My very “best of 2017” in music

Fine anno, tempo degli ormai consueti bilanci. Dal 2014, questa rubrica è diventata un appuntamento immancabile, e anzi, in questo 2017, quasi l’unico appuntamento. Purtroppo il tempo da dedicare alla scrittura si assottiglia sempre più, complici il lavoro, gli impegni, la vita quotidiana; e però, alla mia personale classifica della miglior musica ascoltata in questi 365 giorni non voglio rinunciare, e quindi eccoci qui!

The Wonderful Eight of 2017

Una doverosa premessa: quello che leggerete, i vari album e le loro piccole recensioni, sono tutte poste in rigoroso disordine d’importanza. Questa classifica non ha posizioni. L’unica eccezione mi permetto di farla per il primo disco a proposito del quale ho scritto, l’album che più di tutti mi ha colpito, tanto da spingermi, dopo i primi ascolti, a pubblicare questo post un po’ naif (ma sincero) sulla mia pagina Facebook:

E ora, basta coi convenevoli e avanti con la lista!!

A Crow Looked At Me (Mount Eerie)

Seguo Phil Elverum e il suo moniker Mount Eerie da parecchio tempo, dopo averlo incontrato su suggerimento del sempre preparatissimo Alessio, mio compagno di avventure soniche da quasi 10 anni: per lungo tempo sono rimasto abbacinato e sconvolto da Clear Moon, un disco magico, sospeso, a tratti surreale, intriso di un senso di profondo stupore metafisico, sconquassato dalla potenza della natura (la stessa che avrebbe riempito di sé il successivo, complesso e stratificato Ocean Roar). Faccio questa premessa perché vorrei che ci fosse un modo di parlare di questo album, l’album che, se devo scegliere, mi ha sconvolto più di tutti gli altri in questo 2017, senza calarlo nel suo reale, doloroso contesto. A Crow Looked at Me nasce infatti dalla tragedia della scomparsa della moglie di Elverum, Geneviève Castrée Elverum, avvenuta il 9 luglio del 2016 in seguito a un cancro al pancreas: Geneviève aveva soltanto 35 anni, e la coppia aveva una figlia di neppure due anni; Geneviève era fumettista, illustratrice e a sua volta cantante; era la sua la voce che si può ancora ascoltare in Over Dark Water, sempre tratto da Clear Moon; ma, soprattutto, era per Elverum la compagna di tutta una vita. Ovviamente non ci sono parole che possano descrivere efficacemente la perdita, e in particolare una perdita del genere: non le posseggo certamente io, probabilmente non le possiede nessuno. Lo stesso Elverum ammette candidamente di non sapere cosa lo abbia spinto, dopo la scomparsa di Geneviève, a entrare nella stanza che ella aveva occupato nelle ultime settimane di vita e, usando gli strumenti musicali di lei, a comporre questa lunga, meravigliosa lettera d’addio: lettera che in realtà è fatta di tante lettere, giustapposizione e sovrapposizione di ricordi, momenti, episodi. Sono scomparsi i wall of sound crepitanti, le esplosioni sonore impastate al fragore espressionista dei sentimenti: restano 11 tracce esili, dimesse, toccanti in un senso che non è mai autoindulgente, ottenute per sottrazione, erosione, svuotamento, il tratteggio delicato di un’odissea personale dentro un dolore inesprimibile a parole. Si potrebbero sprecare tante pagine inefficaci, tristemente inadatte per descrivere ognuna di queste 11 piccole poesie che non vogliono essere altro che brevi racconti, rievocazioni di un ménage familiare troncato all’improvviso, evocazioni dolorose di ciò che è stato e non potrà più essere; la tangibile, eppure inesplicabile, esperienza dell’assenza, di qualcosa che è stato strappato via; la vita che continua, il sole che inonda le stanze, il sorriso di una figlia che cresce e chiede se la madre adesso stia nuotando (“Today our daughter asked me if maman swims./ I told her “yes she does, and that’s probably all she does now.”/ What was you is now borne across waves, evaporating.”, canta Elverum in Swims), l’assurdo proseguire inesausto del mondo così com’è, che continua a rotolare come al solito trascinando ogni cosa con sé. La comprensione netta, fredda come il metallo, che la morte è reale: Death is real, così si apre il disco, “Someone’s there and then they’re not/ and it’s not for singing about./ It’s not for making into art./ When real death enters the house/ all poetry is dumb.” Quello che c’è dentro questo splendido, splendido pezzo d’arte non si spiega facendo giri di parole; non si capisce analizzando le singole tracce, evocando le capacità tecniche, magnificando l’interpretazione; Elverum è un ottimo compositore, senz’altro, ma non è né un Hendrix né una voce indimenticabile. Ho sempre ammirato, fin dal primo momento, la sua sterminata capacità di mettere un’emozione reale dentro una matassa di suono violenta, senza per questo comprimerla, ma lasciando che fluttui enorme e libera sopra le teste di chi ascolta, dentro il loro cuore: oggi, purtroppo, quell’emozione reale è un groviglio di dolore che è anche solo difficile guardare dritto negli occhi, che fa tremare le ginocchia e toglie il respiro, per il quale non esiste coraggio, non esiste poesia; un maelstrom oscuro che toglie la terra sotto i piedi, le cui gelide meccaniche sono impossibili da comprendere, da dominare. Una delle mie poesie preferite del mio poeta preferito, Allen Ginsberg, scritta in morte di Neal Cassady, recita così: “OK Neal/ aethereal Spirit/ bright as moving air/ blue as city dawn/ happy as light released by the Day/ over the city’s new buildings –/ Maya’s Giant bricks rise rebuilt/ in Lower East Side/ windows shine in milky smog./ Appearance unnecessary now.” Forse è questo stesso sentimento, l’idea di uno spirito che si libra splendente e azzurro sopra il dolore, che ha spinto Elverum a titolare questo disco A Crow Looked at Me e non, semplicemente, Death Is Real. Quando si fa un passo e si oltrepassa la soglia di quella stanza, dove l’amata Geneviève ha trascorso i suoi ultimi giorni e dove Elverum ha composto questa elegia, quando si entra tra questi solchi, è difficile non avere la sensazione di violare uno spazio privato, un intenso sentimento che appartiene soltanto ai suoi protagonisti, un luogo sacro di connessioni; eppure, passo dopo passo, tra le pieghe di questi brani in cui saltano le rime e spesso salta lo stesso concetto di musicalità, in cui tutto è ridotto all’osso, all’essenziale, tra questi solchi, dicevo, si forma l’immagine di un uomo che non ha mollato la presa, l’immagine della bellezza nella disperazione di ciò che è perduto. La poesia di Joanne Kyger, coniuge di Gary Snyder, poetessa beat con cui Snyder, Ginsberg e Orlovsky viaggiarono in India all’inizio degli anni ’60, la poesia che campeggia sulla copertina dell’album, in fondo parla di questo: “La cosa migliore del passato/ è che è finito/ quando muori./ Ti risvegli/ dal sogno/ che è la tua vita./ Poi cresci/ e divieni post-umano/ in un passato che continua ad accadere/ davanti a te” (Per un caso della vita, la Kyger è morta proprio due giorni prima dell’uscita di questo album). Ma, per tentare anche solo di scalfire la superficie di questo meraviglioso album, forse possono aiutare davvero soltanto le parole dello stesso Elverum:

