My very “best of 2019” in music

Lo so che, nonostante la mia prolungata assenza da queste pagine, morivate dalla voglia di sapere quali dischi avessero colpito il mio immaginario in questo lungo, lunghissimo 2019, e siccome per le feste siamo tutti più buoni io sono qui per soddisfarvi! Ecco quindi a seguire 10 belle, bellissime cose che ho amato di questo 2019 in musica più un consiglio non richiesto su qualcosa da tenere d’occhio per l’anno che verrà: allacciate le cinture e preparatevi a fare molti, moltissimi scroll… (ah, al termine di ogni recensione troverete il player Spotify dell’album; come di consueto, qualora presenti, ho aggiunto nel testo delle recensioni anche i link YouTube a ogni singolo brano, per chi a Spotify proprio non volesse cedere)

The Magnificent Ten of 2019 + 1 classic unsolicited suggestion

Solita premessa per i Cristiano Ronaldo della musica: qui non si fa a gara, non ci sono competizioni, non ce ne sbatte una beata minchia di chi sia il chitarrista (ovviamente metallaro) che sa fare gli assoli più tecnici e con la cascata di sessantaquattresimi più veloci e nitidi a 240 bpm, oppure chi il musicista-indie-con-l’atteggiamento-più-figo-dell’anno, né tanto meno ci interessa distribuire pagelle. Astenersi narcisisti e drogati di competizione. Qua si va per lo più a braccio, tipicamente a caso quando non regolarmente a cazzo. Nel caso ci fosse qualcosa che mi abbia sconquassato i precordi più della media, non mancherò di farvelo notare: di solito non sono avaro con le parole.

I am easy to find (The National)

Che cosa si può dire di una band che, a vent’anni dall’inizio della propria carriera, riesce a tirare fuori il disco più potente della propria intera discografia? Il Capolavoro, si potrebbe dire, abusando di un termine già largamente abusato. Eppure questo album che è anche un film che non è semplicemente un album è probabilmente proprio questo, il capolavoro sempre sfiorato che giunge dopo un disco potente e doloroso come lo era stato, solo un paio di anni fa, Sleep Well Beast (ne parlavamo qui). Già per quest’ultimo, Matt Berninger e soci avevano cercato di instillare nuova vita nel proprio sound introducendo l’elettronica, dipingendo un meraviglioso notturno fatto di silenzi, debolezze, sofferenza e dolore, una riflessione sincera sull’arroganza del tempo che scorre, fatta di sottrazione e stratificazione, quella che a suo tempo avevo definito “una prova talmente alta che sarà difficile riuscire a pareggiare”. Non è un mistero che la band fosse giunta quasi allo stallo dopo Sleep Well Beast: difficile, in effetti, andare oltre. Eppure non si fa musica soltanto con la musica, e a chi racconta questa vecchia scemenza basterà un ascolto di I am easy to find per capirlo: un disco che nasce dall’iniziativa di Mike Mills, film-maker, che propone a Berninger di portare avanti un progetto in comune, uno qualunque, un video, un film, quello che viene. E quello che è venuto è stata la scintilla creativa, un film di 24 minuti con Alicia Vikander nei panni della protagonista e un album di 68 minuti, dove il film non è il video dell’album, e l’album non è banalmente la colonna sonora del film. Piuttosto, si tratta di un’interazione: nelle parole di Mills, film e album sarebbero “Playfully hostile siblings that love to steal from each other”. Dunque parlare di I am easy to find significa, giocoforza, anche parlare di un narrato e di una narrazione: l’album è composto infatti come un’opera cinematografica, una successione di sequenze, un’opera resa corale dalla scelta, del tutto inattesa e persino straniante, per chi è abituato al tono di voce baritonale di Berninger come voce-guida ed elemento immediatamente riconoscibile dell’estetica del quintetto di stanza a New York, di affiancare il leader della band a una serie di splendide voci femminili, spessissimo incaricate di gestire la linea melodica principale, cui Berninger fa da accompagnamento. Ecco susseguirsi allora al microfono Gail Ann Dorsey, Mina Tindle, Lisa Hannigan, Sharon Van Etten e Kate Stables (This is the Kit), tra le altre, a introdurre l’elemento vocale femminile, qualcosa di assolutamente inusitato e inatteso, ed ecco la magia: il suono dei National resta proprio quello ma l’operazione lo arricchisce di uno spessore mai provato in precedenza, rendendo queste 16 tracce qualcosa di simile a un dialogo a più voci, pieno di sfaccettature, di prospettive e punti di vista. Di I am easy to find si può dire, seguendo la traccia fornita dal film (che, tra parentesi, è meraviglioso e si può vedere nella sua interezza qui), che sia fondamentalmente incentrato sulla storia di una vita, quella della sua protagonista: è il racconto del tempo che scorre, delle esperienze che cambiano la vita di ogni persona, di tutto ciò attraverso cui si passa per divenire ciò che si è. La narrazione è accompagnata da 16 sequenze musicali: si comincia con You Had Your Soul With You, un episodio nel quale non è difficile scorgere in filigrana il sound di Sleep Well Beast e delle sue chitarre destrutturate, una specie di ancora che lega la band al passato mentre si avventura verso l’ignoto del futuro; già nelle ritmiche sotterranee di Quiet Light l’elemento femminile della vocalità inizia a ritagliarsi uno spazio che diventa immediatamente principale in Roman Holiday, in entrambi i casi ad opera di Gail Ann Dorsey. È la splendida voce di Mina Tindle ad accarezzare l’up-tempo di Oblivions, forse uno dei pezzi più belli del lavoro, arricchita nel finale dalle voci del Brooklyn Youth Chorus, e che precede il flusso di coscienza di The Pull Of You (dove Berninger intreccia la sua voce con quelle di Lisa Hannigan e Sharon Van Etten) e l’intro da camera che dà il la a Hey Rosey. Tutto conduce alla title-track, quella I am easy to find che è una splendida ballad condotta dalla voce di Kate Stables che si lascia cullare magnificamente dal piano per intrecciarsi poi con quella di Berninger, in un altro dei momenti più alti dell’intero lotto. Her father in the pool è uno strumentale che tronca il discorso e lascia spazio a una sezione in cui le chitarre, sino a questo momento piuttosto defilate, si riprendono (almeno in parte) la scena: succede in Where is her head, altro brano più classicamente à la National, e nella ballad Not in Kansas, altro stream of consciousness centrato sulla perdita delle proprie radici che cita i R.E.M. e viene spezzato da un etereo coro che fa da ritornello; So far so fast, cantata da Lisa Hannigan cui Berninger si unisce verso la fine, cuce le voci su un tappeto di arpeggi di sfondo ricamati da una melodia di chitarra elettrica distorta, un arrangiamento estremamente contemporaneo per un brano notturno, vibrante di una tensione a stento trattenuta. Dust swirls in strange light costituisce un intermezzo anomalo, centrato sui cori e sull’accompagnamento della batteria di Bryan Devendorf, ideale apripista per Hairpin Turns, lo zenit del lavoro, una ballad decostruita, attraversata da singulti elettronici e onde sintetiche, che si regge sul solito splendido testo, opera di Berninger e consorte (Carin Besser), e sul dialogo tra la voce baritonale del leader dei National e le voci di Lisa Hannigan e Gail Ann Dorsey, in un equilibrio magico e delicato. Per chi scrive, Hairpin Turns è probabilmente il pezzo più bello ascoltato in tutto il 2019: ho soprattutto adorato il modo in cui la linea di batteria trattiene la tensione quando si appoggia sulla drum machine e sui suoni sintetici, per poi lasciare la briglia con l’ingresso dei piatti sui ritornelli, un lavoro di arrangiamento e produzione di livello stratosferico, che conferisce al brano una profondità emotiva difficile da eguagliare. Rylan è un pezzo che rimanda con la memoria a High Violet, e infatti risale alle sessions di quel disco: una struttura tipica della premiata ditta Berninger- Dessner- Devendorf arricchita ancora dalla voce di Kate Stables. Underwater è il secondo e ultimo strumentale, un intermezzo che spinge a trattenere il fiato per tuffarsi nella crepuscolare ballad pianistica di Light Years, accarezzata da versi che tornano a parlare di perdita, dolore, silenzio:

