavoro di minimalismo che riusciva a scavare ancora più a fondo la musica di Alan Sparhawk e Mimi Parker, tentando di sotterrare la melodia nella distorsione e più spesso nel glitch, riducendo all’osso gli orpelli (già molto ridotti) e riuscendo nell’impresa di restituire così un messaggio sonoro di potenza inaudita. Per una band attiva ormai da quasi trent’anni, l’idea che i Low riescano ad inanellare una tale serie di album così diversi, di così forte impatto e senza mai rinunciare allo scopo di spostare la propria musica sempre, in qualche modo, un po’ più avanti, fa girare la testa: fin dai primi lavori della band, quello che non è mai mancato a Sparhawk e Parker (accompagnati, di volta in volta, da altri musicisti, l’ultimo dei quali, il bassista e polistrumentista Steve Garrington, ha lasciato la band proprio l’anno scorso) è sempre stata la voglia di sperimentare qualcosa di nuovo, nella coscienza che i generi musicali non esistono, ma esistono forme e linguaggi che possono (e devono) essere adattati e plasmati alle necessità espressive. Ci vuole grande forza (e grande coraggio) per portare in fondo, fino alle estreme conseguenze, un percorso di questa valenza musicale e concettuale: ma da chi negli anni ha sempre dimostrato la capacità di ripartire (quasi) da zero ogni volta, non era lecito aspettarsi niente di meno. Oggi la band è composta dai soli coniugi Sparhawk, e con HEY WHAT raggiunge e supera una nuova frontiera lungo la strada che cerca di sposare lo slow-core malinconico e l’estremo minimalismo che ha sempre caratterizzato la musica dei Low con tremende esplosioni di rumorismo sperimentale e incursioni elettroniche che sommergono e trasfigurano spesso la stessa strumentazione, rendendo irriconoscibile la matrice naturale dei suoni. In qualche modo, HEY WHAT costituisce la terza installazione di una trilogia, il terzo pannello di un trittico, nel quale la spina dorsale elettronica e il clipping delle voci applicato in Ones And Sixes si riveste del noise e delle profonde distorsioni di Double Negative, e le liriche mescolano irrimediabilmente la riflessione personale con il piano collettivo, impregnato di un doloroso senso di apocalisse imminente: la disintegrazione dei rapporti umani, la ricerca della forza negli affetti trasforma quello che potrebbe sembrare come un semplice assalto sonoro alle orecchie degli ascoltatori in una miscela musicalmente complessa e stratificata, che esiste in qualche luogo sospeso tra le armonie vocali dei coniugi Sparhawk, impegnate a raccontare storie di delicata ricerca spirituale.
HEY WHAT inizia con una tempesta di statica dalla quale emergono le voci di Parker e Sparhawk per andare a intrecciarsi sull’ostico tappeto percussivo di White Horses, ossessivamente ripetuto (prodotto da un pitch estremo applicato alla chitarra elettrica del buon Alan): una ritmica a tratti organica, umana, e a tratti robotica e aliena, un beat che oscilla tra il suono e il rumore, tra la stasi e il mutamento, che è astratto e allo stesso tempo incredibilmente fisico, reale. I Can Wait si accende delicatamente dalla coda di White Horses, ed è ancora l’intreccio delle voci a creare lo spazio nel quale si accomoda presto un profondissimo drone di chitarra elettrica, un’onda anomala di feedback che distorce tutto attorno a sé ma resta, magicamente, sospesa al di sotto, come il ruglio del mare custodito dentro le valve di una conchiglia. La seguente All Night sboccia lentamente e si riversa come un’onda di marea sul fronte sonoro, in un loop che sembra mandato in reverse. La voce di Mimi tratteggia le melodie e si ritaglia gli spazi tra le divagazioni vagamente rumoriste dei passaggi strumentali che conducono al ritornello, scandito da un tappeto ritmico più marcato: All night/ You fought the adversary/It was no ordinary fight canta la Parker prima dell’ultimo refrain, devastato dai feedback temporaleschi della chitarra elettrica, spenti infine da un suono che è un po’ sirena e un po’ pianto di bambino. Disappearing, annunciata da percussioni stordite da un gating profondissimo, racchiude in sé tutto ciò che la musica dei Low è diventata (ma, in fondo, è sempre stata): una mini-suite di rara potenza sonora e allusiva, improntata a un minimalismo che non è più una semplice cifra stilistica, ma di fatto un’autentica grammatica che attraverso la desertificazione del suono permette di suggerire, immaginare e attingere a un orizzonte traboccante di possibilità. That disappearing horizon/ It brings cold comfort to my soul/ An ever-present reminder/ The constant face of the unknown, cantano in coro le voci nel finale del brano, e davvero non occorre altro: il suono enorme di una chitarra che, per quanto pesantemente filtrata, è tutta QUI e ORA, le percussioni distanti, poco più che una remota pulsazione, e le armonie incantevoli, impalpabili e insieme