My very “best of 2020” in music

Il 2020 è un anno che non dimenticheremo tanto facilmente: tuttavia, per me, i lunghi periodi di lockdown (più o meno totale) che hanno scandito questi 12 mesi hanno avuto anche una piccola conseguenza positiva, permettendomi di avere un po’ più di tempo da dedicare a questo blog, che era stato tristemente trascurato dopo il 2012, e di mantenere anche un buon ritmo di pubblicazione. Alla fine, con questo, sono 42 i post pubblicati su Arcipelaghi in questo pazzesco 2020: il terzo numero più alto dopo i 60 del 2008 e i 49 del 2009, rispettivamente secondo e terzo anno di vita di questo blog (che è nato nel Novembre del 2007 e che ai tempi era ospitato dalla benemerita piattaforma Splinder). In totale, su Splinder furono pubblicati 156 post tra il 2007 e il 2011: nel gennaio del 2012 il blog si trasferì su Altervista, cioè dove ci troviamo adesso, cambiò grafica alla fine del 2014 e infine assunse il nome di Arcipelaghi (e l’aspetto che ha tuttora) all’inizio del 2018. Questo 2020, oltre a portare una buona dose di post, ha portato anche all’apertura di una pagina Facebook dedicata al progetto, che ha visto la luce lo scorso 23 Aprile e che conta una piccola ma agguerrita community di una sessantina di persone (se volete dare un’occhiata e magari anche unirvi, basta schiacciare l’iconcina di Facebook in alto a destra sulla pagina, oppure nella colonna sinistra del blog). Siamo pochi ma molto buoni, mi verrebbe da dire: e in mezzo a tutte queste novità, è il caso di mantenere viva una tradizione che mi accompagna ormai dal lontano 2014, il best of dei dischi dell’anno!

The Wonderful 10 + 1 beautiful surprise

Consueta premessa per i Cristiano Ronaldo della musica: qui non si fa a gara, non ci sono competizioni, non ce ne sbatte una beata minchia di chi sia il chitarrista (ovviamente metallaro) che sa fare gli assoli più tecnici e con la cascata di sessantaquattresimi più veloci e nitidi a 240 bpm, né tanto meno ci interessa distribuire pagelle. Astenersi narcisisti e drogati di competizione. L’elenco procede come di consueto per lo più a braccio, tipicamente a caso quando non regolarmente a cazzo. Considerate che quest’anno è stato vagamente più difficile compilare questa lista, perché di dischi ne ho ascoltati diversi (e scorrendo indietro i post ve ne renderete conto da soli): alcune rinunce sono state dolorose. Cercherò di essere breve (più del solito) specie considerando che ogni disco che citerò ha sul blog un suo post dedicato (al quale troverete rimando). In ogni caso, nell’eventualità che ci fosse qualcosa che mi abbia sconquassato i precordi più della media, non mancherò di farvelo notare: di solito non sono avaro con le parole.

Snarky Puppy Live at the Royal Albert Hall (Snarky Puppy)

Recensione completa qui: Molti mondi compressi in un punto

Partiamo subito con l’album più fresco di recensione sul blog, che sta in heavy rotation da un bel po’ (almeno per me) e che piazzo subito perché, per arrivare al punto senza giri di parole, è LA MUSICA. Dentro c’è di tutto un po’, con una profondità e una ricchezza da capogiro: è l’album di una band in evidente stato di grazia ma è anche quasi un testo di studio che andrebbe diffuso nelle scuole (non solo nelle scuole di musica). Questa fusione calda tra world music e jazz-fusion affonda le radici nel concetto di movimento, fluidità, che informa di sé tutta la carriera dell’ensemble guidato da Michael League ed è stato esplicitato in particolare con l’ultimo album di studio, Immigrance: “The idea here is that everything is fluid, that everything is always moving and that we’re all in a constant state of immigration”. Un’idea di una potenza folle. Poi, certo, ci sono i brani: l’irresistibile poliritmo di Xavi, la meditazione di Alma, il groove sfacciato di Bad Kids to the Back, tanto per fare una selezione. Album nominato per il Grammy 2021 come Best Contemporary Instrumental Album e, per quel che mi riguarda, già un instant classic.