August 31st to Dec. 6th, 2016 in the same room where Geneviève died, using mostly her instruments, her guitar, her bass, her pick, her amp, her old family accordion, writing the words on her paper, looking out the same window.
Why share this much? Why open up like this? Why tell you, stranger, about these personal moments, the devastation and the hanging love? Our little family bubble was so sacred for so long. We carefully held it behind a curtain of privacy when we’d go out and do our art and music selves, too special to share, especially in our hyper-shared imbalanced times. Then we had a baby and this barrier felt even more important. (I still don’t want to tell you our daughter’s name.) Then in May 2015 they told us Geneviève had a surprise bad cancer, advanced pancreatic, and the ground opened up. What matters now? we thought. Then on July 9th 2016 she died at home and I belonged to nobody anymore. My internal moments felt like public property. The idea that I could have a self or personal preferences or songs eroded down into an absurd old idea leftover from a more self-indulgent time before I was a hospital-driver, a caregiver, a child-raiser, a griever. I am open now, and these songs poured out quickly in the fall, watching the days grey over and watching the neighbors across the alley tear down and rebuild their house. I make these songs and put them out into the world just to multiply my voice saying that I love her. I want it known.
“Death Is Real” could be the name of this album. These cold mechanics of sickness and loss are real and inescapable, and can bring an alienating, detached sharpness. But it is not the thing I want to remember. A crow did look at me. There is an echo of Geneviève that still rings, a reminder of the love and infinity beneath all of this obliteration. That’s why.

async (Ryuichi Sakamoto)

Ryuichi Sakamoto è rimasto in silenzio per 8 anni, prima di dare alle stampe quest’opera: otto anni nei quali molto è cambiato, per il mondo e per il microcosmo che si identifica con la sua persona. La malattia, la sofferenza, la degenza: Sakamoto ha affrontato tutto questo, dopo la diagnosi del cancro alla gola. Sarebbe difficile immaginare un disco come async astraendolo dal suo substrato, un contesto nel quale ci si misura con la malattia, la decadenza fisica, il senso di finitezza: la morte, di fatto. async ne emerge quindi come una raccolta di movimenti, appunti, composizioni apparentemente incompiute, sospese, una profondissima reazione alla sensazione pervasiva della morte, del freddo, del silenzio che avanza. Dentro c’è tanto del lavoro di Sakamoto nella sua trentennale carriera: c’è il neoclassicismo romantico sporcato da riverberi e feedback sintetici nell’opening di andata, c’è il piano preparato, cageano di disintegration, un brano spezzato, percussivo e asincrono, come da premessa; c’è la liturgia laica di solari, carica di reminiscenze da kosmische musik tratteggiate da synth corposi, e ci sono i riverberi emozionanti di ZURE, scanditi da poche, acute note di colore, strozzature sonore e piccoli glitch, loop fuori asse e sfarfallii al calor bianco; c’è la malinconia senza tempo di walker, un fondale composito di episodi concreti (alcuni dei tanti field recordings che scandiscono, calandoli nel reale, i momenti racchiusi nei vari pezzi) su cui Sakamoto sparpaglia accordi di piano e note che, occasionalmente, tratteggiano abbozzi di melodie sospese, intenzionalmente troncate; c’è il suono sci-fi di stakra, astratto e pulsante; il romanticismo sottomarino di ubi, un notturno scandito dal crepitio di un sonar che, come altrove è stato scritto, evoca compiutamente “l’apnea”; c’è il notturno gelido di fullmoon, una notte di luna piena nella quale le voci intessono un mantra rubando poche righe di Paul Bowles, autore di Il Tè nel deserto, alla cui trasposizione cinematografica, realizzata da Bertolucci, Sakamoto collaborò componendo la colonna sonora (diverse voci, in varie lingue, ripetono questa frase: “Ma poiché non sappiamo, finiamo per pensare alla vita come a un pozzo inesauribile. Eppure ogni cosa accade soltanto un certo numero di volte, e un ben piccolo numero, in effetti. Quante altre volte ricorderai un certo pomeriggio della tua infanzia, qualche pomeriggio che sia così profondamente parte del tuo essere per cui tu non possa nemmeno concepire la tua vita senza quelle ore? Forse altre quattro o cinque volte. Forse nemmeno. Quante altre volte guarderai sorgere la luna piena? Forse venti. E tuttavia tutto sembra senza limiti”); c’è il caos degli archi pizzicati nella title-track async, angosciante e claustrofobica; il metallo risonante di tri, pezzo per triangolo solo, che si scompone presto in singulto elettronico; c’è la voce di David Sylvian, consueto compagno di scorribande di Sakamoto, che recita una poesia di Tarkovskij padre in Life, Life, vero fulcro concettuale dell’intero lavoro, imperniato sulla meraviglia delle meraviglie, l’esistenza stessa; c’è il sapore indianeggiante di honj, e l’elettronica ambientale e rarefatta di ff, che conducono alla chiosa avanguardista e contemplativa di garden, in un caldo luogo ai confini del mondo conosciuto. C’è soprattutto un senso profondo di meraviglia, che nasce dalla contemplazione: ecco perché i versi di Arsenij Tarkovskij sono forse il modo migliore per chiudere queste poche righe confuse, renderle chiare, trasparenti; e, anche, per spiegare come mai Sakamoto stesso abbia voluto presentare questo lavoro sostenendo di intenderlo come la colonna sonora di un film di Andreij Tarkovskij, colonna sonora ideale e al contempo impossibile di un film immaginario/immaginato e che non vedrà mai la luce: un’opera profondamente metafisica, imperniata sullo stupore, costruita sulla meraviglia, impegnata nel perseguire l’assoluta e autentica bellezza, strappata all’orlo della morte per celebrare, delicatamente, la vita.

