La "peste fantastica": Nosferatu, Phantom der Nacht

Realizzato nel 1979, Nosferatu, Phantom der Nacht occupa un posto tutto speciale nella filmografia herzoghiana: trattasi infatti della prima opera del cineasta tedesco finanziata e prodotta con l’appoggio di una grande casa di produzione (la francese Gaumont) e distribuita dal colosso hollywoodiano Fox. Le disponibilità economiche aumentano, permettendo ad Herzog di ingaggiare attori importanti (oltre al consueto Kinski, pensiamo solo alla splendida Isabelle Adjani e a Bruno Ganz), ma non per questo Nosferatu può considerarsi un’opera impersonale, tutt’altro. È infatti con questo film (e col praticamente contemporaneo Woyzeck, ispirato all’omonimo dramma di Buchner, le cui riprese iniziano solo pochi giorni dopo la fine delle riprese di questo Nosferatu) che Herzog riprende per la prima volta esplicitamente uno dei capisaldi della cultura (in questo caso cinematografica) tedesca, quel Nosferatu, eine Symphonie des Grauens del 1922 di Murnau, nel tentativo di gettare un ponte e rimettersi in collegamento diretto con un passato “spezzato” dalla barbarie nazista. Il cinema espressionista tedesco è il padre, ed Herzog si sente in qualche modo figlio di questa esperienza artistica e cerca, con questo suo lavoro, di ricollegarsi direttamente all’opera di Murnau (presa a fondamento e a manifesto di un certo modo di fare cinema, precedente alla “stabilizzazione hollywoodiana” [cfr. Grosoli, Werner Herzog, ed. Il Castoro Cinema]). Accanto all’evidente (per alcuni preponderante e fastidiosamente “accademico”) rigore filologico mostrato da Herzog nell’attuazione di questa nuova impresa (che conduce a ricalcare letteralmente l’organizzazione spaziale e la struttura di alcune inquadrature del film originale di Murnau, nella convinzione, peraltro fondata, che difficilmente se ne possano pensare e “trovare” di migliori) emergono e trovano spazio però tutte le tematiche classiche tanto care all’autore monacense. Purtroppo, sulla versione del film uscita in alcuni paesi (tra cui l’Italia e gli Stati Uniti), pesano i tagli inspiegabili operati dalla Fox per un totale di circa quindici minuti: senza una vera necessità o una qualche ragione reale, spariscono così singole inquadrature in conclusione di alcune sequenze ed è in pratica cancellato tutto ciò che riguarda e approfondisce la figura, fondamentale per Murnau come per Herzog, di Renfield, servo del signore delle tenebre, che ne esce ridotto ad un’ignobile macchietta. Fortunatamente, l’edizione in dvd della RHV uscita come cofanetto composto da due dischi ripropone il film senza tagli nella sua versione originale tedesca, con sottotitoli: a questa versione ci si riferirà in questo commento.
Jonathan HarkerInnanzitutto, si è detto del rigore filologico col quale Herzog riprende il modello di Murnau. In realtà, quello che del Nosferatu muto del 1922 affascina il cineasta monacense è la capacità di suggerire, con il semplice brillante ausilio degli spazi e dei giochi di luce e ombra, la sensazione di un’angoscia e il senso di una tragedia imminente: molte sequenze riproposte da Herzog (in particolar modo l’attacco del vampiro a Jonathan nel castello sui Carpazi o il conclusivo “amplesso mortale” che il non- morto intrattiene con la sua vittima sacrificale Lucy) sembrano voler restituire (seppure con l’ausilio di ulteriori strumenti