May Round-Up: Visioni

Con un certo ritardo (per il quale, ovviamente, mi scuso) giunge infine il consueto Round-Up mensile, dedicato alla musica ascoltata qua e là durante il mese passato, e a un album immortale che ha compiuto 50 anni proprio a Maggio.

“Tiny instruments, Dave Koz edition”: dopo molti anni di collaborazioni (in particolare con la casa madre Vulfpeck) e ammirazione reciproca, il sassofonista smooth-jazz Dave Koz e Cory Wong hanno infine dato alle stampe il loro primo disco, The Golden Hour, pubblicato lo scorso 11 giugno. Questo Today, invece, pubblicato lo scorso mese come apripista dell’album, è un funk slow, quasi shuffle, in cui il piccolo sax soprano di Koz è contrappuntato felicemente dai fiati degli Hornheads, arrangiati dal solito, grandioso Michael Nelson. Koz cita allegramente Al Green e Four di Miles Davis, introducendo piccoli easter egg dentro un fraseggio di fluidità e articolazione magiche, e al resto ci pensa il macchinario funky del buon Cory Wong: inutile dire che su queste pagine ne riparleremo molto presto…

È ormai chiaro come i The Olllam abbiano deciso di farci avvicinare al loro prossimo lavoro un pezzetto alla volta, con grandissima gradualità (complici ovviamente le difficoltà tecniche dovute all’ultimo anno e mezzo di pandemia globale): nel mese di Maggio, il tassello di avvicinamento proposto dalla band di Tyler Duncan, John McSherry e Michael Shimmin, accompagnati come sempre da Sua Maestà Joe Dart, è stato With Pure Crystalll Teeth, una piccola suite di musica cinematica, fortemente evocativa, costruita geometricamente su un insieme densissimo di elementi ritmici, dominati al solito dal basso del buon Joe. With Pure Crystalll Teeth è un brano gonfio di suggestioni, fatto di un’alternanza ipnotica di pause e ripartenze: l’ennesima conferma delle grandi aspettative per l’album, ormai prossimo all’uscita.

È un riff di guimbrì, strumento cordofono tipico dei popoli Gnawa (diffuso in tutto il Maghreb, e in particolare in Marocco) ad aprire il secondo singolo estratto dal primo album solista di Michael League, basso e mente degli Snarky Puppy: In Your Mouth, questo il titolo del brano, riesce a concentrare in circa 5 minuti musica etnica africana, atmosfere epiche e sospese, progressioni orgiastiche di synth e moog e un gusto profondamente pop per la melodia. Grande, grandissima classe, ma d’altra parte qui parliamo di un artista che gioca in un campionato completamente diverso rispetto a molti altri.

Non una canzone, ma un piccolo EP, secondo tassello di una serie più lunga che il musicista losangelino Joey Verskotzi (in arte semplicemente Verskotzi) prevede di dare alle stampe nel corso di questo 2021: per usare le sue vive parole, “As an artist, I create from the mindset of albums and full bodies of work. But in the fast-paced modern music industry where singles are the focus, this ARC series is my way of maintaining artistic integrity while being conscious of the parameters and more literally, the algorithms musicians are working within today. Each ARC will be a 3 song EP that embodies a full listening experience and cohesive theme. The three songs will run as an intro, single, and outro, typically all in the same key and acting as a snapshot of an album in under 10 minutes.” In Arc002 l’introduzione è affidata alle tinte tenui di Binge, una specie di dream-pop che si infrange su un finale rumorista, preludio allo strano R’n’B lo-fi di Substances, brano che mette in primo piano con molta onestà e lucidità la storia di dipendenza dall’alcool (e successiva disintossicazione) del suo autore. Ad arricchire Substances, c’è innanzitutto il basso elettrico di Ian Martin Allison, che conferma di nuovo (se mai ce ne fosse stato bisogno) la propria innata capacità di rendere sempre speciale tutto ciò che tocca. Chiude questo percorso l’elettronica sperimentale di Dry, un brevissimo brano profondamente stratificato e stravolto dal gating. Con Arc002, Veskotzi vi ruberà poco meno di 8 minuti, ma non rimpiangerete di averglieli concessi.