And this I dreamt, and this I dream,
And some time this I will dream again,
And all will be repeated, all be re-embodied,
You will dream everything I have seen in dream.

To one side from ourselves, to one side from the world
Wave follows wave to break on the shore,
On each wave is a star, a person, a bird,
Dreams, reality, death – on wave after wave.

No need for a date: I was, I am, and I will be,
Life is a wonder of wonders, and to wonder
I dedicate myself, on my knees, like an orphan,
Alone – among mirrors – fenced in by reflections:
Cities and seas, iridescent, intensified.
A mother in tears takes a child on her lap.

A Fever Dream (Everything Everything)

Quando arrivo a parlare degli Everything Everything, di solito, mi inorgoglisco sempre un po’. Il perché è presto detto: quando fecero la loro timida comparsa in Italia, agli inizi del 2011, non se li filava nessuno, ma a me bastarono circa 30 secondi del loro primo singolo, MY KZ, UR BF, intercettato per caso su MTV (sì, c’era ancora MTV, in chiaro…) per capire che in quei ragazzotti c’era del talento grezzo, e tanto (come raccontavo qui). Il seguito, si potrebbe dire, è storia, e mi ha confermato di averci visto lontanissimo: passando attraverso Arc e lo splendido Get to Heaven (già nei miei top del 2015), la maturazione dei quattro ragazzi di Manchester non si è mai arrestata, e questo quarto LP, A Fever Dream, non fa che confermare quanto di buono si è già visto, aggiungendo ancora qualche ingrediente alla ricetta. Come da titolo, questo album racconta di un sogno febbricitante, di quelli che ti fanno svegliare sudato: a suo modo, questo lavoro è un concept album incentrato sulla disumanizzazione delle società contemporanee, che trasformano gli esseri umani in automi incapaci di comunicare. Non è un caso che il disco si apra con un ironico omaggio alla notte dei lunghi coltelli, Night of the Long Knives, una resa dei conti sonica trascinante e tesissima che prelude alle sincopi e ai bassi profondissimi di Can’t Do; la splendida (nonché la mia preferita del mazzo) Desire, su cui ancora le ritmiche la fanno da padrone e Big Game continuano ad approfondire il rapporto tra l’alienazione personale e le dinamiche spersonalizzanti del potere, infiocchettando testi sempre ricercatissimi in un’espressività vocale estrema e teatrale, qua e là addirittura psicotica; Good Shot, Good Soldier rallenta il ritmo aprendosi in ritornelli pieni di spazio e conducendo all’apoteosi di Run the Numbers, con il suo ritornello graffiante tutto giocato sulle chitarre di Michael Spearman e il drumming spezzettato di Alex Robertshaw; poi c’è tempo per il lentone matematico e un po’ surreale di Put Me Together, sul quale il falsetto di Jonathan Higgs sale in cattedra, per i classicismi della title-track che sfociano in un diorama di perturbazioni elettroniche e sintetiche gestite ancora da Higgs e Jeremy Pritchard (come sempre insuperabile anche nel comporre linee di basso che ti verrebbe voglia di sposare, per quanto sono fantasiose, efficaci e perfettamente incastonate nelle ritmiche composite e spiazzanti di Robertshaw: parola di bassista!), per il minimalismo dal vago sapore tropicalista e schizofrenico di Ivory Tower, episodio estremo e tradizionalmente giocoso cui il quartetto ci ha abbondantemente abituato negli anni, per la sospensione ambientale di New Deep e, infine, per la chiusura quasi epica e rockeggiante (ma di un rock del futuro, di là da venire) di White Whale. A Fever Dream conferma l’immagine di una band poliedrica, capace di una proposta musicale sfaccettata e inclassificabile, che spazia dal prog-rock all’R’n’B, dall’elettronica all’indie rock al Jazz: un’opera che unisce morbidezza e complessità, profonda senza essere freddamente analitica, vibrante e nevrotica senza negarsi alla riflessione. Quello degli Everything Everything è un labirinto sonoro affascinante, complesso ma fluido, naturale: un caleidoscopio musicale nel quale è facile perdere la propria identità, se non si hanno le idee ben chiare. Fortuna vuole che Higgs e soci, oltre ad avere talento da vendere, abbiano anche una ben precisa idea di cosa mettere a fuoco e di come farlo. Certo, se cercate i singoloni spacca-classifica resterete delusi: dentro A Fever Dream troverete piuttosto un universo sonoro in espansione, una pietra filosofale complicata e fragile, elegante e curatissima, scampoli di abbacinante bellezza e una coesione complessiva da fare invidia a diverse band ben più quotate e note. Rispetto ai capitoli precedenti, le atmosfere sono infatti più definite e compatte, pur restando intimamente sfaccettate: il tono complessivo, che lega assieme gli 11 brani nella riflessione sulla disumanizzazione nelle società moderne, da cui siamo partiti, impone una minore erraticità nella composizione che si traduce però in una più efficace mise en espace. Tradotto, c’è un andamento meno altalenante e più compatto del solito: non un male, volendo realizzare appunto qualcosa di simile a un concept album vecchia maniera. Comunque, stiamo parlando di vette da giganti, in una mescolanza di pop-rock e spericolate composizioni prog ed elettroniche che non può lasciare indifferenti gli amanti di una musica concepita come continua evoluzione, reinvenzione e camaleontica trasformazione.