Oh, the glory of it all was lost on me
‘Til I saw how hard it’d be to reach you
And I would always be light years, light years away from you
Light years, light years away from you.

Forse siamo tutti anni luce lontani gli uni dagli altri, eppure basta poco per sentirsi vicini: io ho pensato questo, mentre ascoltavo queste 16 tracce e mentre guardavo il film di Mike Mills, seguendo le esperienze della protagonista/Alicia Vikander attraverso le varie stagioni della vita, in uno stillicidio di momenti consumati voracemente e cannibalescamente dal tempo che scorre, implacabile. Cosa ci rende umani? Cosa resta di noi tutti, al termine dell’esistenza? Non esistono probabilmente risposte a queste domande, che forse sono anche assurde. Però ecco, I am easy to find è forse la colonna sonora di queste domande, che sono sì, assurde, ma che non è proprio possibile non porsi.

Immigrance (Snarky Puppy)

The idea here is that everything is fluid, that everything is always moving and that we’re all in a constant state of immigration.

Parola di Michael League, mente, compositore e basso degli Snarky Puppy, collettivo/big band statunitense tra le più originali degli ultimi anni nell’immenso calderone che dal jazz orchestrale sconfina nella fusion, nella world music e nel soul/funky, vincitore di Grammy (ben tre), descritta dallo stesso League come “a pop band that improvises a lot, without vocals” (quasi sempre). “Persone che provengono da paesi diversi possono portare la loro forza e le loro esperienze, e tutto ciò può aumentare la coesione e la bellezza. Tutto è fluido e sempre in movimento, quindi anche noi siamo in uno stato di immigrazione continuo”. Ai giorni nostri sembrano parole rivoluzionarie, e forse lo sono, perché affermano la verità e la verità, come ben sappiamo, è sempre rivoluzionaria: sono semplicemente le parole che Michael League usa per introdurre l’ultima fatica in studio della sua band, questo Immigrance che rappresenta senza dubbio alcuno una delle vette più alte del 2019 quanto a ricchezza (di toni, di timbri, di atmosfere), ricercatezza, contaminazione e sperimentazione. Ecco, questo è un lavoro autenticamente sperimentale nel quale una band di strumentisti formidabili (ogni altra parola sarebbe inefficace a rendere l’idea), un ensemble naturalmente votato a una dimensione orchestrale, quasi sinfonica, con un sound nettamente definito, fatto di profonda stratificazione e ricercatezza, riesce a introdurre e miscelare efficacemente idee ritmiche, melodiche e armoniche che appartengono a numerosi mondi diversi, geograficamente e culturalmente, di fatto creando un melting pot affascinante e colorato, un fluire ininterrotto che non è mai uguale a se stesso, mutevole, cangiante, trascinante. Immigrance rappresenta un crocevia, l’incontro-scontro, la stella danzante: un lavoro di autentica world music che va oltre la semplice e mera riproposizione delle musiche del mondo, spingendosi verso l’autentica commistione, l’ibridazione di stili (e stilemi), di linguaggi e suoni, che riesce a fondere percussioni africaneggianti in un tessuto new wave/funky sorprendente (Bigly Strictness), inanellando splendidi esempi di fusion purissima (l’abbacinante opener Chonks, che ricorda vagamente certi esiti electro-funk di Herbie Hancock, o la ballad Coven) alternati a ritmi quasi hip-hop (Bling Bling). Il cuore pulsante del lavoro, il brano nel quale risulta maggiormente espresso il concetto di fluidità, è Xavi, composizione dello stesso League: costruito su un chaabi-groove marocchino, Xavi è un incredibile amalgama di sonorità latine e pop-elettroniche, un maelstrom ribollente che scorre imperioso verso lo splendido tema sognante che ricorda certi esiti del em>Miles Davis elettrico e che sfocia in una serie di impressionanti variazioni timbriche, in un crescendo di stupore. A Xavi segue il breve intermezzo R’n’B diWhile We’re Young e poi il jazz-funk di tipica marca Snarky Puppy di Bad Kids to the Black, prima della chiusura affidata a Even Us, ulteriore composizione di League e manifesto di reale internazionalismo della band, nel quale l’uso di strumentazione atipica (oud, sitar, percussioni turche) contribuisce a creare atmosfere mediorientali, cucite assieme in una ballad lirica ed evocativa dal piano di Bill Laurance e dal flicorno di Jay Jennings.
Con l’impressionante ricchezza delle sue ispirazioni, Immigrance ci ricorda il valore del movimento, del cambiamento, della mescolanza, e in questo è davvero un album di scioccante attualità. Come scrisse il poeta persiano
Baba Tahir nell’undicesimo secolo, “Io sono quel mare e sono venuto in una coppa”: una coppa che versa il succo più dolce, che solo può sgorgare dall’apertura, dall’incontro e dalla commistione.