Tra molte parentesi, voglio ricordare che lo scorso mese, il 21 maggio per l’esattezza, ha compiuto cinquant’anni un disco che è (senza se e senza ma), un autentico capolavoro: What’s Going On, del grande Marvin Gaye. Al momento della pubblicazione del singolo che dà il titolo all’album, la stella di Marvin Gaye splendeva già altissima nel cielo della Motown, storica casa discografica della scena soul di Detroit (uno di quei casi in cui il nome di un’etichetta è arrivato a definire un mood, uno stile, in particolare dal punto di vista ritmico, un vero e proprio genere musicale): Gaye aveva raggiunto un successo enorme per il proprio falsetto portentoso, per la propria eleganza e per il numero spropositato di duetti con voci femminili della stessa Motown, una vera e propria gallina dalle uova d’oro per un’etichetta votata al successo commerciale (occhio, guai a giudicare questo orientamento con parametri odierni: i prodotti della Motown, a differenza di larga parte del ciarpame variamente pop odierno, erano frutto di artisti di grandi qualità tecniche, allineavano musicisti di mostruosa abilità e nascevano dalla penna di autori dotati di grazia, gusto e profondissima proprietà di linguaggio, come dire un po’ la Serie A del pop commerciale, e non a caso il segno lasciato da molti di questi prodotti nella musica di qualità del giorno d’oggi è spesso profondissimo e tangibile). Così, all’alba dei ’70, mentre lo zio Joe va a perdere l’innocenza (e la guerra) in Vietnam, mentre il governo seda nella violenza le rivolte popolari, la frattura sociale tra il ghetto e l’uomo bianco si incancrenisce fino a farsi insanabile (cancrena che, come ben sappiamo, continua tutt’oggi) e le droghe iniziano a diffondersi ovunque, proprio in quel momento accade che il buon Marvin, il “nero che piace ai bianchi”, se ne esca con una canzone esplicitamente politica, appunto What’s Going On: da un minuto all’altro sembra sparire la voce di mille canzoni romantiche e comparire un nuovo autore impegnato, accompagnato da una una musica che parla dell’oggi, delle tensioni, delle contraddizioni, ma che lo fa con quella stessa grazia soprannaturale della vocalità del suo autore, il marchio di fabbrica della produzione dell’artista. What’s Going On, il singolo di lancio, è un brano autoprodotto, e la Motown ovviamente storce il naso quando lo ascolta; tuttavia, il successo commerciale è tale che a Gaye viene concesso un mese per tirare fuori un album che ruoti intorno a quel primo singolo, ed è qui che comincia la storia di un album immortale.
Nel momento in cui
What’s Going On vede la luce, il soul classico è già in declino, e probabilmente proprio quest’opera di Gaye contribuisce a dargli il colpo di grazia, iniettando massicce dosi di funk e psichedelia nel corpo tumefatto della musica nera che esce dagli anni sessanta: lo fa con il contributo dei mostruosi turnisti della Motown, ovviamente, sui quali spicca un mai sufficientemente onorato James Jamerson, e lo fa con un concept di profonda e brillante coesione, un album che viaggia a cento all’ora dall’inizio alla fine, nel quale non esistono passi falsi o semplici riempitivi, ma ogni brano è il tassello di un puzzle più ampio, centrato sui temi della guerra in Vietnam, dell’ecologia, dei giovani del ghetto. La misura della forza dirompente di queste nove tracce sta tutta nell’attualità che riescono a mantenere ancora oggi: quella di What’s Going On è musica che sembra scritta ieri, e che parla di un mondo di contraddizioni e tensioni che, in larga parte, è (purtroppo, e contrariamente agli auspici dello stesso Gaye) lo stesso mondo in cui viviamo ancora oggi. La title-track è l’esempio più pregnante degli elementi ricorrenti di questo lavoro: una cura delle figurazioni ritmiche ossessiva e profondissima, sposata all’emotività del soul e alla voce inarrivabile di Gaye, qualcosa che riscrive il genere