teneramente fisiche, delle due voci. Se si dovesse scegliere un unico brano che racchiuda in sé ciò che rappresenta la musica dei Low, Disappearing sarebbe una perfetta canzone-manifesto: in poco più di tre minuti e mezzo, un intero universo in un guscio di noce. Hey è invece una tavolozza più complessa, ricca di colori e sfumature: si costruisce su una ritmica quasi da dancefloor ma rallentandola fino a farla somigliare a un battito cardiaco, e in questo gravido senso di sospensione, che ricorda l’angoscia di un attacco di panico (We didn’t get past Michigan and Lake/ Before we found ourselves beneath the weight/ Told me that I never could contain/ Went back and wept in the car beneath the shade), si sviluppa fino a raggiungere territori free-form, strettamente confinanti con l’ambient, e fa un po’ effetto Treefingers, dove però ai synth si sostituisce la vocalità etera della Parker. La voce diviene qui uno strumento aggiunto, puro timbro che disegna un panorama di vasta desolazione prima di tornare a ripetere l’Hey del titolo e chiudere con quel HEY WHAT, che dà il nome al lavoro. Days Like These ha la forza e la pregnanza emotiva di un inno (intonato rigorosamente a due voci): dopo un inizio insolitamente pulito nei suoni, distorsioni, elettricità statica e scariche di feedback incorniciano la seconda metà del cantato, per sfociare nella parte finale del brano, largamente strumentale, in una sorta di riflessiva elegia ambient per bassi profondissimi e tastiere sognanti, baluginii di eternità che vagheggiano un’ideale quiete dopo la tempesta. When you think you’ve seen everything/ You’ll find we’re living in days like these è una coppia di versi che fa pensare immediatamente al mondo in cui viviamo, e parla a noi tutti, ispirata (per stessa ammissione di Sparhawk) a ciò che era diventata l’America di Donald Trump (come raccontato in questa bella intervista: “Era impossibile restare indifferenti a tutto quello che ci circondava: Trump e i fascisti erano ovunque: in tv, sui giornali, per la strada. Chiunque avesse un minimo di cervello era terrorizzato. È stato assurdo. Molte di queste canzoni partono dalla domanda: ‘Wow, come faccio a essere ancora vivo? Come ho fatto a non esplodere in un lago di sangue?’. Anche le proteste di Black lives matter ci hanno ispirato. Ci siamo resi conto che noi bianchi privilegiati abbiamo sempre una scelta, altri no. La pandemia invece è poco presente in HEY WHAT. Gran parte dei brani sono stati scritti prima, l’emergenza era in corso quando siamo andati in studio a registrare. Ma come sempre è stato un processo inconscio. Non è che ci sediamo e diciamo: ‘Ok, adesso scriviamo una canzone su questa cosa’. Non facciamo musica di protesta, non l’abbiamo mai fatta, non ne siamo capaci”). Lo strumentale There’s A Comma After Still ha il suono di un nastro che si riavvolge violentemente, un suono rotante e come d’interferenza: una Like Spinning Plates degli anni ’20 del nuovo secolo, un concentrato elettronico avvolto in un magma armonico sotterraneo dal quale germoglia il cantato di Don’t Walk Away, una magnifica elegia che racconta, in qualche modo, della forza duratura dell’amore (I have slept beside you now/ For what seems a thousand years), aprendosi nel crescendo in una piccola costellazione di suoni sintetici che si rincorrono tra i due ritornelli. Anche qui Sparhawk e Parker, pur tornando a riaffermare in qualche modo la centralità del loro cantato, non rinunciano a sabotare la forma-canzone, dando al brano una strano climax strumentale centrale, incorniciato tra i due ritornelli, a loro volta racchiusi tra la strofa iniziale e quella, meravigliosamente armonizzata dalle due voci, che chiude il pezzo. Il fade out di Don’t Walk Away viene spazzato via dalle chitarre feroci di More: due minuti di un’esplosione sonora di violenza incalcolabile, quasi una magmatica eruzione di dissonanze e distorsioni chitarristiche, appena ingentilite dalla vocalità etera di Mimi Parker. More, estratta come terzo singolo prima della pubblicazione del lavoro, è stata accompagnata da un video, diretto da Julie Casper Roth che, come recitava la press release, esplora metaforicamente “the Sisyphean task of dismantling structural oppression, through gender biases”: non sorprende che ne esca qualcosa di meravigliosamente precario e magicamente coinvolgente, una frattura e uno strappo prima delle delicate armonie vocali di The Price You Pay (It Must Be Wearing Off), che chiudono il lavoro. Quest’ultimo brano è una suite monolitica, potentissima, che tenta di esorcizzare i demoni di una vita (la depressione di Sparhawk) in un crescendo iconico, troncato improvvisamente dalla reiterazione del verso It Must Be Wearing Off: sette minuti di profondità abissale, quasi un lunghissimo gospel intarsiato dalle astrazioni elettroniche governate da Burton in cabina di regia.
