"Með Suð í Eyrum Við Spilum Endalaust": il ritorno dei Sigur Ròs

A tre anni dal precedente Takk… e a pochi mesi dalla pubblicazione del doppio cd Hvarf/ Heim (cd audio che ha accompagnato la pubblicazione del dvd Heima, contenente un disco con versioni live acustiche di vecchi brani, ed un disco di inediti e b-side mai pubblicati), i Sigur Ròs tornano con il nuovo album di studio, il quinto, Með Suð í Eyrum Við Spilum Endalaust, traducibile come “con un ronzio nelle orecchie suoniamo infinitamente”. Si parla da mesi di questo nuovo album come di un punto di svolta nella ricerca e nel sound della band islandese, che ha lavorato con Flood alla produzione ed ha in larga parte registrato, per la prima volta, lontano dai propri studi di Alafoss, nel nord dell’Islanda. I Sigur Ròs però amano stupire, e questa non è una novità: quello che ti aspettavi non è niente, se confrontato con quello che troverai… fin dal primo impatto, quando ti ritrovi tra le mani un cd incartato in una confezione a dir poco minimale, un semplice cartoncino decorato da una splendida foto di Ryan McGinley all’interno del quale viene fatto scivolare il dischetto. Niente libretto, zero (o quasi) parole. Solo musica. 

Apre il lavoro Gobbledigook, primo singolo estratto dall’album, ed accompagnato da un video veramente molto bello ispirato alla fotografia dello stesso McGinley (inspiegabilmente censurato da YouTube, ma questa è un’altra storia…): sono i Sigur Ròs che non ti aspetti, che ancora non conoscevi, una ritmica ossessiva e svisate di chitarra acustica, cori di grande effetto ed una melodia schietta, semplice, direttissima. Una canzone semplice, insolitamente solare e che pure non si riesce a considerare banale. Un arricchimento del sound della band, non una depauperazione. Nuove direzioni? Chissà. Gobbledigook lascia spazio a Inní Mér Syngur Vitleysingur, un brano ancora molto tirato, con le ritmiche in bella evidenza e il ritorno ai cari vecchi xilofoni che tanto hanno pesato sul sound passato dei nostri, e che cadenzano l’intero pezzo, arricchito ancora una volta da un’accattivante linea melodica vocale. Ma forse il brano più bello dell’intero lavoro è il successivo, Góðan Daginn, nel quale ritroviamo le melodie eteree degli album precedenti e quella “silente bellezza”, in equilibrio sempre precario eppure mai così perfetto tra rumore e puro suono, che caratterizza da sempre il lavoro dei Sigur Ròs. La voce di Jonsi si appropria di uno spazio indefinibile, e scivola “dentro” l’ascoltatore: Góðan Daginn è un momento estremamente toccante, e riuscito. Við Spilum Endalaust ritorna, brevemente, a ritmiche più marcate, perfettamente incalzate da un basso “sporco” e da rintocchi di piano: un’altra meravigliosa (e meravigliosamente semplice) melodia della voce, per un altro pezzo molto bello. Siamo qui probabilmente nel passaggio più riuscito dell’intero album, anche considerando che segue un brano come Festival, ricavato nella prima parte, davvero splendida, dalla Gítardjamm che avevamo avuto modo di apprezzare in Heima e che si spegne in un crescendo finale trascinante, anch’esso tipico dello stile della band. Più di nove emozionanti minuti. Með Suð í Eyrum si giova ancora di una ritmica molto decisa, e particolare, sulla quale si adagia un giro di pianoforte, incalzando la voce di Jonsi. Ancora una volta, eccezionale la cura delle melodie. Ma qui succede qualcosa. Qualcosa si… “spezza”. Non in negativo, badate bene, soltanto che, d’ora in poi, parleremo di un disco molto molto differente. ára Bátur, coi suoi quasi nove minuti, rallenta incredibilmente il ritmo: i tempi si allargano, la musica si dilata, ed il pezzo è qualcosa a metà strada tra il suono d’ambiente e le tentazioni sinfoniche (il fatto di aver inciso questo brano con la collaborazione dell’orchestra sinfonica di Londra, e con l’aggiunta di un coro maschile di un oratorio, fanno il resto). Qui i Sigur Ròs, come detto, cambiano registro: la batteria, fino ad ora dominatrice incontrastata, sparisce letteralmente. La successiva Illgresi prosegue sulla stessa linea, spostando le atmosfere sull’acustico: un arpeggio di chitarra sul quale la voce di Jonsi letteralmente si arrampica, disegnando ancora una bella melodia. Gli archi delle Amiina, ancora una volta presenti, fanno il resto. Fljótavík è invece basata su un interessante giro di piano, con un suono carico di emozionalità che torna a farsi, compiutamente, d’ambiente: sempre gli archi tornano a connotare la conclusione di questo episodio. Straumnes è un altro piccolo capolavoro: una scheggia ambient, uno strumentale molto breve, basato su un suono molto denso, nel quale la tensione emotiva sale alle stelle. E’ un po’ come se gli ultimi pezzi del disco si avvolgessero su se stessi, per ripetersi e tornare a “suonare infinitamente”, disegnando una dimensione onirica nella quale tutto è ovattato, distante eppure quasi tangibile al tempo stesso, una dimensione nella quale la band attinge ad un suono quanto più possibile “puro”, per donarlo all’ascoltatore. E questa sensazione sfocia direttamente in All Alright che, come indica già il titolo, possiede un testo in inglese, il primo mai cantato da Jonsi (almeno per un disco dei Sigur Ròs): la cosa veramente incredibile è che, se non avessi saputo prima che di inglese si trattava, probabilmente non me ne sarei nemmeno accorto. La voce di Jonsi è vicinissima al puro suono, è un po’ come se ripetesse i vocalizzi di ( ), le parole non hanno alcun peso nella misura in cui si incuneano negli spazi lasciati liberi della musica per completarli, arricchirli, definirli. Musicalmente, All Alright è basata ancora su suoni molto soffusi, delicati, d’atmosfera, ed è un pezzo lento, estremamente lento. Una lentezza che colora il brano di sfumature molto particolari. Una curiosità: pare che il brano in questione sia stato scritto da Jonsi per il compagno. Mi risulta difficile raccontare questo lavoro senza fare un frequente uso di immagini un po’ fumose, che hanno a volte un che di mistico: il fatto è che, molto probabilmente, non ce ne sono altre. Questa musica lascia in uno stato di contemplazione, come davanti ad una meravigliosa opera d’arte i confini della quale non possono essere che a malapena intuiti. Tutto è curato, e anche musicalmente lo studio armonico, melodico e ritmico sono di alto livello. Ascolti questo Með Suð í Eyrum Við Spilum Endalaust, e magari fai un ingeneroso confronto con l’algida bellezza di ( ) o ágætis Byrjun, ma alla fine resti sempre a bocca aperta. La “presenza” di questa musica è tale che ti sembra quasi di poterla toccare, non solo di sentirla con le orecchie, ma di vederla con gli occhi e avvertirla distintamente con tutti i sensi. Un miracolo che solo i Sigur Ròs, tra i gruppi che conosco, riescono a realizzare.