The book of traps and lessons (Kate Tempest)

Kate Tempest è una delle voci poetiche più interessanti che ho avuto modo di incontrare in questi tempi bui, ed è anche una fantastica performer, dotata di una vocalità magnetica, una potenza comunicativa folle e la reale capacità di instillare vita nelle proprie parole, e intendo proprio il genere di vita che pulsa, il respiro, il sangue, l’umano. In questo The book of Traps and Lessons la voce di Kate Tempest rifugge la tentazione di farsi melodia e appoggiarsi al beat per abbracciare in pieno un minimalismo fatto di poche note sparpagliate e chirurgiche ricuciture di drum machine, che permettono di concentrare totalmente l’attenzione sulla parola e i suoi significati: il piano abbozzato e un tappeto di drum machine accompagnano Thirsty con elettroniche asperità verso la gemella e oscura Keep Moving, Don’t Move, che a sua volta sfocia in Brown Eyed Man, quasi solo voce e sinistri rintocchi. La curva completa verso la poesia si compie con il beat vagamente trip-hop di Three Sided Coin, che lascia presto spazio alla voce e a un accompagnamento pianistico in lontananza in I Trap You. In All Humans Too Late resta solo la voce a farsi spazio, una cesura netta prima del synth debordante su cui Tempest declama la preghiera di Hold Your Own, uno dei momenti più emotivamente forti dell’intero lavoro e che si ricollega direttamente alla recente raccolta poetica edita in Italia e/o (cliccare qui per farsi un regalo last minute). Segue Lessons, scandita da un arpeggio di synth, che lascia posto a Firesmoke, un brano dall’incedere meravigliosamente cadenzato, in cui forse per la prima volta l’accompagnamento musicale da sfondo alla parola si fa compagno di viaggio, imbarcazione battuta dalle onde e sferzata dal vento, che ondeggia insieme ai versi d’amore che Tempest dedica alla compagna, uno dei momenti più alti di tutto l’album. Holy Elixir si apre su un tappeto di percussioni ovattate, ed è quasi un rap angosciante e incalzante prima di tirare il freno a mano nell’ultimo minuto e preludere così alla chiusura commovente di People’s Faces, cullata dal piano e come intrisa di una speranza feroce, di una luce che mai prima aveva fatto capolino nel disco, sulle note della quale a un certo punto, verso la fine, la voce sembra cedere alla melodia, sfociando nel cantato, poco prima di quell’ultimo I love people’s faces, un sussurro amoroso che ricorda da vicino il potente Life is people cantato qualche anno fa da Bill Fay (In the space of a human’s face/There’s infinite variations). Un brano di speranza, si può dire?
Trovo sciocco aver descritto questo lavoro “canzone per canzone”, perché forse non è di canzoni che si tratta, e non ho detto nulla a proposito di ciò che conta davvero: le parole, le associazioni, il senso che trasudano. È un album asciutto, quasi prosciugato in molti episodi, questo
The Book of Traps and Lessons, eppure grondante una forza poetica travolgente, affascinante, stordente nella sua luminosa ricchezza. Si può opinare che si tratti più di un’esibizione di spoken word che di un disco di canzoni, e forse è vero: ma non tutti i dischi sono dischi di canzoni, e decisamente pochi dischi possono vantare la potenza di questi versi, il ritmo sotterraneo che li accompagna, la magnificenza espressiva di quest’interprete. Probabilmente l’ascolto richiede moto più tempo di quello che richiederebbe un tranquillo album musicale, ma come sempre la musica che vale restituisce indietro il tempo che gli si dedica, e molto di più. Queste 11 tracce vi arricchiranno come poco altro e quindi, se ve lo foste perso, siete ancora in tempo a recuperare questo album. Your loneliness is the symptom, not the sickness.

Siakwaa/Nana Agyei (The Polyversal Souls + Sir Frank Karikari)

A fare di questo doppio lato A della band ghanese-tedesca The Polyversal Souls, di stanza a Berlino, uno dei punti più alti del mio 2019 musicale concorrono nell’ordine: il gusto per l’ibridazione, le timbriche africane che si mescolano e si confondono con la strumentazione occidentale, il recupero della tradizione highlife, l’eleganza formale pur nella sperimentazione spericolata ma, soprattutto, l’imponente (e commovente, per chi scrive) sezione ritmica. Dischetto scoperto per caso, a inizio settembre, una sera/quasi notte, spippolando tra le stazioni radio fino a fermarsi su quell’oasi di ottima musica che risponde al nome di The Musical Box (RadioDue), ultimo di una serie di singoli 7’’ collaborativi fatti uscire tra il 2018 e il 2019 dalla band guidata da Max Weissenfeldt, accompagnata in questa occasione da Sir Frank Karikari che non penso sia baronetto sul serio ma adoro si faccia chiamare così, e che prende in carico le parti vocali: ed è proprio la voce di Karikari a far la parte del leone in questi 8 minuti scarsi di ottima musica, prima planando dolcemente sullo shuffle afrobeat della title-track, composizione di due brani tratti dall’album Sikyi Highlife di Dr. K. Gyasi & His Noble Kings (peraltro band per la quale Ralph Karikari, padre di Frank, suonava il basso: recuperare qui [lato A] e qui [lato B]) e poi arrampicandosi gioiosamente su per le ritmiche trascinanti di Odo Agye Gye Me. Per la serie: quando meno di 8 minuti di musica bastano a farti saltare sulla sedia.