Sleep Well Beast (The National)

Sleep Well Beast mi è apparsa subito, fin dai primi ascolti, come un’opera di sottrazione: un disco scavato e consumato, ridotto ai minimi termini, in cui i crepitii e le infiltrazioni elettroniche divengono strumento e non mera decorazione, facendosi necessità; un disco di abbandono e resa, di malinconica rassicurazione, caldo sebbene concepito chiaramente strappando il senso alle più buie tra le notti. Sleep Well Beast è spiazzante, se confrontato agli ultimi dischi della band: è un disco oscuro, non più così perfettamente orchestrale, come dichiara lo stesso Aaron Dessner un lavoro “meno ordinato e curato; però risulta in qualche modo più chiaro”; contiene la disillusione, la malinconia del tempo che passa e dell’incapacità di incidere sui propri tempi e sulla propria esistenza (figurarsi su quella degli altri), la crisi dei rapporti e quella personale, la consapevolezza che il tempo che passa porta con sé l’invecchiare, il dover trovare un nuovo spazio, nuovi modi. Il rinnovamento che si respira nei solchi di queste 12 tracce è tutto sotterraneo, sussurrato, un’architettura fragile e complessa di piccoli suoni e perturbazioni elettroniche di sapore radioheadiano (à la Kid A, per capirsi, seppur con minore alienazione e paranoia) ma pure calde, avvolgenti, volte ad un’introspezione totale, profondissima, chirurgica. L’inizio è affidato al piano di Nobody Else Will be There, dichiarazione di resa temporanea sussurrata a mezza voce dal baritono di Berninger, note sgocciolate su un sottofondo ritmico monotono crescente, preludio alle frenate e alle ripartenze di Day I Die, più vicino al classico suono garage e post-rock della band; segue la bellissima Walk It Back, rimbalzi sintetici su cui si innesta la batteria di Bryan Devendorf, sempre eccezionale e, dopo il ritornello, un riff di chitarra che strappa applausi e si incastra alla perfezione con altre perturbazioni elettroniche varie ed assortite, in un microcosmo sonoro raffinato e emotivamente trascinante imperniato su un crescendo instabile ma profondamente affascinante; The System Only Dreams in Total Darkness incarna alla perfezione il nuovo corso, un elegante e compatto quadro di increspature elettriche imperniate su un drumming sincopato, il tutto confezionato in una perfetta tessitura di piccole perturbazioni e coloriture sintetiche, un insieme sul quale (oltre al meraviglioso ritornello) si staglia un assolo chitarristico graffiante che sfocia in una pioggia di riverberi malinconici e indimenticabili; Born to Beg è un’altra piano song fatta di beats frammentati, corrosa dall’elettronica minimale, imperniata sul cantato sempre coinvolgente di Berninger; Turtleneck un episodio old-style che sembra fuori contesto ma, magicamente, ci sta; Empire Line una composizione astratta di beats e arpeggi riverberati e carichi di modulazione che si gonfia di un trasporto emotivo tanto forte da essere quasi intollerabile, in un crescendo di batteria e svisate appena trattenute delle chitarre; I’ll Still Destroy You un episodio tirato, imperniato sull’incastro tra la batteria di Devendorf e le percussioni sintetiche che scandiscono il brano, perfetto apripista per la piano ballad di Guilty Party, costruita su un giro di pianoforte sovrapposto a una piccola costellazioni di suoni sintetici frammentari e sbriciolati, una specie di supernova di echi e sporcature, in un equilibrio precario sempre sul punto di venire fragorosamente meno; Carin at the Liquor Store è invece una piano song più classica, simile per certi versi a Pink Rabbits, meravigliosamente fragile e elegante nel suo incedere scarno e pulito fino all’assolo di chitarra lunare e straniante che si spegne nell’ultimo ritornello, uno dei picchi emozionali e compositivi dell’intero lavoro; Dark Side of the Gym racconta di una storia d’amore in maniera piuttosto struggente, con un sound complessivamente new-new-wave, basato sul piano e su una batteria geometrica, una ballad tempestata da infiltrazioni elettroniche aliene che la attraversano come torrenti carsici, affiorando qua e là alla superficie, un’ottima base di lancio per i loop IDM di batteria elettronica e tastiera su cui Berninger intesse il parlato apatico di Sleep Well Beast, che si inabissa verso la conclusione del lavoro in un’atmosfera che invero fa ancora molto Kid A. La precisa sensazione che si forma nella mente dell’ascoltatore al termine del minutaggio di Sleep Well Beast è che questo disco sarà assai difficile da superare per il quintetto di Cincinnati, ormai di base a New York. Sleep Well Beast rappresenta di fatto, come dicevo all’inizio, una risposta all’arroganza del tempo che passa: il baritono di Berninger non è più lo stesso di qualche anno fa, questo disco scarno e costruito per sottrazione e stratificazione di suoni satellite era l’unica risposta possibile a questo tempo che scorre, l’unica forma sonora capace di affrontare e restituire il mondo dei National per come esso è oggi. Sleep Well Beast è un lavoro lento, malinconico, abissale a volte nel suo avvitarsi attorno alle nostalgie, al senso di abbandono, che negli arrangiamenti minimalisti intesse un rock da camera, introspettivo, sul quale la voce di Berninger, oscillante, ora stentata ora potente, possa occupare lo spazio in maniera efficace e coinvolgente, con le chitarre nascoste a fare capolino tra le turbolenze sintetiche e i singhiozzi elettronici, disegnando un’atmosfera crepuscolare, un notturno nel quale la band mette a nudo debolezze, crisi, silenzi. Mi ripeto: una prova talmente alta che sarà difficile riuscire a pareggiarla.

Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood (Sun Kil Moon)

C’è un punto di Seventies TV show Theme Song in cui Mark Kozelek recita/canta/biascica i due versi che seguono: “Maybe you’ll hear it and say, “I prefer your older songs.”/ Or maybe the world has changed and I’m not that songwriter anymore”. Penso che questi due versi spieghino meglio di ogni altro giro di parole la mutazione che è iniziata apertamente con Benji (disco già discusso nella top del 2014) e ha condotto fino a questo torrenziale doppio album, uscito all’inizio dell’anno: una mutazione che ha messo a dura prova schiere di fan acquisiti magari proprio con Benji (che pure conteneva in nuce, a ben guardare, tutti i semi che avrebbero fruttato negli anni a seguire), per non parlare della critica, che ovviamente non gliel’ha perdonata (non che a Markolino, come leggenda vuole, interessi qualcosa della critica musicale). Per sgombrare il tavolo dagli equivoci, va detto subito che questo lavoro non è esattamente easy-listening: si tratta di circa 130 minuti divisi in 16 tracce, un minutaggio monstre per una musica ricca, ricchissima, debordante di parola, più spesso parlata che cantata (ma molto meno, in proporzione, rispetto al precedente Universal Themes del 2015, anche’esso già discusso qui), ricca di riferimenti, densa di date, nomi di persone e luoghi, numeri di biglietti aerei, orari, inframezzata da conversazioni immaginarie o riportate filologicamente, dalla lettura delle ormai immancabili lettere dei fan (che vuoi negare a Markolino l’angolo della posta del cuore?), da riflessioni più o meno a ruota libera su ogni genere di argomento. Messa così, sembra un gran casino e in effetti lo è: eppure questa poetica delle piccole cose vere funziona. Ha prodotto dapprima un capolavoro come Benji, un arazzo sentimentale che unisce il particolare all’universale con una sensibilità e una proprietà di linguaggio che solo Malick con The Tree of Life era riuscito a raggiungere (col mezzo cinematografico, completamente differente) e oggi produce album come questo Common as light and love are red valleys of blood che riescono a restituire in musica il senso e il sapore della vita reale, quella fatta di piccoli gesti, di piccole soddisfazioni e scorni quotidiani, il senso della fatica, il desiderio, i sogni, la noia che permea ogni minuto, la ripetitività degli eventi: un’operazione letteraria, prima ancora che musicale, di portata enorme. Questi 16 brani sono un enorme contenitore di ossessioni e temi tipicamente Kozelek-style: dalle memorie dell’infanzia, della terra d’origine e dei genitori (God Bless Ohio), alla violenza gratuita e il difficile rapporto tra gli americani e le armi da fuoco (Philadelphia Cop, Window Sash Weights, Bergen to Trondheim); da Trump, il trumpismo e il mondo triste ai tempi della solitudine dei social network (Lone star), agli scazzi contro il rock da supermercato (Vague Rock Song). Dentro questo disco c’è tutto Kozelek all’ennesima potenza, un concentrato di ossessioni personali cui calza a pennello il clima di decadimento da fine impero che (innegabilmente) ci circonda: le sue riflessioni moralistiche sulla politica, l’abuso delle armi da fuoco, l’abuso dei social media, l’abuso dell’intrattenimento in generale (si vedano le tirate sui vip), lo sfigatissimo 2016 del mondo della musica, non sono che un sincero grido di allarme, neppure del tutto ingiustificato dato l’andazzo generale. Oltre a questo, Common as love and light are red valleys of blood è musicalmente il prodotto più sperimentale e bizzarro della quasi trentennale carriera di Kozelek: si va dal drum & bass che domina la maggior parte dei pezzi alle solite tirate folk-rock, inframezzate da blues acidini, stranezze sintetiche, rap urbani, momenti giocosi di comicità volontaria (il dialogo mimato tra i giornalisti ancora in Philadelphia Cop). Un meraviglioso guazzabuglio guidato dalle ritmiche implacabili di Steve Shelley, su cui Kozelek deve soltanto “continuare a salmodiare”, e la cosa bella è come riesca a infilarci dentro di tutto, dai suoi piatti portoghesi preferiti alla poesia più corta del mondo, composta da Muhammed Alì (quel “me we” che diventa splendido ritornello di Bergen to Trondheim); dalla sua inquietante fascinazione per i serial killer e le storie di violenza e malignità (la scomparsa di Elisa Lam, l’ormai onnipresente Richard Ramirez, le varie stragi che sconquassano quotidianamente gli Stati Uniti e l’intero mondo, gli attentati terroristici a Nizza) alle le sviolinate amorose per la fidanzata Caroline; dalle tirate polemiche contro la discriminazione dei transgender in Texas (Lone Star) a un commosso, sincero e davvero potente ricordo di un amico scomparso (Butch Lullaby), fino alla lucidità con la quale si riesce a riconoscere, senza giri di parole, che Trump e ciò che rappresenta è qualcosa che l’intera società americana ha voluto (ancora Lone Star: “He is a hundred percent full-on our creation/ He is proof that we choose apps over education/ He is proof of our mind-numbing Internet obsession/ He’s the result of our dumb-fuck-starin’-at-our-phones attention span limitations”, e la chiosa manco a dirlo è affidata alle parole di George Carlin, “I believe you have to be asleep/ To believe in the American Dream”). Ora, può darsi che uno non abbia sempre la forza d’animo di sobbarcarsi 130 minuti di musica, pure se fosse un fan sfegatato di Kozelek/Red House Painters/Sun Kil Moon, pure se restasse ammaliato dal drumming di Steve Shelley, eccetera eccetera: però non si può negare che il potere di questa musica va oltre la semplice canzone, va appunto dal particolare all’universale, e nella raffigurazione malinconica di un mondo in condizioni disperate aiuta a riconoscere le più vere e profonde radici della necessità di restare vicini. Chapeau.