Difficilmente, per chi non ha mai ascoltato i Sigur Ròs, questo lavoro può costituire l’approccio ideale al loro mondo musicale (se non altro perché, forse, Með Suð í Eyrum Við Spilum Endalaust fotografa un momento di transizione per la band… ma anche questa è una valutazione difficile da fare, senza ulteriori elementi), sebbene aiuti con delicatezza ad entrare in una dimensione meravigliosa quanto “difficile”: probabilmente non a tutti piacerà. Qualcuno lo troverà ripetitivo, qualcun altro musicalmente poco interessante (credetemi, c’è gente che lo penserebbe), ma tutti questi si lasceranno sfuggire la verità più importante: questo disco vuole solo essere ascoltato. Se avrete la pazienza di lasciarlo scivolare in profondità, come i suoi predecessori, non vi abbandonerà più. E’ questo il grande pregio dei paesaggi sonori disegnati dal quartetto islandese: ti entrano dentro, e ti accompagnano sempre. Perché parlano un linguaggio tutto particolare: parlano direttamente all’animo.

Per tutte le informazioni sulla band, la discografia ed in particolare quest’ultimo lavoro, vi consiglio di fare un giretto qui; se desiderate, invece, ascoltare l’intero album in streaming e vedere il video di Gobbledigook (e molti altri "dietro le quinte"), cliccate qui!

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