LP3 (American Football)

Tell me again
What’s the allure of inconsequential love?

Se c’è una lezione da imparare dall’oscurità, è che in essa non esiste ombra: perché vi sia proiezione di ombre, occorre sempre una luce. È una luce tenue, soffusa e malinconica quella che dà vita a questi otto brani della band americana, come un baluginio nella nebbia, una pulsazione nebulosa che conferisce speranza. I brani degli American Football sono geometrici come incisioni certosine nel cristallo, pulsanti di batterie che flirtano col jazz e bassi corposi e sospesi, arabescati da arpeggi di chitarra rigorosamente grondanti riverbero e delay. Ne nascono tempi che sono insieme rigorosamente scanditi e magicamente sospesi, sui quali intessere delicate armonie vocali: musica che cresce come nebbia, avvolgente, capace di ovattare e sfumare i contorni. Si passa dall’opener di Silhouettes, minimalista e gonfia di illusioni spaziali e prospettiche, spontanea e dolorosa nel suo evolvere sotterraneo verso lo splendido ritornello (citato in apertura di questa recensione), preludio agli arpeggi sognanti della splendida Every Wave To Ever Rise, cantata da Mike Kinsella con la canadese Elizabeth Powell (Land of Talk) e seguita immediatamente dalla reinvenzione floydiana di Unconfortably Numb, impreziosita dal controcanto di Hayley Williams (già voce dei Paramore). Heir Apparentriprende il gioco di drumming affettato e arpeggi carichi di riverberi, introducendo addirittura un flauto tra le strofe a preludere al ritornello, con lo sciabordio delle chitarre che scorrono lungo i solchi fino alla chiusura affidata a un coro di bambini. Doom in full bloom, accarezzata da un arpeggio sognante e introdotta dal suono etereo di una tromba, dipinge quasi otto minuti di panorami nebulosi e inafferrabili, brevi sincopi ritmiche e racconti di quieta disperazione (I’ve never been so alone, so desperate to be home); sull’uptempo di I can’t feel you la voce di Kinsella si intreccia invece a quella eterea e assoluta di Rachel Goswell (direttamente dagli adorati Slowdive) a comporre un quadro evocativo di luci intermittenti e pulsanti che costellano un orizzonte nebuloso, squarci di luce nell’oscurità. Mine to Miss, caratterizzata da una ritmica piuttosto serrata, segue la falsariga di I can’t feel you, e conduce all’ultimo brano del lotto, Life Support, dominata da un arpeggio che a tratti ricorda vagamente i Radiohead di Let Down (almeno fino all’ingresso della batteria): un brano luminoso, commovente, una chiosa affidata a una semplice frase, When will it end, relentless adolescence? per un disco notturno nel quale le voci rifulgono come luci al neon contro un cielo basso e nuvoloso, ombre di una tenerezza e di un tempo che furono. Con un misto di shoegaze, math-rock e dream-pop atmosferico, gli American Football regalano quasi 50 minuti di splendida, sotterranea malinconia.

Inlet (Jackson Dyer)

Dopo numerosi EP e singoli, rilasciati nel corso degli anni e che chi segue questa rubrica già conosce, Jackson Dyer arriva alla prova del primo LP. Il disco si intitola Inlet e marca l’ennesima evoluzione del songwriter australiano, che inanella nove piccole gemme in cui la scrittura e la tensione raggiungono la quasi perfezione, esito finale di un lavoro di cesello iniziato nel 2013 con l’EP The Child and the Sea. I vocalizzi soul, le melodie cristalline e i soffusi tappeti di elettronica pop e minimale trovano la loro più compiuta realizzazione nei nove episodi che compongono Inlet: dal pop cadenzato e irresistibile di Paper Lanterns, splendido opener, all’arpeggio soffuso dell’evocativa The Font (qui magnificamente riproposta con tanto di archi); dalla breve evocazione di Sun, Sea al tappeto di drum machine che prelude a Unfolding, dritti fino a CBSKY, non c’è un passo falso o un calo di tensione, né niente che sia meno che affascinante. Ci si lascia sulle note di Over the dunes, cullati ancora dalla dolce malinconia che avvolge tutte le tracce, e sembra quasi di sentire il vento secco del deserto sulla faccia, e di vedere il sole sorgere in lontananza accompagnato dal rintocco dei tasti del pianoforte. Racconto sempre la storia di come ho incontrato Jackson, una domenica di agosto al Mauerpark a Berlino, perché mi serve a ricordare che a volte le cose migliori si incontrano per caso, e dove non te le aspetteresti proprio: e poco importa che, da quel momento, non ci si sia più incrociati, perché tutti gli EP prima, e questo disco adesso, sono stati ottimi compagni di viaggio.