Way To The Ice (Werner)

Dei Werner e del loro ultimo lavoro su questo blog si è già discusso ampiamente, e chiunque abbia seguito le mie peripezie su queste pagine saprà del debole che ho per questa band: di tutte le collaborazioni che sono riuscito a imbastire con altri musicisti, quelle col duo pistoiese sono quelle che mi rendono maggiormente orgoglioso. I Werner, come devo aver già detto, prendono il nome da uno dei miei autori cinematografici preferiti, Werner Herzog, e da sempre propongono una musica fatta di movimento, profonda ed elegante, piena di suggestioni: realmente cinematografica. Questo Way To The Ice non è che la trasposizione in musica del diario di viaggio tenuto da Herzog durante il suo incredibile tragitto a piedi da Monaco di Baviera a Parigi, tra il 23 novembre e il 14 dicembre del 1974, per raggiungere la critica cinematografica Lotte Eisner, sua grande amica, ricoverata in fin di vita nella capitale francese (diario di viaggio pubblicato anche in Italia da Guanda col titolo di “Sentieri nel ghiaccio”). Per capire l’uomo, basti considerare che l’intero viaggio si basò su un voto: se avesse raggiunto Parigi a piedi, Herzog si disse certo che la Eisner sarebbe sopravvissuta. Ne nacquee un viaggio d’altri tempi, descritto in pagine profondissime e che prendono magicamente vita, intrise di descrizioni che sfociano in sogni a occhi aperti, deliri della fatica e momenti di scarna e cronica lucidità incastonati in un’opera potente e che non può essere dimenticata facilmente. I Werner non fanno che accompagnare queste pagine con la loro musica, creando una meravigliosa colonna sonora per i passi compiuti da Herzog: un disco erratico, il disco di un viandante, dall’incedere lento come quello di chi cammina ed è “perciò un indifeso”, per usare le parole dello stesso Herzog. La musica di queste 10 tracce è fatta di rapimenti estatici, momenti di folk disteso squassati da rumori o accarezzati dall’archetto del violoncello, passaggi ambient che sembrano dipingere paesaggi e suggerire orizzonti, vie di fuga prospettiche e squarci di sole tra le nubi e la neve. Il cammino dei Werner in questo Way to the Ice è seducente quanto il racconto dell’incredibile viaggio di Herzog: un cammino da affrontare come una sfida, una delicata melodia su cui lasciarsi trasportare lontano. Con la delicatezza e la sensibilità che è propria dei più grandi artisti, i Werner compongono un’opera affascinante che cattura e trasporta lontano, nella quale è la profonda coerenza dell’insieme a dominare, rendendo impossibile prediligere alcuni momenti rispetto ad altri, ma conferendo al tutto una ricchezza inalienabile, e facendo di Way to the Ice un unico fluire emozionale ininterrotto, un viaggio che non smetterete mai di aver voglia di affrontare.

30 Seconds To The Decline Of Planet Earth (Jesu/Sun Kil Moon)

Nel caso non si fosse capito da che parte sto, piazzo il secondo disco made in Kozelek del 2017 in questa mia top. Si tratta stavolta del secondo capitolo della collaborazione tra Kozelek e Justin Broadrick, sotto il nome di Jesu/Sun Kil Moon. Lo scorso 2 giugno (cioè giusto in tempo per il mio compleanno) il dinamico duo ha dato in pasto al mondo 30 Seconds To The Decline Of Planet Earth, un album chiaramente ottimista fin dal titolo e che vince a mani basse come miglior copertina dell’anno (tanto che l’ho perfino piazzata su Instagram, come si vede qui di seguito)

Rispetto all’esordio del 2016, finito nella top dedicata, passano in secondo piano le distorsioni e la vena compositiva di Broadrick si esprime soprattutto su corde “ambientali”, creando un’elettronica discreta e minimale che fa da perfetto sfondo alle divagazioni dei testi di Kozelek, che spaziano come al solito (e come nell’album dei Sun Kil Moon di cui poco sopra) dal rapporto coi genitori (al padre è dedicato l’opening commosso di You Are Me and I Am You) a quello coi fan e col mondo della boxe, ampiamente descritto nei 17 minuti di Wheat Bread; dall’incontro con Laurie Anderson, vedova di Lou Reed, descritto in The Greatest Conversation Ever in the History of the Universe alle pesantissime accuse rivolte a Michael Jackson e allo star system tutto in He’s bad; dal ricordo dell’amico scomparso John Hughes, cineasta hollywoodiano autore di numerose commedie di grande successo e direttamente coinvolto nella pubblicazione e distribuzione di Songs for a Blue Guitar, album dei Red House Painters uscito nel 1996 grazie alla label dello stesso Hughes, ricordo affidato a Hello Chicago, al racconto di un incontro con un aspirante scrittore dal nome peculiare e musicalissimo di Johnny St. Lethal, cui Kozelek augura tutto il meglio per una sfolgorante carriera letteraria (in Twenty Something); dai viaggi imposti dai numerosi tour, descritti con grande dettaglio in Bombs, alla delicata conclusione di A Dream of Winter, incentrata sulla pace del focolare domestico. Vi confesso che, la prima volta che ho ascoltato questo disco, ho dubitato: i 17 minuti di Wheat Bread metterebbero a dura prova tanti, e la situazione (un treno tra Milano e Firenze) non era troppo congeniale. 30 Seconds To The Decline Of Planet Earth è un disco che reclama tempo, come tutte le cose difficili: ma ripaga. Ripaga nei suoi eleganti momenti elettronici e ripaga quando Kozelek torna a vestire i suoi panni di songwriter folk-rock, nei 13 minuti scarsi di Bombs e nella splendida chiosa in stile Admiral Fell Promises di A Dream of Winter; anche qui, la poetica delle piccole cose vere, del particolare che diventa universale, costituisce il sale dell’intero racconto, l’elemento che permette all’amalgama di spiccare il volo dalla quotidianità a quegli Universal Themes già affrontati nel lavoro omonimo dei Sun Kil Moon, uscito nel 2016. C’è tanta bellezza pura, purissima, e tanto talento nelle 9 tracce che costituiscono questo lavoro: e, anche se qualcuno potrebbe dirvi che c’è soprattutto tanto mestiere, vi prego di tenere sempre a mento che in realtà c’è dentro tanta esperienza, e che le due cose sono assai diverse tra loro.

