March Round-Up: sole, estate, alieni e poesia

Nato come duo, composto dal cantante, chitarrista e pianista Martin Johnson e dal multistrumentista Kirin Callinan, dopo la dipartita di quest’ultimo il progetto The Night Game è diventato una one man band e il 5 marzo di quest’anno ha dato alle stampe il secondo album, Dog Years. Lo potremmo definire un album di alternative-pop-rock (ne parlerò meglio in un post dedicato), caratterizzato da arrangiamenti in zona 80’s-90’s, lungo il quale Johnson si dimostra soprattutto un affascinante narratore di storie. Per realizzare Dog Years, il cantautore americano si è avvalso di alcune collaborazioni eccellenti: per esempio in questo meraviglioso pezzo che vi segnalo, UFO (e a dire il vero in tutto il resto dell’album), si incontra Sean Hurley, che suona splendidamente un Music Man Stingray fretless degli anni ’90. Ne nasce una ballad malinconica, delicata e un po’ underdog che non si può fare a meno di amare.

Inutile ripetersi, è chiaro che il nuovo album dei The Olllam è una delle cose che aspetto di più in questo inizio del 2021: qui c’è il secondo singolo estratto, Stream of Silllver, dove accanto alle uilleann pipes di Tyler Duncan e John McSherry c’è ovviamente il groove trascinante di Sua Maestà Joe Dart e il moto ondoso del Fender Rhodes di Joe Hettinga, e la combinazione di questi elementi crea la perfetta colonna sonora per un tramonto estivo, da ammirare rigorosamente durante un viaggio. Particolarmente abbacinante il bridge, dominato dai bassi aggressivi del buon Joe e da un frastagliato solo di Hettinga al Rhodes: tradotto, qui c’è qualità da vendere (ma lo sapevamo già).

A pochi mesi dalla pubblicazione del loro ultimo album, gli Everything Everything ritornano con un nuovo singolo, Supernormal, che è un po’ un concentrato del sound della band di Manchester: la vocalità irrequieta e affascinante di Jonathan Higgs supportata dalla macchina ritmica messa in moto dal basso di Jeremy Pritchard, dalle pelli di Michael Spearman e dallo strumming visionario di Alex Robertshaw, un ritornello killer e una strofa serratissima inanellate a raccontare degli eccessi, delle dipendenze e dell’ultra-stimolazione che accompagna le nostre vite in una società sempre più ipertrofica. Un po’ come accadeva in RE-ANIMATOR, l’eccesso, la mediocrità, i mostri creati dalla società e la sfiducia verso quest’ultima sono i temi principali di questo brano, che proprio durante le session dell’ultimo album era stato composto (e ne condivide anche l’estetica artificiale e sarcastica del video e dell’artwork) salvo poi essere escluso dalla scaletta poco prima dell’uscita. E adesso eccolo qui, a completare il quadro.

Anche Woody and Jeremy (al secolo, Woody Goss, tastierista geniale dei Vulfpeck, e Jeremy Daly, voce e paroliere) torneranno in questo 2021 con un nuovo album, che segue l’esordio di Strange Satisfaction, pubblicato nel 2020. L’album si intitolerà Gravy in My Coffee e vedrà la luce il prossimo 4 Giugno; intanto, in questo primo singolo estratto, Rolling in the basement, c’è Joe Dart (sempre lui) che scuote letteralmente il pezzo con una delle sue classiche, irresistibili linee di basso, il consueto testo stralunato cantato da Jeremy Daly, e i synth stranianti governati dal genio di Woody Goss. Sembra di sentire una maggiore complessità nella scrittura e negli arrangiamenti rispetto ai sette brani di Strange Satisfaction, e quindi la curiosità per il lavoro completo sale. Intanto ci si può scaldare con questo party nel seminterrato di Daly: Turn down the tv, turn up the bass amp/ We’re gonna be rolling, rolling in the basement.

Your Saint è un singolo estratto dall’album Breathe Deep del chitarrista jazz londinese Oscar Jerome, pubblicato nel corso del 2020, nel quale mi sono imbattuto per caso (e in evidente ritardo, tanto per cambiare) e che mi ha letteralmente rapito: parte da un lieve arpeggio della chitarra di Jerome, sul quale fluiscono i versi del poeta e rapper Brother Portrait, e poi si trasforma in una cavalcata multiforme, squassata dai fiati, dal tribalismo delle percussioni e da un refrain in cui voci effettate disegnano un ritornello la cui orecchiabilità è quasi sorprendente. Negli oltre sei minuti di questa suite si attraversano sonorità che spaziano dal folk al jazz, dalla musica africana al rap, e la valenza politica del testo di Brother Portrait (valenza politica che caratterizza l’intero Breathe Deep, pieno di momenti potentissimi sia dal punto di vista sonoro che contenutistico, tipo Sun for Someone), una denuncia profondissima della società del consumo, costituisce un formidabile valore aggiunto; il video, poi, è splendido, e ve lo lascio qua di seguito.