LP5 (Apparat)

Consumata la sbornia di stadi, festival e pubblico incarnata dal progetto Moderat, fusione a caldo delle ritmiche dei Modeselektor e delle sue inquietudini melodiche, arriva anche per Apparat il momento di andare avanti: ed ecco che Sacha Ring sceglie fin dal titolo uno scarno minimalismo per questa quinta fatica sulla lunga distanza, lasciando che l’esperienza del collettivo Moderat risuoni libera nell’elegante gusto per la melodia attraverso queste 10 tracce sofisticate eppure candidamente easy-listening, baciate da un’ingenuità melodica che le rende romantiche e affascinanti. Ad aprire le danze è il minimalismo strumentale di VOI-DO, che sfocia in un ritornello cristallino e in una pulsazione sotterranea di cassa, ideale viatico per l’albeggiare ritmico di DAWAN, che si insinua delicata nelle orecchie tra alternanze di pieno-vuoto e sussulti sintetici. Fin da queste prime tracce è la voce di Ring a farla da padrona, e non è difficile cogliere riferimenti alla musica amata dal compositore tedesco, e in primis a quella dell’amico Thom Yorke: proprio sulla voce e su un tappeto di sintetizzatori si regge l’architettura di LAMINAR FLOW, spettrale ballad urbana che accumula tensione senza mai scioglierla completamente (un giochetto che a Ring piace e che caratterizza buona parte dei brani di questo LP5). HEROIST propone ritmiche finalmente meno abbozzate a fare da sfondo alle contorsioni dolorose della voce, per poi lasciare spazio al breve episodio strumentale di MEANS OF ENTRY, una lieve sciarada per elettronica saturante e pianoforte, introduzione magmatica e inquieta per le voci spettrali che accompagnano BRANDENBURG, scolpita in echi classicheggianti e che, tra queste 10 tracce, rimanda alla memoria più che qualcosa degli amati Radiohead. CARONTE, introdotta da un avvolgente unisono di archi, continua ad accumulare tensione senza soluzione catartica: la voce di Ring accarezza le orecchie, librandosi sicura sullo scarno ma efficace tappeto sonoro costruito su archi prima e sintetizzatori poi, per sfociare in una serie di elementi ritmici che flirtano col glitch e arricchiscono il tessuto conferendogli un magnetismo trascinante, in quello che resta probabilmente uno degli episodi più alti della tracklist. EQ_BREAK è uno strumentale fatto di spazi aperti, su cui risuona isolato un lieve strumming di chitarra che lascia presto la scena al pianoforte: un passaggio meditativo, intimista, la sineddoche perfetta del mood introverso dell’intero lavoro. Un pianoforte solo lievemente più cadenzato è il protagonista anche della successiva OUTLIER, in cui è proprio la dinamica dell’esecuzione a creare l’ondeggiante pieno-vuoto al quale si avvolge la voce di Ring: OUTLIER appare come lo scheletro di una ballad, l’ossatura spoglia che ne emerge attraverso la nebbia, il cuore pulsante e scarnificato, una splendida canzone messa a nudo e offerta all’ascoltatore nella sua immediatezza, sbucciata e ridotta all’essenza. IN GRAVITAS chiude il cerchio con una voce che flirta quasi con accenti soul, screziature elettriche e il ritorno della cassa-in-quattro a parziale catarsi per tutta la tensione drammaticamente accumulata lungo il percorso. In una collezione di brani che svariano dall’uso classicheggiante di archi e pianoforte all’elettronica ambient fino alla drone music e al minimalismo, Apparat dipinge un affresco caldo e affascinante, pulsante di vita, intimista, quasi ripiegato su se stesso: un disco notturno di profonde ombre e luci abbacinanti, musicalmente stratificato e ricercato (come di consueto), spesso oscuro ma mai del tutto impenetrabile, un bocciolo denso e caldo al quale accostarsi con delicatezza e attenzione.

Obverse (Trentemøller)

Sono panorami tendenzialmente glaciali quelli evocati da Obverse, nuova fatica di Anders Trentemøller, un mondo fatto di suoni nebulosi e suadenti, 10 tracce in cui l’elettronica minimale sposa il post-punk, il dream-pop e lo shoegaze, in una collisione di mondi che crea un universo sonoro unico, gelidamente affascinante. Il flirt di Trentemøller con l’estetica e le atmosfere del più puro shoegaze anni ’90 è dichiarato fin dall’apertura, affidata a Cold Comfort e soprattutto alla voce per eccellenza di questo genere, quella di Rachel Goswell (Slowdive, che canta qui e anche nel disco degli American Football, di cui poc’anzi): quasi nove minuti di possenti wall of sound e drumming cadenzato, aperture oniriche e scariche elettriche, un’invocazione per chi si è perso nella nebbia in cerca di se stesso (You lost the way, canta Rachel Goswell nel refrain). Church of Trees è uno strumentale fatto di pulsazioni sintetiche, una magmatica marea sonora che cresce fino ad un arpeggio progressivamente sfasato e sfasante e lascia spazio a In The Garden, nella quale la voce di Lina Tullgren disegna glaciali melodie su intrecci di chitarre e percussioni. Foggy Figures parte su un arpeggio sintetico, un tappeto sonoro su cui gocciolano accordi di chitarra e che sfocia in una dirompente sezione ritmica drum’n’bass; in Blue September è Lisbet Fritze a prestare una voce sensuale e glaciale a un brano ancora intriso di atmosfere shoegaze, costruito su arpeggi di chitarra e droni di sfondo; Trnt è uno strumentale basato sulla sovrapposizione ritmica e su timbriche fluide, otto minuti di suoni sotterranei, gravi e profondi, che danno l’idea di un transatlantico che emerge dalla nebbia in mare aperto per approdare a One Last Kiss to Remember, altro brano cantato da Lisbet Fritze, una tempesta elettrica straniante e avvolgente. La cupa ballad Sleeper, uno dei vertici del lavoro, tratteggia paesaggi sonori evocativi e fa da efficace introduzione per Try A Little, pop emozionale accarezzato dalla voce tagliente di Jenny Lee Lindberg che si concede anche il guilty pleasure del ritornello killer. Chiude l’ultimo strumentale del lotto, Giants, rintocchi elettronici e droni magmatici a fare da tappeto per una lieve melodia tratteggiata dai synth. Se Trentemøller dipingesse, il suo pezzo forte sarebbe senz’altro la pittura paesaggistica: la ricchezza del mondo creato in questo Obverse è infatti una presenza quasi tattile, frutto di un suono avvolgente, curato nei minimi particolari, citazionista e derivativo, forse, ma ricco di sostanza melodica. Trentemøller dipinge un mondo gelido, distante, ovattato, al di sotto del quale si avverte il battito inesausto del cuore e il calore di una piena umanità.

