Musica che abita il mondo: The Democracy! Suite (Jazz at Lincoln Center Orchestra Septet with Wynton Marsalis, 2021)

Wynton Marsalis, come forse saprete, non è un personaggio facile. Trombettista tra i più importanti della scena mondiale e ormai alla soglia dei 60 anni, enfant prodige del jazz acustico mainstream appena ventenne, figura di spicco di quello che Ted Gioia definisce “neotradizionalismo”, portatore di uno sguardo piuttosto conservatore sul ruolo del proprio strumento e più in generale sulla posizione da tenere all’interno del mare magnum della musica dinamica e contaminata per eccellenza, ha speso gli ultimi 25 anni anche nel ruolo di direttore artistico del Jazz at Lincoln Center di New York, entità culturale indipendente (al pari della Filarmonica e dell’Opera) dal 1996. In questo ruolo, Marsalis si è rivelato uno dei maggiori scopritori di talenti della scena jazz contemporanea, oltre ad aver legato il proprio nome ad innumerevoli retrospettive, iniziative musicali, collaborazioni. Il tutto, come accennato, in un’ottica di acceso contrasto rispetto agli sperimentatori, gli innovatori, i contaminatori della musica nera tradizionale: dagli esordi sulla scia del jazz modale davisiano all’approdo all’hard bop, al recupero della tradizione dello swing fino al ritorno ai suoni di New Orleans, nessuna trasformazione di questo artista è stata indenne alle polemiche e ai contrasti, spesso anche veementi. Da ricordare in particolare lo scontro con Miles Davis (e Chet Baker), accusato di aver pervertito la tradizione ibridandola con le sirene del rock, o anche quello col fratello Branford, di poco più grande di lui, sassofonista di larga fama che a un certo punto abbandonò Wynton e il gruppo comune (insieme al pianista Kenny Kirkland) per legarsi a Sting all’epoca della dipartita di Gordon Sumner dai Police, contribuendo a rendere speciale il sound di album come The Dream of the Blue Turtles e Bring on the Night (live album e documentario, quest’ultimo realizzato dal regista inglese Michael Apted, scomparso proprio qualche giorno fa): manco a dirlo, Wynton non la prese benissimo.
Sta di fatto che, al di là delle controversie legate al personaggio e alle sue posizioni molto accese, l’opera e l’arte di
Wynton Marsalis sono state centrali nella storia recente del jazz americano e mondiale, diciamo per tutti gli ultimi 40 anni: parliamo di un musicista eccezionale, raffinatissimo, capace di esecuzioni impeccabili, dotato di una riserva di talento apparentemente sconfinata, la cui fulminante ascesa all’empireo dei musicisti jazz non ha probabilmente precedenti nella storia di questa musica (pensiamo al doppio contratto offertogli dall’etichetta CBS sia come solista classico che come solista jazz- fiducia ripagata da Wynton con la pronta vittoria del Grammy in entrambe le categorie). Se si esclude l’iniziale ricerca di una propria libera espressione, con qualche sconfinamento ambizioso verso il jazz progressivo (Marsalis Standard Time, Vol. I e soprattutto Live at Blues Alley), ben presto Wynton Marsalis volse la propria attenzione al recupero della tradizione jazz più lontana nel tempo, le radici di New Orleans e la matrice blues, per capirsi, e sembrò trovarsi maggiormente a suo agio all’interno di ensemble allargati come i sestetti e di vere e proprie orchestre jazz (come appunto quella del Jazz at Lincoln Center), che gli hanno permesso negli anni di affinare le proprie abilità di compositore cimentandosi con partiture via via più complesse, e portandolo fino al Premio Pulitzer per la musica, conquistato nel 1994 con l’opera Blood on the Fields, un imponente lavoro per orchestra jazz di 15 elementi caratterizzato da un eclettismo storico (la definizione è sempre di Ted Gioia) stordente e onnicomprensivo, capace di abbracciare una tradizione musicale che andava dal primo jazz a esperienze africano-americane quali gospel, work songs e blues. Più in generale si può dire che questa chiusura del cerchio, questo ritorno alle origini piuttosto che la propensione a una fuga in avanti abbia sicuramente contribuito a rendere Marsalis inviso a buona parte della critica jazz (almeno quella più sperimentalista, e complici anche le sue interviste, raramente accomodanti, e le sue frequentazioni di altri critici polemisti e