inaccessibili all’epoca, come il colore ed il sonoro) proprio questo “senso” all’inquadratura, una profondità spaziale talmente rigorosa da saper inquietare anche uno spettatore ormai assuefatto ai giochi di prestigio degli effetti speciali. In realtà quest’opera non può affatto considerarsi “fedele” agli stilemi del genere horror, nel quale indubbiamente avrebbe potuto ascriversi: nella riproposizione di “schemi narrativi e segni figurativi decifrabili con tale immediatezza da risultare dei topoi ormai penetrati nell’immaginario popolare” (Grosoli, op.cit.), che diviene particolarmente evidente quando viene ripreso “fedelmente” il testo originale di Murnau, non si ravvisa mai l’intenzione di rispondere “al bisogno di quelle emozioni primarie” (Grosoli, op.cit.), quali la paura, la suspense o l’inquietudine, che sono generalmente identificate col genere horror. È evidente come ad Herzog non interessi granché di Lucycostruire un film di genere: non si tratta solo di un remake, non si presentano “variazioni sul tema” (apprezzabili da un punto di vista “citazionistico” o comunque funzionali al riconoscimento dell’apparato “standard” su cui si fonda un film horror o fantastico). Herzog vuole, come già detto, ricollegarsi al testo di Murnau come all’autorità assoluta, “in modo da rifondare su questa base mitica la legittimità del proprio fare cinema e più in generale del fare cinema oggi proprio al di fuori di schemi linguistici rigidamente codificati” (Grosoli, op.cit.).
Facendosi forte del patrimonio iconografico e figurativo di Murnau (come in Woyzeck si farà forte del testo di Buchner), Herzog tenta di dare basi al proprio modo di fare e vedere il cinema. Nosferatu, Phantom der Nacht si propone dunque come tentativo di visualizzazione immediata dell’elemento fantastico, come contatto fisico con esso. Herzog rappresenta per immagini l’irruzione del fantastico nella realtà, nel mondo reale che abitiamo ogni giorno. Nosferatu, il non-morto, è l’archetipo che incarna al meglio questo elemento: egli penetra il reale come il vascello “Demeter”, sul quale giunge dalla Transilvania, penetra le viscere della cittadina di Weimar, ricostruita in Olanda, a Delft, andandosi ad incagliare (in una sequenza meravigliosamente immaginifica ed allucinatoria, che rimanda direttamente alla visione del vascello sull’albero in Aguirre, Furore di Dio) in uno dei suoi canali, in qualche modo “fecondandola”. Nosferatu è il seme del fantastico, che feconda e distorce definitivamente il reale. Tutto ciò che lo circonda è avvolto, fin dall’inizio, in un alone di fascinazione, in un senso di spostamento della percezione, come un’alterazione della normalità. Nosferatu porta con sé tutto ciò che della natura è incontrollabile e violento, un orrore ed una diversità ancora più agghiaccianti perché, appunto, “naturali”, una carica “erotica” e un magnetismo folle che non possono che turbare e sedurre. Ci sono due movimenti nel film: la discesa di Jonathan verso il regno del fantastico (splendida la sequenza che la descrive, sulle note prima dei Popol Vuh, autori della meravigliosa colonna sonora, e poi del Preludio a “L’oro del Reno” di Wagner), verso l’irreale- realeNosferatu e Jonathan del mondo del vampiro e delle ombre, ed il viaggio che questi intraprende verso di noi e che noi, seguendo Jonathan, abbiamo deciso di intraprendere a nostra volta