i,i (Bon Iver)

Il percorso di Bon Iver ha spaziato dal folk scarnificato di For Emma, Forever Ago al rock cinematico dello splendido Bon Iver, Bon Iver fino al songwriting intriso di astrazioni elettroniche di 22, A Million: un itinerario di crescita ignoto ai più, non privo di coraggio e sventatezza (quanti butterebbero alle ortiche le vendite per seguire la voglia di sperimentazione?), e che nel 2019 approda a i,i, ultimo capitolo in ordine di tempo. Si tratta di 13 tracce nelle quali l’elettronica è declinata soprattutto in termini di manipolazione delle parti vocali, sia a livello ritmico/melodico/armonico (ovvero come segni, significanti) che a livello di singola parola: Justin Vernon decostruisce, e i suoi brani sono stratificazioni sonore, piccoli multiversi in cui la forma-canzone stessa viene decostruita, messa a nudo e rimessa in relazione geometricamente con un contesto mutante, in cui si spazia dal folk al soul, dal pop all’elettronica minimale. A volte mi capita di pensare che ci siano il piglio, la perizia e la puntigliosità dell’entomologo nel modo in cui Vernon cataloga, separa e definisce le parti delle proprie canzoni per poi riunirle insieme e mescolarle in modi inconsueti: eppure tutto risponde a una sorta di coazione a evolvere, la stessa spinta che ha trasformato il progetto Bon Iver da moniker del solo Vernon a band di cinque elementi. Il cambiamento, la mutevolezza, il non ripresentarsi mai uguali a se stessi: tutto questo si respira, ancora, nelle 13 tracce di i,i. Che i brani nascano, come lo splendido pop surreale di iMi, dalla sinergia col vecchio compagno di scorribande James Blake (che invece da solo non ne azzecca più una… meno male che ci sono gli amici) e con Aaron Dessner dei National, o con l’altro Dessner, Bryce (presente in U (Man Like), Naeem e Faith), quello che non cambia è la volontà di spostare il limite della pop-music un passetto più in là, fino ad includere qualcosa che, prima, fosse esclusa dai suoi confini. Così si attraversano la sperimentazione di Yi, i lievi tribalismi di We, il rumorismo di Holyfields, (la virgola fa parte del titolo) e il pop futuristico di Hey, Ma, singolo dotato delle linee vocali probabilmente più smaccatamente boniveriane dell’intero lotto; o ancora il pop luminoso di U (Man Like), che oltre al già citato Bryce Dessner dei National si avvale della collaborazione di Bruce Hornsby, o il crogiuolo futurista di Naeem, sorta di calderone in cui si mescolano folk, la tradizione musicale americana (sotto la forma contemporanea del sampling da brani della grande tradizione country e folk), pop e manipolazione elettronica nel tentativo di creare la koinè del futuro, una lingua musicale universale che trascenda il tempo oltre allo spazio; o ancora il minimalismo liquido dei synth di Jelmore, altro capolavoro melodico disseminato lungo una tracklist tutt’altro che avara di bei momenti, o il soul etereo di Faith; Marion, un purissimo (e breve) episodio di dimesso folk da orchestrine, seguita dalla folktronica venata di suggestioni jazzistiche di Salem e dalla speculare Sh’Diah (che sta per “Shittiest Day in American History”, ovvero il giorno dell’elezione di Donald Trump), sulla quale Vernon un po’ gigioneggia rifacendo se stesso, salvato in parte dall’ingresso finale del sassofono, fino alla chiusura rappresentata dall’incantevole RABi, tre minuti e mezzo come uno sprazzo di sole alla fine del viaggio. And now, it might be Autumn, scriveva Vernon accompagnando un teaser dell’album: la chiusura di un cerchio, il capolinea. For Emma… come l’inverno, Bon Iver, Bon Iver come la primavera, 22, A Million come l’estate e adesso questo i,i, con i suoi testi che svariano dalla tensione religiosa alla preoccupazione per l’emergenza climatica, come un ideale autunno. Un ciclo che si chiude e torna a se stesso, come RABi, che in qualche modo, pur con una complessità maggiore, torna alle atmosfere dimesse di For Emma, Forever Ago. Un po’ cresciuto, ovvio, perché di acqua ne è passata sotto i ponti lungo queste ottime quattro stagioni.

Ghosteen (Nick Cave & The Bad Seeds)