What Kinda Music (Thom Misch & Yussef Dayes)

Recensione completa qui: Fantastiche e policrome visioni

Quando metti insieme un chitarrista di profonda sensibilità melodica (Tom Misch) e un autentico fuoriclasse delle pelli (Yussef Dayes), il minimo che puoi aspettarti è un lavoro in cui le eleganti tessiture armoniche si incrocino con nervosismi ritmici a creare un drappeggio straniante, policromatico. Il rischio, ovvio, è quello di “fare accademia”: piogge di note senz’anima. Ma né Yussef Dayes né tantomeno Tom Misch sono virtuosi appassionati della tecnica fine a se stessa, e se a loro aggiungi il supporto ritmico di Rocco Palladino (in forma smagliante), quello che ottieni è What Kinda Music, ovvero un concentrato di blues, funk, r&b, soul e fusion che sprizza colori ed emozioni da ogni poro. What Kinda Music, si chiede il titolo, Che genere di musica? Un caleidoscopio sonico che va dalla splendida Tidal Wave all’irresistibile Nightrider (coi bassi di Tom Driessler), dalle atmosfere dreamy della titletrack e di Festival agli spezzati di batteria di Kyiv. Sicuramente uno dei momenti più alti dell’anno.

The Striped Album (Cory Wong)

Recensione completa qui: L’universo in espansione di Cory Wong

Quest’anno il buon Cory Wong ha avuto una produzione fertilissima (si parla di tipo 9 uscite, tra album solisti, album collaborativi e live album) ma non abbiate paura, perché nel suo caso prolificità non fa affatto rima con incapacità di selezionare e limitarsi: The Striped Album (fin dal titolo, gustosa parodia dei numerosissimi white e black album della storia della musica, giocando con la fantasia a strisce della tipica maglietta indossata dal nostro sul palco) è quanto di più lontano ci potrebbe essere da una collezione di avanzi dovuti a un’ispirazione torrenziale, è un lavoro modernissimo, pieno di funk del futuro, grondante groove e ispirazione, ravvivato dagli interventi di ospiti uno più in palla dell’altro (dalla chitarra di Joe Satriani alla voce di Kimbra) e non privo di momenti intimisti, che mette in mostra soprattutto la ricchezza e le capacità del Cory Wong compositore e band leader. Si va dall’irresistibile groove della opening track, la deliziosa Design (cantata appunto da Kimbra) alle atmosfere vagamente psichedeliche di Smooth Move, composta a quattro mani con Tom Misch, dall’orecchiabilissima Livin’ It Up (con Mr. Talkbox) al capolavoro di turno, la minisuite intimista Ellie, dedicata da Wong alla figlia e nobilitata da un magnifico solo di basso di Seth Tackaberry. Questo è uno di quei dischi che alzano l’asticella, e che fanno bene al cuore e al cervello (e alle orecchie, ovviamente).

Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe (Theo Katzman)

Recensione completa qui: Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe

Theo Katzman, come sa chiunque segua i Vulfpeck, è un artista assolutamente poliedrico, e Modern Johnny è solo una delle sue molteplici incarnazioni, quella più orientata a un cantautorato folk, quella del narratore di storie: Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe è un formidabile album di storie, che spaziano dall’amore (The Death Of Us, What Did You Mean (When You Said Love), Fog in the Mirror) alla disillusione (100 Years from Now), dalla politica (You Could Be President) alla speranza (All’s Well That Ends Well), attraversando i generi (un folk lieve, spesso sussurrato, ballad pianistiche, tentazioni soul e qualche iniezione di rock, parti vocali meravigliosamente curate con quel falsetto che è ormai un marchio di fabbrica del Katzman cantante) con grazia ed eleganza e col supporto di Joe Dart al basso elettrico, valore aggiunto in numerose composizioni… ma non che Katzman, voce, chitarra e soprattutto batteria, se la cavi male anche da solo! Songs in the Age of Vibe è un album intimo, e intimista: anche quando affronta temi “grandi”, Katzman non lo fa col piglio di chi voglia spiegare agli altri come si debba pensare (o peggio ancora vivere), ma con l’umanità di chi queste vicende le ha vissute e le vive, come una persona tra le altre. Merce rara, senza contare che questo album è letteralmente pieno di splendida musica.

Tailwinds (The Fearless Flyers)

Recensione completa qui: The Right Stuff: Tailwinds, il primo LP dei Fearless Flyers

Se vi piacciono il funk, le sezioni ritmiche serratissime, la musica strumentale e gli svolazzi dei fiati, l’album di debutto dei Fearless Flyers, costola dei Vulfpeck ingegnerizzata dall’istrionico Jack Stratton, è il lavoro che fa per voi (e senz’altro uno dei top di quest’anno). Nate Smith (anche noto come the Ace of Aces), Joe Dart (big guitar), Cory Wong (medium guitar) e Mark Lettieri (small guitar) costruiscono un gioiello di acrobazie ritmico-armoniche, la Delta Force (una Elite Horn Section assemblata per l’occasione, comprendente Grace Kelly, Kenny Holmen e Alekos Syropoulos) cesella il tutto con travolgenti interventi melodici: dallo speed metal-funk di Ambush al funk caraibico dell’irresistibile Kauai, passando per il divertito (auto)citazionismo di Nate Smith is the Ace of Aces, The Birdwatcher e Adrienne and Adrianne e le riletture di mostri sacri (Kenny and the Jets), la combo Fearless Flyers + Delta Force si dedica a spostare un po’ più in là i limiti dell’inviluppo. Ah, se vi state chiedendo chi sia l’Assassin, “I guess the killer is the bass”.