e allo stesso tempo lo supera, rendendo di botto “vecchio” tutto ciò che c’era prima. La linea di basso geometrica di Jamerson culla il testo di Gaye accanto alle percussioni e alle svisate dei fiati, e costruisce di fatto un nuovo standard per tutto il soul che verrà: What’s Going On è allo stesso tempo, magicamente, una canzone di denuncia e un incredibile mini-suite di eleganza extraterrestre, specchio ideale della luminosa, tormentata e multiforme anima di Gaye. La successiva What’s Happening Brother, ancora più apertamente costruita su una combinazione devastante di basso e batteria, è un proto-funk che mantiene alta la tensione sonora: la voce di Gaye si inerpica su un gospel irresistibile per parlare del dramma del Vietnam, partendo dalla viva esperienza del fratello di Gaye, Frankie, rientrato dopo tre mesi di servizio al fronte. In Flyin’ High (In The Friendly Sky) fa capolino il tema dell’abuso di droghe, anche questo grazie alla viva esperienza dello stesso Gaye, all’epoca piuttosto dipendente dalla marijuana: Flying high in the friendly sky/ Flying high without ever leaving the ground, no, canta il nostro, mentre Jamerson costruisce una linea di basso di profonda drammaticità, che sfocia senza soluzione di continuità nell’inno di Save The Children (lasciando chiaramente intuire quanto, accanto al dramma della guerra, il tema dei giovani del ghetto si fondesse, drammaticamente, con quello dell’abuso di sostanze, e più in generale con la diffusione massiccia delle droghe tra la popolazione). Musicalmente, Save The Children sembra come sollevare il tono da ballad di Flyin’ High (In The Friendly Sky) portandolo a un certo punto ad un passo da una deriva jazz, che però lascia improvvisamente il passo al funk del futuro che si può ascoltare nell’ultimo, portentoso minuto della traccia, un sound di potenza sconcertante. God Is Love, breve e gioiosa, riparte musicalmente da qui, celebrando il sentimento religioso e l’amore filiale per quel padre, Marvin Gaye Sr., che avrebbe ucciso il figlio il giorno prima del suo compleanno, il 1 Aprile del 1984, con due colpi di pistola al petto, a seguito dell’ennesimo litigio (e suonano quasi beffarde le parole contenute nell’ultima strofa del brano, a rileggerle oggi: Don’t go and talk about my father, He’s good to us/ God is my friend, (Jesus is my friend) he is my friend/ And when we call on Him for mercy, mercy Father/ He’ll be merciful, my friend, oh, yes He will). Da God Is Love si stacca improvvisamente la splendida Mercy Mercy Me (The Ecology), forse il momento più canonicamente pop dell’intero lavoro, nel quale l’ossessione ritmica lascia per un attimo il passo alla melodia, e che è impreziosita da una frase di sax registrata all’insaputa del sassofonista, una divagazione splendidamente acida su un brano che lamenta la distruzione dell’ambiente nelle società moderne, tra catastrofi petrolifere, paventati inverni nucleari e sovrappopolazione. Il basso di Bob Babbitt accende il funk urbano, ossessivo e con tinte latineggianti di Right On, il brano più lungo del disco, centrato sulla solidarietà umana, che stempera verso un intermezzo cinematico e suggestivo prima di virare, attraverso un’altra tirata ritmica, al jazz lieve disegnato dai fiati di Wholy Holy, appello all’unità degli uomini di fronte a tutte le forze disgreganti che rischiano di mandare in frantumi la società e quella stessa solidarietà umana che Gaye cantava anche in Right On. Per quanto non si possa forse parlare per Marvin Gaye di un attivismo sociale e civile in senso canonico (giova forse ricordare le parole con cui Ryan Dombal chiosava su questo tema in occasione del quarantesimo anniversario dell’album, Perhaps this smooth front also has to do with the fact that Gaye was “hardly an activist in the traditional sense,” according to Edmonds. While his Vietnam-battered brother was an emotional catalyst, Gaye