Ghosteen: un monumentale disco doppio, una raccolta di brani spettrali, attraversati dal fantasma adolescente di un figlio scomparso troppo presto, un florilegio di racconti, una seducente narrazione del dolore, mai catartica, mai condiscendente, ma sempre gonfia di vibrante trasporto. Per il diciassettesimo lavoro della monumentale discografia di Nick Cave coi suoi fidi Bad Seeds, la sorpresa è proprio che i Bad Seeds sembrano scomparire totalmente, e con loro le batterie e le chitarre, risucchiate e come prosciugate dagli arrangiamenti imbastiti dal genio irregolare di Warren Ellis, un percorso già in larga parte avviato con Push the sky away e proseguito nel meraviglioso Skeleton Tree: i brani sono accompagnati da testi surreali, ora cantati (in un simulacro di quella che era o poteva essere la forma-canzone) ora in forma di spoken word, adagiati su arrangiamenti orchestrali, di archi e ondes martenot, o su minimali composizioni fatte di screziature sintetiche e singhiozzi elettronici, gestiti in prima persona proprio da Ellis. “Le canzoni del primo album sono i bambini. Le canzoni del secondo album sono i genitori. Ghosteen è uno spirito migrante”, dice Nick Cave nelle poche righe di presentazione del lavoro: in fondo è giusto che a parlare sia solo la musica, il falsetto spezzato di Spinning Song o le ballad pianistiche Bright Horses, forse il brano più canonico del disco, e Waiting for You, desertificata dal dolore atroce della perdita ma innervata della speranza del nuovo incontro (“Your body is an anchor, never asked to be free/ Just want to stay in the business of making you happy/ Well, I’m just waiting for you”, canta Cave nella prima parte del brano, per poi rispondere a se stesso poco dopo con i versi “Your soul is my anchor, I never asked to be freed/ Well, sleep now, sleep now, take as long as you need/ ‘Cause I’m just waiting for you”: dietro queste parole ci può essere solo un dolore talmente forte da mettere le vertigini, assolutamente impossibile da spiegare o comunicare altrimenti); le oscillazioni sintetiche di Night Raid, su cui la voce di Cave canta, accompagnata da un coro, il mistero della comunione di corpi e anime, arricchendo il testo dei consueti riferimenti biblici (che ricorrono lungo tutte le tracce di questo album); la ballad Sun Forest, cadenzata dal piano e impreziosita da uno dei ritornelli più classici, pieno di genuina emotività e onestamente bello, di un lavoro che è in generale abbastanza avaro di questo genere di consolazioni; il tenue accompagnamento di cigolii elettronici cullati dalla voce in Galleon Ship, una visione onirica costruita musicalmente per sottrazione; Ghosteen speaks, preghiera adagiata su un pieno d’orchestra delicatamente minimalista; lo spoken word di Leviathan. Qui i 12 minuti di Ghosteen, lo spirito migrante, introducono nel lato B di questo racconto musicale: “If I could move the night I would/ And I would turn the world around if I could/ There’s nothing wrong with loving something/ You can’t hold in your hand”, canta Cave sullo sfondo nebuloso e pulsante di organi sintetici, tra quadretti surreali di famigliole di orsi e spiriti danzanti. Sono invece poche, sparute note di piano e singulti elettronici a cadenzare il breve spoken word Fireflies: “Jesus lying in his mother’s arms/ Is a photon released from a dying star/ We move through the forest at night/ The sky is full of momentary light/ And everything we need is just too far/ We are photons released from a dying star/We are fireflies a child has trapped in a jar/ And everything is distant as the stars/ I am here and you are where you are”. Chiudono il lavoro i 14 minuti di Hollywood, che si innalzano solenni come monta una marea oscura, sotterranea, feroce: “It’s a long way to find peace of mind”, ci ricorda Cave con un filo di voce. Eppure anche nell’oscurità dolorosa, la risalita verso la luce (già prefigurata dal naturalismo solare dell’artwork) è inevitabile: ciò che più strazia, è proprio il modo in cui il tempo persista a scorrere, indifferente al dolore, alla sconfitta, alla morte, i tramonti e le albe a susseguirsi, e tutto si limiti semplicemente ad accadere.
Sono francamente in imbarazzo nel cercare di dirvi perché dovreste ascoltare questo album, semplicemente perché non si danno i voti alla fragilità umana, soprattutto quando è esposta in modo tanto onesto e sincero da fare davvero male. Ho timore che non esista una catarsi per un dolore tanto grande quanto quello che
Nick Cave, al pari di molti altri genitori, e figli, fratelli e sorelle, ha dovuto affrontare. La verità è che il dolore non ha alcuna giustificazione etica, può al massimo averne una estetica, come pensava già Nietzsche: può essere la molla che spinge alla Bellezza, che è un’altra forma di amore, forse l’unica promessa di felicità che ci resti, splendida anche quando destinata ad essere disattesa.

Shoot the Moon (Mezcla)

Ad ogni festa che si rispetti c’è un +1, e il mio è questo qua. Ok, si tratta di un singolo e non di un album, ma diciamo che vale come antipasto di qualcosa di (prevedibilmente, auspicabilmente) bello a venire: a Febbraio 2020 dovrebbe infatti vedere la luce l’album di debutto dei Mezcla, ensamble world/jazz fusion di stanza a Glasgow e guidato dal bassista David Bowden (non sarà un caso che anche qui, come per gli Snarky Puppy, il deus ex machina sia rappresentato da un bassista…), intitolato per l’appunto Shoot the Moon, come il singolo di cui parliamo. Intendiamoci: questa band l’ho incrociata l’altro ieri giusto grazie a un provvido suggerimento di Spotify, ma ne ho potuto apprezzare immediatamente il gusto melodico, la solidità della sezione ritmica, le trame strumentali avvolgenti e la predisposizione (tutta jazzistica) per l’improvvisazione, caratteristiche già di per sé interessanti che vengono inoltre ben mescolate e condite con influenze che vanno dalle musiche africane all’America latina, nel solco di quel piacere dell’ibridazione di cui ho ampiamente parlato poc’anzi. Gli strumentisti sono di prim’ordine, il pezzo trascinante: a naso, direi che si tratti di roba che vale (ma basta dare un’occhiata a questo live per capire che di carne al fuoco ce n’è, e di ottima qualità). Diciamo che metto questo trafiletto qua per non dimenticare di tornare a dare un’occhiata nell’anno che verrà: ed ecco il vostro consiglio musicale non richiesto!

Ma come dimenticare i dischi dell’autostrada, edizione 2019?