It is what it is (Thundercat)

Recensione completa qui: “Time won’t always heal”: It is what it is

Thundercat non è solo un virtuoso del basso elettrico, strumentista eccezionale e dall’inesauribile fantasia melodica, armonica e ovviamente ritmica (e una delle principali ragioni che mi hanno spinto in questo 2020 a ricominciare a studiare lo strumento): è anche e forse soprattutto un autore, e It is what it is, album uscito a inizio anno (nel bel mezzo della pandemia) e dedicato alla figura del rapper Mac Miller, suo amico scomparso alla fine del 2018, è la migliore testimonianza dell’ormai completa maturazione del songwriting di Stephen Bruner. It is what it is è uno dei rarissimi album incentrati sul tema dell’amicizia maschile, una lenta catarsi nel tentativo di affrontare il dolore, e imparare ad accettare l’assenza: e oltre a tutto questo (che non è poco) è un grande frullatore di idee, ritmi, ispirazioni e generi diversissimi tra loro, dalla cosmic-fusion di Interstellar Love, impreziosita dall’intervento di Kamasi Washington, al funk di Black Qualls (con Childish Gambino, Steve Lacy e Steve Arrington); dal momento camp di Overseas, uno dei tanti episodi di trash divertito, irresistibile e vagamente autocompiaciuto che affollano le tracklist dei dischi di Bruner, al funk afro-futurista di Dragonball Durag; dalla malinconica Unrequited Love alla splendida Fair Chance, scritta proprio per Miller, fino agli esotismi brasilianeggianti della title-track, posta alla fine del lavoro, cui contribuisce il chitarrista Pedro Martins e che stempera il dolore in toni soft, quasi prossimi a una bossa-nova lieve di methenyana memoria, che si spegne nel buio cosmico dell’assenza. A suo tempo scrissi di questo album che conteneva “musica intimista proveniente da un altro pianeta”, utile se non altro ad imparare ad accettare quanto purtroppo non può più essere cambiato, perfino quel dolore che è (e sarà sempre) too hard to get over it.

The Joy of Music, The Job of Real Estate (Vulfpeck)

Recensione completa qui: Il funk al tempo della crisi del mercato immobiliare

Composto per metà da inediti e per metà da brani che non avevano mai trovato spazio sui vari LP ed EP della band di Jack Stratton, The Joy of Music, The Job of Real Estate (per gli amici JoM/JoRE) è l’album dei Vulfpeck per questo anno di pandemia, e contiene tutto il low volume funk di cui possiate aver bisogno (e anche qualche simpatica provocazione): il singolone 3 on E, plasmato dal vocione del grande Antwaun Stanley, il surf-Vulf di Radio Shack (con la quadratissima sezione ritmica Stratton-Dart-Dosik-Wong a tenere il filo), il romanticismo aeroportuale di LAX, frutto della collaborazione con Joey Dosik, ma anche Bernard Purdie che “shuffleggia” su Something dei Beatles cantata da Theo Katzman e accompagnata meravigliosamente dal basso di Joe Dart, e soprattutto Woody Goss sugli scudi con la sua adorabile (e irresistibile) versione di Santa Baby, grande classico natalizio portato al (relativo) successo da Eartha Kitt. A chiudere, la provocazione: la traccia 10, venduta all’asta da Stratton durante l’estate scorsa (asta col ricavato della quale sono stati finanziati diversi progetti musicali realizzati nelle high school americane) alla misconosciuta band degli Earthquake Lights, che chiudono quindi il lavoro con il pop raffinato, jazzy e vagamente cinematografico (da film di spionaggio, diciamo uno 007 in versione low volume, manco a dirsi) di Off and Away. In attesa di una rilettura vulfy di questa Off and Away, della quale si spera Stratton e soci vogliano omaggiarci presto, la sensazione è che dalla crisi del mercato immobiliare si esca solo con una massiccia iniezione di buon, vecchio funk e con la vera gioia offerta della musica, che è ovviamente suonarla insieme.