Rennen (Sohn)

Questo disco l’ho ascoltato per caso: mi trovavo a Berlino, Friedrichstrasse, dentro un negozio di souvenir (credo) piuttosto ricercati, bloccato in citta dall’impianto di raffreddamento capriccioso della mia Ford Fiesta in attesa di riparazione. Ero piuttosto agitato, e dalle casse è uscito un brano estremamente etereo, pochi accordi di pianoforte sparpagliati con delicatezza su cui una voce calda e estremamente emozionante si contorceva parlando di qualcosa che ha a che fare con la perdita: non lo sapevo, ma stavo ascoltando la title-track del secondo album di Sohn, esponente di un inglesissimo genere di nu-soul/elettronica in trasferta in Austria (dove pare si respiri un’aria assai più ispirante di quella londinese) ma di stanza a Los Angeles. Recupero il mio consueto vuoto aiutandomi con Shazam (chissà Mark Kozelek come sarebbe fiero di me…!) e corro da Dussmann- Das Kulturkaufhaus (poco più in là) a comprarmi il CD. Dentro ci trovo una musica eterea e geometrica, astratta, perfettamente in linea con l’artwork minimale: 10 pezzi di soul venato di elettronica, esili strutture sonore sulle quali si libra un cantato sempre caldo, carico di suggestioni, mai respingente. Si fa presto a innamorarsi di certi episodi dell’album: la title-track Rennen, certo, ma anche e soprattutto la splendida Signal, zoppicante e romantica ballad fatta di pause e riverberi, che si insinua nella testa e non ne esce con facilità; la ritmica scandita di Conrad e l’outro trascinante di Harbour, perfetta chiusura sospesa tra soul distaccato e dubstep sporco e cattivo, che inizia piano piano e si spegne fragorosamente e all’improvviso; ma il momento più alto è forse da cercarsi nel disteso oceano di note basse e riverberate di cui si nutre la favolosa Still Waters, una fragile costellazione di suoni crepitanti che fa da sfondo per l’ennesima linea melodica vocale di profondo impatto emotivo, col fronte sonoro che ondeggia da destra a sinistra attraversando elegantemente tutto lo spazio a disposizione, una specie di brano 3D straniante e che lascia davvero a bocca aperta. I paragoni facili per questo lavoro sono James Blake, soprattutto, ma anche SBTRKT e compagnia cantante: quello che fa la differenza, qui, è la capacità del nostro di scrivere pezzi eleganti ma fondamentalmente pop, nell’impianto e nelle intenzioni, dieci brani perfetti perché ridotti all’osso, non inutilmente sovraccarichi o sovraprodotti. Per intendersi, l’opposto dell’ipertrofia che nutre (tanto per citarne uno) l’ultimo James Blake di The Colour in Anything, un disco fuori fuoco in cui a 7-8 ottimi pezzi (brani grandiosi, a dire il vero) si mescolano una decina di riempitivi imperdonabili (e di cui ho parlato con disappunto nella top dello scorso anno). Rennen di contro è un disco completamente a fuoco, astratto e minimale ma innervato di un’eleganza pop non comune: un autentico gioiello, una gioia per le orecchie (e per il cuore).O, se preferite, si può dire che Sohn abbia semplicemente preso meglio la mira.

E poi ci sono gli altri dischi dell’anno, quelli che restano un momentino indietro…

Ci sono stati i Vök, quest’anno, al loro debutto discografico con Figures: è un disco agile anche se un pochino esile, nel quale c’è tanta carne al fuoco e un’idea sonora affascinante. La voce di Margrét Rán è una di quelle esperienze che non si dimenticano, e la commistione di dream pop e elettronica leggera (arricchita dall’insolito ricorso al sassofono di Andri Már Enoksson) colpisce nel segno, producendo 10 brani concepiti come dieci potenziali singoli. L’esperienza farà bene al quartetto islandese, che riuscirà senz’altro a crescere e imparare a evitare qualche passaggio meno convincente: come si suol dire, si faranno. Io ho avuto la fortuna di conoscerli personalmente e di sentirli suonare praticamente in prima fila sotto il palco del Serravalle Rock, dove hanno fatto il loro debutto italiano assoluto, in una cornice a dir poco magica. Personalmente, mi aspetto molto e sono convinto che sarò accontentato.
Dovrei poi menzionare che a
Berlino ho comprato anche un altro disco, perché (lo ammetto) aveva una copertina meravigliosa: The Arc of Tension, del producer tedesco Oliver Koletzki. Devo riconoscere che, dopo qualche ascolto, la proposta musicale di Koletzki mi ha lasciato un po’ freddino: ma, a mia discolpa, posso dire che, quando mi trovo a Berlino, è come se fossi innamorato, e da innamorati a volte si fanno cose un po’ pazze. È anche un peccato, in realtà, perché alcuni dei brani hanno una bella atmosfera ma impattano sopra altri che sono invece soprattutto ossessivi e molto classici pezzi house: ho trovato interessante soprattutto la tentata commistione tra motivi tribali e stilemi contemporanei, però (colpa mia, lo so) un pezzo di 7 minuti fatto solo di cassa in quattro e bassi talmente profondi da sfondarmi l’impianto stereo io proprio non ce la faccio a portarlo in fondo! Personalmente direi che, spingendo più sul racconto, sulle texture e sui suoni e meno sull’elemento più prettamente dance, anche da qui potrà uscire, in futuro, qualcosa di molto convincente.
Questo è stato anche l’anno del ritorno discografico degli
Slowdive, a distanza di 22 anni dall’ultimo, splendido (e largamente incompreso) Pygmalion: questo album omonimo io l’ho ascoltato poco, e con grave ritardo sulla sua uscita, e questa è probabilmente la ragione per la quale si trova in questa breve appendice. Non serve che ricordi come io sia un fan totale di Neil Halstead, da quando ho avuto la fortuna di sentirlo dal vivo accompagnare un live dei Sun Kil Moon; né sarà necessario menzionare quanto ami Souvlaki e, anche, Spoon and Rafter dei Mojave 3, reincarnazione folk dello shoegaze chitarristico degli Slowdive, moniker col quale Halstead e Goswell hanno realizzato altri ottimi dischi tra i novanta e i primi duemila, prima di concentrarsi sulle proprie carriere soliste e tornare a riaprire, nel 2014, il discorso Slowdive. Dovrei far stratificare un po’ di più questo lavoro, che rimanda a memoria le suggestioni dei vecchi dischi di vent’anni fa: forse anche un po’ troppo. Perché il rischio è sempre quello: tornare da un vecchio amore per scoprire come esso non abbia avuto il coraggio necessario a lasciarsi il passato alle spalle, cambiare, mutare, diventare diverso. Le melodie cristalline di Halstead sono sempre quanto di più bello possiate ascoltare in giro, e non si può che ringraziare che canzoni così belle vengano dispensate con tanta generosità: quanto all’originalità del lavoro, beh, a ben guardare forse non è nemmeno quello che si chiede a un gruppo come questo, a un album come questo e in tempi come i nostri. E comunque, Slowdive contiene un sacco di musica meravigliosamente, dolcemente romantica: che non è poco, in questi anni tristi.