Come i più tra voi ormai sapranno, ascolto la maggior parte della musica in auto nei tragitti da casa a lavoro e viceversa. Accanto alla musica “contemporanea”, mi piace indulgere nel recupero di altra musica, magari un po’ più datata, e poi mi piace da matti raccontarla a voi (come se finora non avessi imperversato abbastanza…). Dato che s’è fatta una certa, cercherò di essere breve: la discografia che ho consumato più alacremente in questo 2019 è stata quella dei Talk Talk, band del compianto Mark Hollis che proprio all’inizio dell’anno ci ha lasciato. Ai Talk Talk mi ero avvicinato negli ultimi mesi del 2018, ascoltando per la prima volta due album monumentali come Spirit of Eden e Laughing Stock durante una trasferta di lavoro ad Assisi: entrare dentro quel mondo musicale così elaborato e profondo non è stato semplice, ed è stato sorprendente poi tornare ai lavori del periodo “pop” della band (gli splendidi It’s My Life e The Colour of Spring) e scoprire la ricchezza del loro tessuto, la pienezza e la ricercatezza degli arrangiamenti e della scrittura, il valore assoluto delle melodie. In poco tempo, questi dischi sono diventati essenziali, come solo l’Arte che ti fa stare bene può diventare, ed hanno costituito senza dubbio la parte principale dei miei ascolti in questo 2019, rinnovandosi ogni volta, mai uguali a se stessi, sempre sorprendenti e affascinanti. Inutile citare singoli brani, dico soltanto: ascoltateli tutti. E non dimenticate di ascoltare anche l’unico album solista del buon Mark Hollis, pubblicato nel 1998, 7 anni dopo la conclusione dell’avventura della band, e intitolato semplicemente e onestamente Mark Hollis: un disco nel quale Hollis porta a compimento la sua opera di sottrazione musicale, finendo per sottrarre tutto se stesso, eclissandosi, semplicemente uscendo di scena una volta detto tutto ciò che dovesse esser detto, senza timore di lasciare spazio al silenzio. Una lezione infinita che stringe il cuore. Già che mi ero fatto prendere dagli anni ’80, ho rispolverato la Kate Bush di Hounds of love, disco benedetto da capolavori come l’arcinota Running up that hill e l’eterea e meravigliosa Cloudbusting, e gli Ultravox di Vienna; non mi sono ovviamente negato altri grandi classici, come i miei adorati R.E.M. (in particolare, come sempre, New Adventures in Hi-Fi, Monster, Automatic for the People e Out of Time) ormai al centro di numerose rotazioni musicali nella mia autoradio, o ancora i miei adorati Red House Painters, Sun Kil Moon e soprattutto Low, protagonisti anche dell’unico grande concerto visto nell’anno che va a chiudersi, a Bologna il 6 Aprile scorso al Teatro Antoniano: esibizione di rara potenza sonora ed emotiva, uno spettacolo visivamente e musicalmente devastante, come da foto allegate.

Due parole sul basso elettrico…

Nel corso dell’anno mi son trovato a dover ripensare al mio suono, come musicista: a cercare, in altre parole, di ritrovare la mia voce sullo strumento. Questo mi ha spinto a tornare ad ascoltare gli artisti che mi hanno ispirato quando, giovine e valoroso (per così dire), mi avviavo guidato dal leggendario Maestro Daniele Nesi sulle strade del blues e del jazz, ahimè smarrendomi quasi subito e trascorrendo il resto del tempo a lamentarmi: sono tornato da Jaco Pastorius, da Victor Bailey, da Johnny B. Gayden e da Miroslav Vitous; ho riscoperto Niels-Henning Ørsted Pedersen, approfondito la conoscenza del lavoro di Michaeal League degli Snarky Puppy e mi sono imbattuto in un fenomeno chiamato Miles Mosley. Più in generale sono tornato al jazz, che è stato per me una specie di primo amore, un amore che devo in toto agli insegnamenti di Daniele, talmente preziosi da non poter dare loro un mero valore materiale: Bright Size Life, i dischi dei Weather Report con e senza Jaco (faccio per dire: che capolavoro incredibile è ancora oggi I sing the body electric??), i dischi solisti del compianto Victor Bailey (Low Blow, per esempio), quelli di Vitous (Infinite Search), mille cose vecchie e altre nuove che mi erano colpevolmente sfuggite (il monumentale disco triplo The Epic di Kamasi Washington, tanto per dirne una). Un patrimonio sconfinato di ricchezza, cultura, amore per il suono, che mi ricorda ogni giorno l’importanza, da musicista, di trovare la propria voce. Ci vorrebbe troppo a fare link, quindi vi lascio una piccola playlist Spotify assolutamente incompleta, tanto per avviare il discorso: questi i suoni di basso (e contrabbasso) che mi hanno fatto innamorare di questo meraviglioso strumento.

E per concludere, il 2019 di MelaVerde Records!

Che cosa è stato il 2019 per la nostra etichetta? Soprattutto l’anno di Phomea e del suo Annie, un disco che ha avuto un ottimo riscontro sia a livello di stampa (con passaggi in radio, recensioni e quant’altro) che, soprattutto, a livello di live (molti e di grande spessore, dai palchi collaterali del Pistoia Blues nello scorso luglio al Serravalle Rock, dal CotonFioc Festival di Genova al Teatro Arciliuto di Roma): una serie di risultati eccezionali, figli del talento e dell’abnegazione di Fabio, un percorso che ha spinto anche l’etichetta a crescere, incontrando altre realtà produttive e distributive e cercando pian piano di ritagliarsi maggiore spazio. Annie è un disco che racconta come pochi la presenza dell’assenza, che unisce meravigliosamente il particolare all’universale, ed è soprattutto un disco che non smettiamo mai di essere fieri di aver contribuito a pubblicare: personalmente, ricordo con piacere soprattutto le numerose discussioni avute a riguardo del disco con Fabio, quando tutto era ancora solo un’ipotesi, un’infinità di chiacchierate, prove di scalette, sessioni di ascolto di demo, ed è stato bello ritrovarsi in mano la copia finita, una volta arrivati al termine della produzione; ah, a tal proposito Fabio, se mi leggi, restituiscimi la mia copia! Annie a parte, per noi è stato anche l’anno delle prove generali del nuovo festival MillePalooza, tra Aprile e Maggio scorsi, che ha ospitato tra le mura amiche del Circolo ARCI Milleluci di Casalguidi band come AHITI, lo stesso Phomea e Urali. Dico prove generali perché il festival tornerà nel 2020, con molta, moltissima musica e tanta carne al fuoco. E poi tenete gli occhi aperti perché il 2020 sarà un anno pieno di nuova musica dalle parti di MelaVerde Records, sia con il già citato Phomea che con noialtri, il vostro caro vecchio eoslab: come si suol dire, stay tuned!. E adesso, buon anno a tutti: scappo prima che mi arrivi una denuncia per violazione dei diritti umani in ragione del numero di scroll che vi ho costretto a fare per arrivare fin qui. Io vi saluto con lo streaming di Annie, e ci vediamo nel 2020!!

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