Alles in Allem (Einstürzende Neubauten)

Recensione completa qui: L’arca e la città: Alles in Allem

Un album che è, insieme, un atto d’amore per un luogo, uno spazio, un tempo: Alles in Allem, il ritorno della band di Blixa Bargeld al formato LP dopo l’ultimo lavoro di studio, Alles Wieder Offen (2007), tredici anni di attesa intervallati solo dall’atipico (e bellissimo) Lament (2014), colonna sonora di uno spettacolo dedicato al centesimo anniversario dello scoppio del primo conflitto mondiale, è un disco su e per Berlino, animato dai fantasmi della città (il muro, echi di cieli wendersiani, reminiscenze storiche di Rosa Luxembourg e ricordi privati della giovinezza di Bargeld), quasi più vicino alle pagine di Infanzia Berlinese intorno al millenovecento di Walter Benjamin che a un banale album di canzoni (se mai esistessero semplici e banali album di canzoni firmati da questi arzilli terroristi sonori). Tra il bianco e nero dei ricordi, visioni maestose di luoghi che hanno ormai colonizzato una larga fetta del nostro immaginario di cittadini europei, e austere geometrie, Alles in Allem, al pari delle pagine di Benjamin, è un’arca che cerca di portare in salvo le promesse e le speranze da un mondo che le sta fagocitando tutte: è nostalgia, ma è anche partecipazione attiva, forza vitale, superamento dirompente. C’è la cavalcata orgiastica di Ten Grand Goldie, la ballad Landwehrkanal, che miscela la Storia (l’assassinio di Rosa Luxemburg) con le storie (l’infanzia di Bargeld), la quasi insostenibile potenza sonora della ninnananna industriale Zivilisatorisches Missgeschick, la livida poesia della title-track, in precario equilibrio tra le immagini una città ora concreta, ora immaginaria, e il trittico di toponimi che chiude il lavoro, composto dal fascino sontuoso di Grazer Damm, dalla filastrocca sinistra di Wedding e infine dal notturno meditabondo di Tempelhof. Alles in Allem è musica fisica, una macchinazione geometrica e tattile messa in moto da un nocciolo di oscura poesia, imperniato su una domanda che sottende da sempre la produzione degli Einstürzende Neubauten: Was ist die Befindlichkeit des Landes?

RE-ANIMATOR (Everything Everything)

Recensione completa qui: The slaughter in the sky: umanità e apocalisse in RE-ANIMATOR

Per chi scrive, gli Everything Everything sono una delle band più interessanti in circolazione (da tempi non sospetti, leggasi Man Alive, 2010, che recensivo su queste pagine in largo anticipo rispetto al seguito, per quanto di nicchia, che Jonathan Higgs, Jeremy Pritchard, Alex Robertshaw e Michael Spearman avrebbero saputo crearsi in questi anni). L’ultimo lavoro, RE-ANIMATOR, è ancora una volta un concept-album che segue la falsariga dei precedenti Get To Heaven (2015) e soprattutto A Fever Dream (2017), riuscendo a coniugare ricerca sonora e tematiche di ampia portata: dal principio della mente bicamerale, che informa il primo singolo estratto, l’eterea mini-suite In Birdsong, al tema del doppio e del Doppelgänger (Arch Enemy, The Actor), dalla crisi del sistema capitalistico, che è anche (e soprattutto) crisi ambientale, raccontata in Big Climb, agli haters cantati in Lord of the Trapdoors, passando per il citazionismo (tra Radiohead e The Twilight Zone) di It Was a Monsterning e il prog spaziale condito di synth ciccioni di Planets. RE-ANIMATOR è un enorme tour de force, pieno di idee e di riflessioni ora stravaganti, ora originali, di certo mai banali: un disco da ascoltare con le orecchie e il cervello, per riscoprirsi umani mentre ci avviamo ad ampie falcate verso l’Apocalisse: Hey, I wanna be there/ When the wild wave comes/ And we’re swept away/ I wanna be there/ When the wild wave comes/ For us/ Then she takes you in her violent arms/ And you stare into the violent sun/ And the words are wrong but in the right order/ And she takes you in her violent arms/ And you stare into the violent sun/ And you know this will be gone in the morning, canta Higgs accompagnando il trascinante alt-rock di Violent Sun. L’annientamento anima da sempre molte delle migliori canzoni della band: The Slaughter in the Sky, come lo rinomina ancora Higgs nel bel mezzo di In Birdsong, inteso come un’estinzione di massima, l’esaurimento dei combustibili fossili, la fine delle risorse, il cambiamento climatico, ogni imprevedibile avvenimento che possa condurre al termine l’esistenza come la conosciamo. Tuttavia, non è una buona ragione per non entrare nel futuro a occhi aperti.