verso di lui. Nosferatu è l’elemento di disturbo che esce dalle regole codificate e le rende vecchie ed inutili, rivoluzionario perché ci costringe a cambiare la nostra percezione. Una volta che il fantastico insemina il reale tutto cambia e si rovescia: la pulsione, la violenza e l’orrore naturali incarnati dal vampiro si impadroniscono del mondo, fino alla “liberazione definitiva, la vittoria dei sensi e della visione esplosa” (Grosoli, op.cit.), rappresentata dalla scena della peste che colpisce Weimar riducendo alla follia, e costringendo alla resa, l’intera popolazione, mostrataci da Herzog nel bel mezzo di una sorta di rito orgiastico in onore alla vita che le sta sfuggendo di mano. Nosferatu rompe tutti gli schemi, nella diegesi e, metalinguisticamente, nel concetto stesso di genere e nell’economia del film di Herzog. In realtà non è nemmeno qualcosa di reale, non esiste a meno che non si voglia vederlo (come raccontano gli zingari a Jonathan, opinione confermata dall’inquadratura di alcune rovine su un promontorio laddove dovrebbe sorgere il castello, e che poi dal castello stesso sono sostituite al momento dell’arrivo alla corte del vampiro), e lo spettatore, sprofondando con Jonathan verso una natura sempre più estranea, folle, malata, accetta questa sua esistenza. È allora, nel corso del viaggio del giovane agente immobiliare, che la figura del vampiro inizia a prendere consistenza: un viaggio che è anche il viaggio di chi guarda, e che è destinato ad incrociare il viaggio di Nosferatu stesso verso lo spettatore e il mondo reale. Kinski, da par suo, offre una prestazione eccezionale proponendo un Nosferatu solcato, svuotato, prosciugato da una passione e da un dolore sovrumani che sono però, anche, terribilmente umani, ed in quanto tali ancora più affascinanti: il suo vampiro è un mostro sensibile, un essere senziente a tutti gli effetti, dall’esacerbata capacità percettiva. Egli sente ad un livello di profondità ed amplificazione ancora una volta superiore alla media, ed è in questo un personaggio definitivamente herzoghiano, nel quale alla follia si affianca un’umana stanchezza, la percezione sofferta della solitudine ed il disperato bisogno di placare la propria fame d’amore, destinato ad un misero fallimento. È proprio la debolezza del vampiro, quella incrinatura che lo rende “umano, troppo umano”, a Nosferatunegargli l’ultimo barlume possibile di umanità, di felicità, di salvezza, di vita: trattenuto con l’inganno da Lucy fino all’alba, il vampiro cade trafitto da un raggio di sole, come il Mito e l’archetipo vogliono (vedasi ancora il commento di Grosoli). Ma il cerchio ormai è compiuto, e un Jonathan vampirizzato parte a cavallo sotto un cielo plumbeo che si confonde col mare, la voce divenuta la voce del vampiro (almeno nell’edizione italiana), ormai trasformato egli stesso, “fantastico nel fantastico”, che l’ultima inquadratura, sulle note del “Sanctus” di Gounod, sembra evocare. Con Jonathan, con la liberazione del fantastico di cui egli è ormai l’espressione, assistiamo alla legittimazione della missione del fare cinema secondo la personale visione di Herzog: come chiosa Grosoli nella sua analisi del film, sottolineando con una frase azzeccata il senso profondamente personale dell’opera, “il cinema non può cessare di porsi come la “peste fantastica” che apre a nuovi orizzonti del sentire”.