had neglected to send him one letter during his army stint. And though he was certainly aware of the Detroit race riot that left 43 people dead in 1967, he viewed the sad display on TV from his cushy home on the outskirts of town. Not to say Gaye didn’t wholeheartedly believe in the progressive observations found on What’s Going On, but his relative distance from his subjects allows him to fly over top of them, providing a healing pulse to the disarray below), non si può negare come questo appello all’unità e alla comunione sia profondo, accorato ed enormemente sentito, come profonda e commossa è la partecipazione che trasuda da tutte le tracce di questo lavoro. Chiude il disco la stratosferica Inner City Blues (Make Me Wanna Holler), un brano dalla modernità sconcertante fin dalla combinazione di piano riverberato ed elementi ritmici che ne scandisce l’avvio, prima dell’ingresso della poderosa linea di basso che accompagna la voce di Gaye, contrappuntandola meravigliosamente: è qui che, assai più che altrove, Gaye esprime la propria preoccupazione per la situazione esplosiva del ghetto, in particolare per le giovani generazioni, schiacciate tra la violenza, la crisi economica, il fantasma assassino della guerra e la mancanza di qualsivoglia prospettiva di futuro (vi cito solo una strofa, Rockets, moon shots/ Spend it on the have-not’s/ Money, we make it/ Before we see it, you take it, che a qualcuno potrebbe riportare alla mente un’altra celebre canzone di protesta civile, quella Whitey On The Moon licenziata appena un anno prima dal grande Gil-Scott HeronInner City Blues (Make Me Wanna Holler) c’è tutto, e tutto a un livello di perfezione tremenda: una canzone che stava talmente tanto avanti nel futuro, per i suoi tempi, da suonare totalmente attuale anche nel 2021.
Ma cosa resta oggi di
What’s Going On? Il suo autore abbandonerà l’impegno civile immediatamente, tornando a cantare dell’amore e del sesso, barcamenandosi con la sua splendida voce e innata eleganza in una carriera che continuerà a ruotare attorno al soul flirtando col pop, fino a morire ammazzato per mano del padre a seguito di una triste faccenda di soldi, senza però mai smettere di spingere avanti la propria musica sulla strada tracciata proprio da questi nove brani: se di fatto l’impegno civile di What’s Going On ha rappresentato un unicum nella carriera di Marvin Gaye, il suo portato compositivo e musicale continuerà ad accompagnare ferocemente la transizione del soul nei territori inesplorati del funk, della psichedelia, di un suono via via più acido, urbano, ossessivo. Ma c’è un altro motivo, credo, per il quale queste nove tracce meritano il vostro tempo, il vostro amore e il vostro incondizionato rispetto, ed è perché insegnano una grande lezione sulla nostra capacità di immaginare un futuro diverso, migliore. Marvin Gaye parla di Dio e io non ne so niente di queste cose, e credo che il Dio di cui parla nemmeno esista davvero, ad ogni buon conto: eppure, quando lo senti cantare, se sei una di quelle persone a cui piace il bello, non puoi non pensare, anche solo per un attimo, che sia bello crederci, credere a quella cosa che il buon Marvin chiamava Dio, e che in realtà è solidarietà, fraternità, vicinanza, la fine della violenza, l’amore. I drammi di cui queste canzoni parlano le rendono rilevanti oggi quanto lo erano cinquant’anni fa (e sì, è triste, maledettamente triste che sia così): c’è tutto un calderone di aspirazioni, sogni, idee, visioni che ribolle sotto queste nove tracce, che hanno raccontato un’epoca finendo per incarnare qualcosa di più grande, il desiderio di un altro mondo (im)possibile. Se la musica contenuta in questo album basta a farne un gran disco, è proprio l’afflato verso un altro mondo, che indubitabilmente lo muove, a renderlo tutt’oggi un capolavoro immortale.

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