Molti mondi compressi in un punto: Snarky Puppy Live at the Royal Albert Hall (Snarky Puppy, 2020)

Questo è uno di quei dischi che ho ascoltato moltissimo, nel corso dell’anno, senza però mai metter mano alla penna per scriverne qualcosa: gli Snarky Puppy sono stati uno dei gruppi (vorrei dire una delle esperienze musicali) che più mi hanno spinto a prendere la decisione di ricominciare a studiare un po’ il mio strumento, il basso elettrico, e più in generale la musica jazz (cosa che poi ho fatto, effettivamente, qualche mese fa), e quindi è chiaro che il loro valore e la loro importanza per me non possano essere misurati su un unico disco. Conosco e seguo la band di Michael League da qualche anno ormai, avendola ascoltata dapprima in maniera sporadica e inorganica (mi ero innamorato da subito della stupenda Something, cantata da Lalah Hathaway e insignita del Grammy nel 2013 come miglior performance R&B, uno dei tre Grammy vinti dalla band, ovviamente scovata per caso gironzolando su YouTube) e poi in maniera sempre più approfondita e decisa, fino all’ultimo album, il meraviglioso Immigrance, uscito lo scorso anno e che faceva parte della mia top 10 del 2019. Sono fermamente convinto che Michael League, Bill Laurence, Shaun Martin, Larnell Lewis, Bob Lanzetti, Mark Lettieri, Chris McQueen e tutti gli altri membri di questa spettacolare big band/collettivo/ensamble non si limitino a suonare splendide canzoni, ma si impegnino realmente a insegnare musica, a trasmettere tutto l’amore che si nasconde dietro un grappolo di note, un solo, una poliritmia (emblematico in tal senso il divertentissimo Tiny Desk Concert tenuto dalla band, in formazione ridotta, per NPR music, nel quale League divide il pubblico in due sezioni assegnando a ciascuna un tempo da tenere, 3/4 e 4/4, per disegnare appunto il poliritmo che sorregge la meravigliosa Xavi, cliccare qui per credere): rompere il giocattolo, sezionarlo, mostrarlo dal di dentro perché chi ascolta possa capire come davvero funzioni. Ogni volta che mi capita di vedere un video degli Snarky Puppy, ogni volta che sento un loro brano, mi viene da pensare che la musica colta (e il jazz è l’unica musica colta prodotta nel ‘900) in fondo non abbia altro che questo scopo: accrescere umanamente, culturalmente e spiritualmente chi ne fruisce. La musica degli Snarky Puppy è cuore e cervello, c’è il corpo, il groove, la sensualità del movimento, il sudore, l’aspetto fisico, e allo stesso tempo l’astrazione cerebrale, la precisione chirurgica, l’arma che sferra il colpo, ferisce, fa sanguinare, provoca una reazione. Non so come spiegarlo, ma un buon modo per cominciare a capire di cosa parlo potrebbe essere ascoltare questo album live, Snarky Puppy Live at the Royal Albert Hall, registrato in occasione dei concerti tenuti dalla band appunto alla Royal Albert Hall di Londra nel Novembre del 2019 (circa una settimana prima che mi trovassi anch’io nella City, quando si dice il tempismo), e ora candidato ai Grammy 2021 nella categoria Best Contemporary Instrumental Album: provate ad ascoltare come in ogni brano l’idea si sviluppi, come ogni intervento strumentale da parte di ciascuno dei musicisti faccia parte di un dialogo, intenso e continuo, ricco, pieno di immaginazione. Questa musica è importante perché, come tutta la musica che si basa davvero sull’interplay tra i suoi protagonisti, insegna il valore dell’ascolto: non soltanto, banalmente, quello che il pubblico tributa alla band sul palco, ma l’ascolto che ogni musicista deve agli altri. Come in ogni dialogo, c’è un tono, una cadenza, un’inflessione: pensate al basso di Michael League e alle note del piano che si inseguono, scambiandosi battute, ora sincopate e ora sull’orlo del silenzio, all’inizio di Alma, e capirete di cosa sto parlando; ascoltate come tutto quel pezzo si sviluppa, si accresce, si dipana. Snarky Puppy Live at the Royal Albert Hall non è semplicemente l’istantanea di una band in evidente stato di grazia: è un’esperienza che riconcilia con la musica, con la sua grammatica e il suo linguaggio. Mi piace pensare che non sia un caso che il deus-ex-machina di questo ensemble sia proprio il suo bassista, Michael League: ok, in quanto bassista potreste dire che si tratti di un mio bias, ma in realtà Michael è soprattutto un compositore brillante, raffinato, anche minimalista in mia opinione (trovate sia un paradosso?), un musicista che sa cosa mettere e dove metterlo, che ha una visione ed è capace di pensare lo sviluppo della sua musica d’insieme in maniera originale e travolgente, sposando le proprie variegate influenze che vanno dal jazz (ovviamente) all’R&B al funk fino ai ritmi e poliritmi provenienti dai quattro angoli del globo, una predisposizione autentica alla world music espressa con tutta evidenza anche nel suo side project, i Bokanté. Proprio come esplicitamente premesso all’ultimo album Immigrance (che offre a questo live la maggior parte dei brani