Transitando dallo slowcore di
I Could live in hope al rock crepuscolare di Trust, dalle distorsioni di The great destroyer fino all’intimismo di C’mon e The invisible way, che hanno canonizzato un certo modo di esprimere il disagio esistenziale attraverso una partitura musicale, i Low sono giunti infine alla completa decostruzione del proprio immaginario sonoro, operata pazientemente nel trittico Ones And Sixes/ Double Negative/ HEY WHAT. La profondissima astrazione sonora sperimentata dalla band in Double Negative sfocia in questo ultimo HEY WHAT dentro un’affascinante alternanza di dissonanze, aperture liriche e improvvise mareggiate di violenza sonica: il discorso sul dolore che trovava compiuta espressione in una sorta di accecante terrorismo sonoro nell’album precedente, in questo HEY WHAT crea piuttosto un enorme maelstrom, una zona di buio quasi impenetrabile rannicchiata un passo indietro rispetto agli intrecci vocali di Sparhawk e Parker, vero centro emozionale del lavoro. Così, mentre Alan e Mimi cantano versi che parlano di disagio, paura, senso di umanità, del nostro posto del mondo e di questo stesso mondo che abitiamo, ogni giorno più irriconoscibile, la speranza si nasconde proprio nel titolo, HEY WHAT, che altro non è se non l’inizio di una domanda, alla quale manca sì il punto interrogativo ma che comunque si rivolge all’ascoltatore, al prossimo vicino e lontano, all’altro. Sembra generalmente accettato che le liriche di questo album siano improntate a una sorta di rassegnazione esistenziale, ma a ben guardare queste due parole, HEY WHAT, altro non sono che l’inizio di una domanda, e la domanda è qualcosa che presuppone un interlocutore cui venire rivolta: una domanda si trova sempre all’inizio di un incontro, e questa domanda non può che essere rivolta a comprendere se stessi o l’altro, i suoi bisogni, la sua natura. Per questo penso che HEY WHAT non sia affatto un album rassegnato, distaccato, un album sulla paura (pur partorito dentro un mondo che, in larga parte, è spaventoso, e pur parlando apertamente di questa paura), un album scritto da qualcuno che soffre ed è incapace di reagire: è piuttosto il contrario, è uno spazio aperto, una ground zero sulla quale forse lasciar fiorire un nuovo senso di umanità. Se penso a quel hey what come all’inizio di una domanda, mi torna sempre in mente il fulminante primo capitolo di Infinite Jest, del mio amato David Foster Wallace: […] Però alla fine, inevitabilmente, sarà qualche addetto non specializzato – un aiuto infermiere con le unghie rosicchiate, una guardia della Sicurezza ospedaliera, un precario Cubano stanco – che, mentre si affanna in qualche tipo di lavoro, guarderà in quello che gli parrà essere il mio occhio e mi chiederà: Allora, ragazzo, che ti è successo?. Tornare a parlarsi, tendersi la mano, comprendersi: decostruendo la propria musica fino al limite dell’astrazione più pura, i Low hanno saputo far emergere dalle dissonanze la pregnanza umana, troppo umana che da sempre ne accompagna l’evidente spiritualismo. HEY WHAT è forse un disco più accessibile rispetto a Double Negative, un disco che sutura le ferite aperte e brutalmente esposte nel precedente capitolo musicale della storia di Alan Sparhawk e Mimi Parker; ma, nonostante questo (o forse, paradossalmente, proprio in virtù di questo), è un album non meno estremo nella sua volontà di non accettare compromessi al ribasso, e di non cedere di fronte alla necessità di affrontare a viso scoperto il dolore, la debolezza, la paura. Dentro questa musica, dentro i suoi tempi e le sue armonie, si entra solo con l’amore, la cura e l’attenzione, le stesse che occorrono per finire di formulare quella domanda.

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