E come dimenticare i dischi dell’autostrada?

Come forse già saprete, io sto parecchio in macchina nei tragitti casa-lavoro, e occupo il tempo ascoltando quanta più musica possibile. Oltre a quanto già discusso, quest’anno mi sono principalmente dedicato alla riscoperta della discografia degli U2 (ora riempitemi pure di ingiurie): dai dischi più vecchi (War, October) fino a The Unforgettable Fire (ho barattato il vinile con una copia del nostro disco, aggiungendo la differenza, dopo il nostro concerto di presentazione del video di Haiku/Ero al Vinyl Pit di Pistoia, dall’amico Matteo Parlanti), The Joshua Tree (del quale quest’anno ricorreva il trentennale) e poi Achtung Baby (un disco che adoro da almeno 15 anni, quando mi comprai il CD al vecchio Tam Tam di Pistoia: solo amore per Until The End of The World e il trittico conclusivo Ultraviolet/ The Acrobat/ Love is blindness), Zooropa, Pop… anche se, dopo la splendida colonna sonora di The Million Dollar Hotel, Bono & Co. si sono un po’ smarriti, quanto è stato fatto negli anni resta.
Nel clima revival, mi sono riascoltato pure i
Police: Reggatta de Blanc (ma che pezzo è Bring on the Night??? Per non parlare di Message in a bottle,
Walking on the moon…), Synchronicity (con la splendida Tea in the Sahara), con una puntatina su The Dream of the Blue Turtle, debutto solista di Sting, un disco pop di una ricchezza e eleganza oggi inconsuete (se non lo avete ancora fatto, guardatevi il documentario Bring on the night, diretto da Michael Apted, che immortala quella fantastica band dal vivo: non so se mi spiego, parlo di Omar Hakim, Branford Marsalis, Darryl Jones…).
Ho poi riscoperto le varie b-side di
OK Computer dei Radiohead, sfruttando la pubblicazione dell’edizione celebrativa del ventennale, OK not OK: niente che non avessi già sentito, ma insomma… fa sempre piacere!
Ho incontrato
Kavinsky, che abbiamo tentato di omaggiare con una cover di Nightcall, e ritrovato vecchi amici che non ascoltavo da un po’ (tipo i Genesis). Insomma, ho tenuto le orecchie occupate al meglio!

In breve, ho visto anche qualche live…

Quando vuoi andare a vivere da solo, hai pochi soldi da dedicare ai concerti da vedere e molto tempo da dedicare ai rimpianti per quello che ti sei perso. Ergo, sul fronte live si è fatto poco (ma quel poco, lo si è fatto bene).
Due righe vanno spese per il live dei
Radiohead a Firenze, lo scorso 14 Giugno: per pura botta di culo (e colossale anticipo sull’inizio), riusciamo a entrare nella zona transennata a ridosso del palco. Il resto sono le ritmiche forsennate dell’ensemble indiano dei Rajasthan Express, che con Jonny Greenwood e il compositore israeliano Shye Ben Tzur hanno dato vita al progetto racchiuso nei solchi di Junun; il live disteso e riflessivo di James Blake (bravo, ti sei fatto perdonare quello che considero il mezzo passo falso dell’ultimo disco), scintillante quando il ritmo si impenna; e poi la scaletta dei Radiohead, in bilico tra il futuro e i fasti del passato: non vi dico la goduria quando inanellano in sequenza Airbag, 15 step, Myxomatosis, Lucky, Pyramid song, Everything in its right place e Let down. Dopo una scarica di pezzi del genere, un concerto qualunque sarebbe finito, ma non il loro. Poco altro da aggiungere.
Il 29 luglio, con un caldo tropicale, mi trovavo a sudare dentro la rocca di
Serravalle Pistoiese insieme agli islandesi Vök (che a dire il vero parevano leggermente più in difficoltà di me, con quasi 40 gradi…), dei quali ho brevemente parlato poco sopra. Il loro live, nella cornice splendida della rocca di Castruccio, si è trasformato in un’apoteosi di suoni e luci, un’ora trascinante, tratteggiando i contorni di una dimensione nella quale la musica di Margrét Rán e soci sembra poter dare il meglio di sé.
I concerti che ricordo con maggior piacere, però, sono quelli degli amici: la presentazione del disco dei
Werner a Pistoia, il 29 Aprile; il release party dell’ultimo EP dei Planters Punch a Quarrata, il 25 Maggio; e poi quelli che, nel mio piccolo, ho contribuito ad organizzare, come il MelaVerde Festival MVR17, tre serate tra 30 Giugno e 2 Luglio, funestate dal maltempo ma comunque meravigliose, ospitando Alessandro Fiori, gli stessi Werner, Marco Parente e le band della nostra etichetta. Tutto bello, tutta fatica per la quale è assolutamente valsa la pena, tutti meravigliosi ricordi da portare con sé nell’anno che verrà. Ah, quasi dimenticavo: buon 2018 a voi!

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