in scaletta), si tratta di un flusso in continuo movimento: tutto è fluido, tutto si muove, tutto è in un costante stato di migrazione. La mescolanza di tutte queste ispirazioni, di tutte le idee, di questo corpus enorme di conoscenze ed esperienze produce un live set che è vivo anch’esso, in costante mutamento: si va dal crescendo lirico della splendida Even Us alla fusion sincopata di Intelligent Design (brano ripreso da The World is Getting Smaller, del 2007); dall’R&B di While We’re Young, esteso e dilatato rispetto ai due brevi minuti che occupava in Immigrance, all’elegia fusion della già citata Alma, costruita per addizione in un accumulo mesmerico di suoni. Il groove irresistibile e gli ostinati di Bad Kids to the Back tornano a pescare dall’ultimo lavoro, come la sempre sorprendente Bigly Strictness, una specie di new wave/funk che è al tempo stesso un sabba di percussioni africaneggianti, il tutto cucito insieme dalle chitarre elettriche e dagli incisi dei fiati. Tarova viene da Culcha Vulcha, album in studio inciso nel 2016 ad 8 anni dal precedente lavoro di studio, Bring Us the Bright, del 2008: un synth-jazz intriso di progressive con uno stordente lavoro chitarristico di Mark Lettieri che apre la strada al chaabi-groove marocchino e alle poliritmie della trascinante Xavi, brano di punta della world-fusion di Immigrance (mamma mia, quella linea di basso!!), cui segue l’abbacinante electro-funk di Chonks, che trasuda Herbie Hancock. Chiude l’esibizione una coppia di brani pescati dall’album live We Like It Here, del 2014, ovvero Sleeper e Shofukan. Sleeper ha inizialmente l’aspetto di un chiaro di luna: l’intenso lirismo delle tastiere disegna panorami notturni e affascinanti sui quali la band edifica un castello ritmico travolgente, cesellato dalle melodie dei fiati e dagli interventi graffianti di Shaun Martin al Talkbox; Shofukan, ricca di suggestivi echi mediorientaleggianti, rappresenta l’ennesimo esempio di fusion ibridata con elementi world music, nel quale trovano spazio lo splendido e riflessivo solo del sax tenore di Bob Reynolds, ritmiche come sempre trascinanti e chitarre che sfociano perfino nell’esplicita citazione hendrixiana.
La verità è che ci vorrebbero diecimila scroll per rendervi un po’ l’idea di tutte le cose che stanno dentro un lavoro come questo, e non sarebbe che un’idea parziale: le parole possono avere le ali, e cercare di seguire la musica fino ad un certo punto, ma ovvio… solo fino a un certo punto. Se è vero che scrivere di musica è assurdo come lo sarebbe danzare di architettura (l’ha detto
Frank Zappa, mica Fedez: e chi sono io per provare a smentirlo?), è chiaro come ogni sforzo di restituire la reale pregnanza di questi suoni sia destinato alla sconfitta. Queste note, questi ritmi, i soli e le linee di basso, sono tutte cose che vanno “sentite”, a tutti i livelli, e non soltanto, banalmente, con le orecchie. Vanno ascoltate e sentite con le orecchie, il cervello, il cuore, lo stomaco. Michael League e i suoi sono capaci di rendere digeribili suite strumentali che possono raggiungere minutaggi proibitivi (e sicuramente non radiofonici) anche all’orecchio meno smaliziato, e tutto questo soltanto in virtù dell’incredibile capacità espressiva della band, che si esplica in ogni aspetto di questi brani, dalle ritmiche alle melodie. Tutta la musica che permea questi 11 brani (come succede praticamente per ogni disco della band) è come premuta, compressa in uno spazio minuscolo, pronta ad esplodere: è world music al suo massimo apice, suonata da una band capace di passaggi strumentali assurdamente complessi e tremendamente belli. Gli Snarky Puppy portano costantemente l’esecuzione ad un livello di perizia, espressività e capacità tecnica che altrove è stato definito “totalmente senza senso”, e con la stessa semplicità con la quale un cristiano normale potrebbe sorseggiare un thè, facendo sembrare semplici e naturali cose che lasciano letteralmente a bocca aperta. L’esperienza della musica degli Snarky Puppy è un po’ questa: la sensazione di avere davanti qualcosa di enorme che preme per uscire, un’onda sonora potentissima sempre sul punto di tracimare; se a questo aggiungete come la dimensione d’elezione di questo ensemble sia a tutti gli effetti quella del palco, capirete subito come l’esperienza-Snarky Puppy si possa vivere al massimo livello proprio in questa ora e quaranta di musica registrata dal vivo. Di conseguenza questo disco live, splendido nella sua impeccabile resa sonora (avendolo ascoltato solo in versione digitale, sarei curiosissimo di metter su il vinile), non fa che accrescere la voglia di vedere la band in carne e ossa: come forse saprete, gli Snarky Puppy suoneranno anche a Firenze il prossimo settembre (Covid permettendo, visto che la data è stata già rinviata due volte) e io credo proprio che sarò tra il pubblico. Che dite, ci vediamo là?

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