piuttosto conservatori, su tutti Stanley Crouch, autentica eminenza grigia di Marsalis per una larga fetta della carriera del trombettista), eppure non si può trascurare come questa ricerca abbia anche fatto di Wynton Marsalis l’alfiere, l’ispiratore e la figura di riferimento per legioni di giovani musicisti che è ancora tutt’oggi. Tutta questa introduzione (se siete interessati all’argomento compratevi il meraviglioso Storia del Jazz di Ted Gioia, che tratta l’argomento in maniera molto più acuta, dettagliata ed esaustiva tra le pagine 458 e 466) serve a dirvi che quando schiaccerete play su questo The Democracy! Suite, realizzato da Wynton Marsalis alla guida del settetto del Jazz at Lincoln Center (che comprende, oltre ovviamente allo stesso Marsalis alla tromba e come direttore musicale, anche Elliot Mason al trombone, Ted Nash al sassofono alto e soprano e al flauto, Walter Blanding al sassofono tenore e al clarinetto, Dan Nimmer al piano, Carlos Henriquez al contrabbasso e Obed Calvaire alla batteria), quello che assolutamente non dovrete aspettarvi è sterile sperimentalismo: Marsalis compone una suite in 8 movimenti informata dall’idea che la gioia e la bellezza della musica jazz possano rappresentare un collante per tenere vicine le varie sensibilità che animano la nostra società, intento che lo spinge a definire il jazz come la più autentica e perfetta metafora della democrazia stessa. In qualche maniera, Marsalis compone un affresco di trascinante attivismo musicale, restando nel solco di quella tradizione di impegno politico, culturale e musicale che era già evidente in opere come Blood on the Fields, premiata col Pulitzer e di cui parlavo poco sopra: un affresco non scontato eppure estremamente necessario nei tempi difficili che le democrazie occidentali stanno vivendo, tra pandemia, crisi economica e legittime proteste per una società finalmente davvero aperta (cito solo Black Lives Matter perché nominata esplicitamente tra i titoli di queste otto tracce).
Si apre con
Be Present, un invito a essere presenti con le proprie idee e le proprie convinzioni, ad abitare il mondo con coraggio: un tema pieno di soul che rimanda alle atmosfere proprie delle grandi big band per poi adagiarsi su una tesissima walking di Henriquez, ideale sfondo per gli interventi solisti dei fiati e con contrabbasso, batteria e pianoforte che si rincorrono a intrecciare le trame della tromba di Marsalis, in un crescendo di tensione che sfocia infine in un solo molto articolato di Nimmer. Sloganize, Patronize, Realize, Revolutionize (Black Lives Matters) esplicita il contenuto prettamente politico dell’operazione instaurando un’atmosfera più tesa, ora notturna ora vibrante, nervosa, aprendosi prima nell’ampio respiro del tema e poi in una sezione di soli a tratti urlati, a tratti disarticolati, sovrapposti e intercalati tra loro (fiati e contrabbasso soprattutto), in un clima di incastri e crescente tensione ritmica e armonica che conduce infine al recupero del tema iniziale. Ballot Box Bounce riprende l’allegro vigore ritmico dello swing, con scambi di battute veloci del contrabbasso e del flauto e poi la tromba di Marsalis in grande evidenza su una walking indiavolata, prima degli ulteriori interventi solisti del flauto suonato da Ted Nash, del sassofono e del piano (alternato ai contrappunti del contrabbasso e della batteria). That Dance We Do (That You Love Too) pesca a piene mani dal jazz-soul anni ’60, una composizione vibrante nell’interplay dei fiati e dall’andamento ritmico dinoccolato, appoggiato sugli staccati della batteria di Calvaire attorno ai quali si avvolge il basso di Henriquez, intento a comporre piccole frasi alternate a particelle di groove, negandone a più riprese la cristallizzazione in una walking comunemente intesa: un episodio anche abbastanza sperimentale, se vogliamo, e di sicuro ballabile. Deeper Than Dreams rallenta i ritmi e riconduce tutto su atmosfere quasi ellingtoniane: si tratta di una composizione dilatata, accompagnata in due da Henriquez al contrabbasso e che si fa spazio appoggiandosi sul trombone e sui fiati, aprendosi su un solo introspettivo di Marsalis intrecciato agli interventi del sassofono di Blanding, con i due che instaurano un dialogo onirico e sospeso le cui simmetrie vengono