6 Risposte a “La "peste fantastica": Nosferatu, Phantom der Nacht”

  1. Post perfetto. Che altro c’è da aggiungere? Nulla. Mi piace la visione di Herzog nella caratterizzazione del male, ancor più drammatica, pesante e sofferta rispetto a quella già ottima (ed originale) di Murnau.

    Una storia senza tempo che aspetta solo di essere raccontata, attraverso il Cinema, in modi inediti e sperimentali, oltre che personali. Ed Herzog c’è riuscito alla perfezione.

  2. @ut0pia: cercalo, credo che non te ne pentirai… la visione di questo film mi sconvolse fin dalla prima volta, avevo solo 15 anni…

    @richm0nd: che dire? Concordo con te, Herzog è riuscito alla perfezione nella lettura di questa storia e nella sua riproposizione. Questo resta uno dei miei film preferiti.

  3. Perfetta l’analisi del film, nulla da dire in merito! : )
    Ti scrivo per una curiosità: sapresti dove/in che modo reperire l’ormai irrecuperabile monografia su Herzog di Grosoli?
    Dalle citazioni sembra non meno interessante!

  4. Ciao, e innanzitutto grazie per aver dedicato del tempo a queste mie righe (e per il commento).
    Quanto alla monografia di Herzog, ti suggerisco senz’altro di recuperarla: è un’analisi veramente approfondita del lavoro di questo autore, ricca di riferimenti, spunti, riflessioni interessanti. Io non sono un addetto ai lavori nell’ambito del cinema, ma personalmente ti posso dire che l’approccio di Grosoli nell’analisi dell’opera cinematografica mi ha insegnato molto, e ha segnato molto il mio stesso approccio all’idea di “analisi critica”.
    Purtroppo reperire la monografia, come giustamente sottolinei, è tutt’altro che facile. Personalmente, sono stato molto fortunato: la biblioteca del paese in cui vivo possiede una copia della prima edizione del 1981, che arriva fino a Woyzeck e introduce a Fitzcarraldo, le cui riprese all’epoca non erano ancora concluse. L’ho letta per la prima volta a 15/16 anni, ora che ci ripenso, e diverse volte in seguito. Esiste anche un’edizione ampliata, pubblicata per la prima volta credo nel 1994, a firma di Grosoli e di Elfi Reiter, la quale ha aggiunto gli ultimi due capitoli, e che copre il lavoro del cineasta tedesco fino ai primi anni ’90 (fino a Rintocchi dal Profondo, che è del 1993). Ritengo che i capitoli aggiunti in questa “nuova” edizione non siano purtroppo all’altezza del resto del lavoro, molto più documentato e approfondito nell’analisi. Sono riuscito a reperire questo testo solo un paio di mesi fa, ancora una volta grazie a un prestito bibliotecario.
    Non credo ci sia la possibilità di avere delle ristampe dell’opera a breve, quindi il mio consiglio è quello di rivolgerti a una biblioteca ben fornita (anche se quella del posto in cui vivi non dovesse possederne una copia, il prestito interbibliotecario è sempre possibile, ma puoi informarti al riguardo).
    Se sei interessato potrei consigliarti anche un altro testo, uscito pochi anni fa (2008), scritto da Grazia Paganelli e intitolato “Segni di vita. Werner Herzog e il cinema”. Non si tratta di una monografia, ma di un’intervista a Herzog suddivisa per capitoli, ciascuno riguardante una tematica o un aspetto del suo cinema; ogni capitolo è inoltre arricchito da una breve analisi che collega il tema dell’intervista alle opere dell’autore. L’approccio è profondamente diverso da quello della monografia di Grosoli, come ovvio, ma il libro è interessante e permette di fare collegamenti intelligenti tra i vari film. Non so se questo testo sia ancora reperibile, francamente, ma qualche biblioteca sicuramente lo avrà.
    Un altro testo interessante, che poi è sempre un’intervista all’autore, a cura di Paul Cronin, si intitola “Incontri alla fine del mondo- Conversazioni tra cinema e vita”, è edito da Minimum Fax e dovrebbe essere più facilmente reperibile: ritengo sia un testo interessante.
    Poi ovviamente ci sono i testi autografi di Herzog, che sono molto interessanti per capire come lui lavori ai suoi film (penso soprattutto a “Sentieri nel ghiaccio”, edizioni Guanda, se non erro, che ha tutt’altro argomento ma è comunque illuminante, e a “La conquista dell’Inutile”, edito Mondadori, che è in pratica il diario tenuto da Herzog durante la lavorazione di Fitzcarraldo), e che si trovano tranquillamente in commercio, ma questa è un’altra storia.
    Grazie ancora per la visita, spero di esserti stato d’aiuto!

  5. Grazie a te per la risposta!
    Dei libri che segnali ho soltanto il libro-intervista “incontri alla fine del mondo” e confermo che è interessante!
    La libreria più vicina che è fornita – ho appena verificato – possiede un volume dell’edizione del 1981 del libro di Grosoli!
    Grazie ancora!

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