Gli Oklahoma sono una band alternative proveniente da Minneapolis, Minnesota (e va da sé che già l’evidente casino geografico non possa che divertire e farli restare simpatici anche ad un ascolto distratto), con un LP all’attivo (Fever Dream, del 2019), e un secondo album e un EP in rampa di lancio per questo 2021. Non li avevo mai sentiti nominare, poi ci sono cascato sopra per caso e soprattutto perché il basso in questo brano lo suona Ian Martin Allison, di cui ho già parlato nel Round-Up del mese scorso, e vi assicuro che questa non è una notazione di poco conto perché in Turn it all back il basso FA letteralmente il pezzo. Perché possiate capire meglio quello che intendo vi lascio sotto un post di Instagram che rende il tutto plasticamente chiaro: quello che Allison fa con questi tre minuti è prenderli, plasmarli e stravolgerli completamente, precipitando il brano in un universo parallelo a metà tra Blade Runner e l’electro-alternative dei Desire (tanto per fare un nome), e il tutto armato soltanto di delay e un filo di distorsione. Turn it all back rappresenta per me un esempio calzante di quanto un musicista possa plasmare un brano, portandolo in una direzione completamente diversa da quella che, a sentimento, si potrebbe immaginare la band avesse intenzione di dargli: ne esce una ballad futuribile, incalzante e che resta piantata nella memoria. Chapeau, uno dei miei momenti preferiti del marzo appena concluso.

Il ritorno degli Hiatus Kaiyote, band jazz-funk-soul-r’n’b proveniente da Melbourne e guidata dalla vocalità e dalla presenza scenica di Nai Palm, a sei anni di distanza dallo splendido Choose Your Weapon (2015), prende la forma di questa collaborazione con il compositore e cantante brasiliano Arthur Vorecai: le ritmiche spezzate che caratterizzano da sempre il sound della band sposano qui un atmosfera dapprima romanticamente soul, poi tesa e magmatica, e Get Sun, singolo di lancio per il nuovo album Mood Valiant, in uscita il prossimo giugno, travolge l’ascoltatore aggiornando il sound del quartetto australiano ad un maelstrom pulsante di bassi groovy funambolicamente coniugato ad un intreccio di archi, un r’n’b che sconfina nell’urban facendosi sotterraneo e cupamente affascinante. Diciamo che, se l’appetito vien mangiando, questo qua come antipasto non è niente male…

A questo singolo della cantante brasiliana Mamah sono arrivato grazie al bassista Paulo Antônio, che ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere su Instagram (e del quale vi ho già parlato su questo blog): una costante fonte di ispirazione per me, come bassista, e un piacevole interlocutore per tutto ciò che riguarda il campo vasto della musica. Qui siamo di fronte a poco più di tre minuti di un rock suadente con qualche venatura blues, che si regge sui bassi di Paulo Antônio, incalzati dal drumming di Ravy Bezerra e dalla chitarra di Alexandre Marreta, e sul dialogo tra le tastiere suonate da Rafael Ramos e la voce della stessa Mamah: se, come me, vi fate prendere dalla saudade appena sentite un minimo accento portoghese, qui di certo non resterete delusi, ma il brano è molto più di una curiosità world-music, e particolarmente affascinante è l’intermezzo strumentale guidato dal synth, che dilata l’atmosfera e spinge il pezzo in territori vagamente jazzistici (sottolineati ancora dalle note sparpagliate suonate da Ramos). Primo assaggio di un LP a venire, Meia Culpa è un brano da ascoltare tutto d’un fiato, breve e sorprendente.

Pino Palladino non ha certamente bisogno di presentazioni, e men che meno delle mie: per l’album Notes with Attachments, uscito a Marzo, il leggendario bassista gallese ha formato un sodalizio col chitarrista e songwriter californiano Blake Mills. Il risultato è un lavoro straniante, interamente strumentale, caratterizzato da un sound sospeso, elusivo, ispirato dalle pulsazioni della musica nera (l’Africa, Cuba, il funk) e al tempo stesso dilatato fin quasi a sfibrarne il tessuto ritmico, in un miracoloso e minimalista lavoro di sottrazione. Tutto quello che vi serve sapere è contenuto nella titletrack, che vi lascio qua: un bordone da pelle d’oca del magico fretless del maestro di Cardiff, fiati che crescono alla maniera di uno squarcio di glaciale jazz nordico, spazi che si aprono e si chiudono come onde di un mare lento e inesorabile, ambient senza bisogno dell’elettronica. Del resto parlerò in un post a parte, intanto godetevi questi due minuti scarsi di pura poesia.

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