The Ascension (Sufjan Stevens)

Recensione Completa qui: Laddove aumenta il pericolo, cresce anche ciò che salva

Restare umani di fronte al crollo di tutte le promesse: The Ascension, ottavo album di studio di Sufjan Stevens, è un disco pieno di dolore, disillusione, senso di perdita (e perdita del senso). Sposando la dimensione cantautorale, a cavallo tra intimismo e potenti riflessioni politiche (la cui portata è quanto mai superiore, e più scoperta, rispetto a quanto accaduto in passato), a sonorità più prettamente elettroniche, Stevens cerca una diversa via verso la pop-song: il risultato è una lunga riflessione sulla fatica che costa la consapevolezza, ripensare se stessi e il proprio posto nel mondo, ripercorrersi all’indietro nel tentativo di riuscire a comprendersi. Dalle tentazioni glitch e IDM di Make me an offer I cannot refuse all’ironica critica della società dell’apparenza contenuta nel pop sintetico di Video Game dall’attacco alle storture della società (e del capitalismo) che riecheggia in Lamentations e nella delicata Gilgamesh, fino alla paura e al comune destino di fragilità degli essere umani, cantato in em>Run Away With Me: se è vero che, come scriveva Hölderlin, “laddove aumenta il pericolo/ cresce anche ciò che salva”, l’autocoscienza dolorosa della title-track, indirizzata al recupero di una qualche ingenuità di sé, e la conclusiva elegia in odore di kosmische-musik America, tanto simile al continente da cui prende il nome, accompagnano per mano l’ascoltatore attraverso mille gorghi e rivoli in direzione di un orizzonte che forse non potrà mai essere del tutto compreso (The Ascension è soprattutto un disco profondamente enigmatico, insieme delicato e brutale) ma che pure è il nostro unico orizzonte, verso il quale dovremo riuscire a recuperare la capacità di avanzare insieme. Don’t do to me what you did to America è un grido di dolore ma anche un verso che rimarca la possibilità di un altro mondo, di qualcosa di totalmente, irriducibilmente diverso: confessare la propria fragilità, accettare che le cose siano andate diversamente da come sognavamo, rinunciare al migliore dei mondi, non significa per forza rinunciare ad un mondo migliore.

… + 1: Paseo del Bajo (Sebastián Tozzola)

Recensione Completa qui: “La milonga fischiettata che non riconosciamo e ci emoziona”

Il mio +1 quest’anno è questo disco del bassista (e clarinettista basso) Sebastián Tozzola, argentino, un artista che ho avuto la fortuna di incrociare in questo 2020 come ormai sempre più spesso si incrociano mondi musicali lontani, ovvero usando un social, e in questo caso Instagram: per me, incontri come questo sono il segno evidente del potenziale racchiuso nei mezzi di comunicazione che tutti quanti usiamo ogni giorno. Questo disco è un coloratissimo, ricchissimo excursus che parte dalle radici musicali e dalla tradizione sudamericana (argentina, in particolare), rileggendole con eleganza e amore e sposandole con il virtuosismo e la commovente espressività di Sebastián che (lo dico con sincera ammirazione) è attualmente uno dei miei bassisti preferiti: dal jazz alla cumbia, dal chamamé al tango, dal bolero al candombe al folk, non c’è stile che non possiate trovare amalgamato in queste 15 tracce, condito con tanta, tantissima mistura fina di patuticciana memoria e qualche eco di Pastorius (paragone forse banale e che non rende davvero giustizia al magico suono del fretless di Sebastián). Che vi lasciate stregare dal fraseggio spericolato e trascinante di A bajo y Pa’fuera, dal lieve 7/8 notturno di Miniatura a la Luna 1 (Siete Octavos para Medialuna), dall’elegantissimo chamamé Al Mar o dalle affascinanti riletture del folk tradizionale di La Nochera o del classico bolero Perfidia, non potrete restare insensibili alla stordente varietà e ricchezza di registri né tantomeno alla profondità del suono di Sebastián, che non esito a definire una delle voci strumentali (mi si passi il gioco di parole) più affascinanti e potenti che abbia avuto la fortuna di incrociare in questi ultimi 12 mesi. Paseo del Bajo è musica per ascoltatori curiosi, che hanno voglia di conoscere e imparare qualcosa di nuovo, musica che vi lascerà più ricchi di come vi ha trovato: musica preziosa, preziosissima.

Con questo si chiude il best of di questo 2020, e vi do appuntamento a domani per l’ultimo post riepilogativo, dedicato interamente al basso elettrico! Ah, e ovviamente buon anno a tutti!

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