rotte solo dagli interventi di Nimmer al piano. Out Amongst The People (For J Bat) si apre sulle figurazioni del piano di Nimmer, presto sostenute dal complesso tema esposto dalla sezione dei fiati, caratterizzato da numerose pause e ripartenze: la pronunciata cadenza ritmica del brano, sottolineata anche dai diversi passaggi in solo di Calvaire, consente ai solisti lo spazio per improvvisazioni tese, molto asciutte e caratterizzate da fraseggi quasi in odor di dixieland (ma questo soprattutto per gli interventi del piano di Nimmer). Per restare nell’esaltazione dell’interplay tra i solisti, It Come ‘Round ‘Gin si costruisce tutta su un botta e risposta tra la tromba di Marsalis e i sassofoni di Blanding e Nash, impegnati nella costruzione di un complesso tema a più voci che sfocia naturalmente nelle sezioni d’improvvisazione, il tutto sostenuto dalla magnetica walking di Henriquez che si concede anche un lungo (per quanto compassato) intervento solista. That’s When All Will See chiude la suite riecheggiando il jazz di New Orleans, con un incedere quasi da marching band, ora stemperato in veloci passaggi walking e dialoghi tra i fiati, ora squassato dai marosi del piano, presto ricomposti dal prepotente swing delle ance. Una conclusione ottimista, perché come lo stesso Marsalis sottolinea la questione qui è capire che farne di tutta questa bellezza e come usarla per trasformare in meglio il mondo in cui viviamo.
La sensazione che domina
The Democracy! Suite è quella di un lavoro di proporzioni enormi per quanto riguarda il recupero e la riproposizione delle numerose tradizioni musicali che lo animano (dallo swing al bop, agli echi dixieland al soul-jazz) che resta comunque sempre caratterizzato da un tono misurato, assolutamente contenuto, compreso. Esclusi alcuni episodi, sono misurati tutti gli interventi solisti e le improvvisazioni, perfettamente calate nel contesto fornito dai brani: la musica di questa suite è un esempio di controllo e perizia tecnica, ma non dovete cadere nell’errore di pensare che rappresenti solo una sterile messa in mostra di talento e gusto. Rinunciando a quelle che senz’altro definirebbe “pericolose perversioni” elettriche o sperimentaleggianti, Marsalis ripropone il suo costrutto di jazz acustico, un’architettura sonora e armonica che poggia sulle solide basi della tradizione per fornire una nuova veste a un linguaggio ben sedimentato. Nell’eterna oscillazione del pendolo tra forma e contenuto, l’arte di Marsalis può sembrare propendere per la prima (specialmente da un certo punto della sua carriera in poi): ma se è conservatrice la sua visione del jazz inteso come stile, come forma, e l’importanza data alla perpetuazione dell’eredità e delle radici di questa musica, senz’altro non lo è quella del suo ruolo nella società (come sempre, ragionare per categorie precostituite non rende idea che del mero contorno delle cose). L’ambizione di creare una suite che testimoni infatti allo stesso tempo la ricchezza sconfinata di questo linguaggio, le sue possibilità, e ne definisca anche l’identificazione con un patrimonio comune, creando una sorta di koinè che possa fare da collante per le istanze di un mondo variegato e in continuo mutamento, può sembrare qualcosa di troppo grande per poterlo imprimere nei solchi di un album musicale: non so dire se l’operazione di Marsalis e questa The Democracy! Suite riescano davvero nell’intento, ma sono sicuro che se questa koinè esiste, se questa lingua comune possa essere davvero fondata, non possa prescindere negli spazi della contemporaneità da quella che è la più grande tradizione musicale dei nostri tempi, l’unica vera musica colta prodotta ancora oggi nel nostro mondo. Quale sarà il suo futuro, quale strada il jazz percorrerà domani è una domanda troppo grande per me e, anche se forse non sarebbe d’accordo, troppo vasta anche per la visione ambiziosa e sconfinata di Marsalis: non si può però negare come per immaginare un futuro occorra costruire un presente, e che questo lo si faccia soltanto conoscendo, e mettendo nella giusta prospettiva, il proprio passato. The Democracy! Suite tenta di fare tutto questo, e regala tre quarti d’ora di musica di un’altra categoria: in ogni caso, ne vale la pena.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.