All’inizio del mio “best of 2023” scrivevo, senza mezzi termini, che mi sarei ricordato di quell’anno, tra qualche anno, “come di un periodo di profonda, continuata e devastante stanchezza (soprattutto per le fatiche lavorative, molteplici ma comunque foriere di soddisfazioni)”. Ancora non sapevo che il 2024 sarebbe stato pure peggio, e infatti anche la media di pubblicazione ne ha risentito (per la prima volta dal 2020): in questo 2024 sono stati 37 (questo incluso) i post pubblicati sul blog, un numero ben lontano da quelli del 2022 e 2023 (47), ma anche da quelli del 2020 (42 post) e del 2021 (40 post), gli anni nei quali Arcipelaghi, complice la riscoperta del tempo libero legata alla pandemia, ha ricominciato ad ingranare dopo lunghi periodi di vacche magr(issim)e, per non parlare del confronto assolutamente impari con gli anni migliori (i 60 post del 2008 e i 49 del 2009, rispettivamente secondo e terzo anno di vita di questo blog che è nato, lo ricordo, nel Novembre del 2007 e che ai tempi era ospitato dalla benemerita piattaforma Splinder). Spero che il 2025 andrà meglio, ma non me la sento di garantirlo… A risentire di questa minore prolificità sono stati soprattutto i post della serie Play what’s not there: Jazz on Arcipelaghi, la nostra rubrica dedicata alla musica Jazz, che ha fatto segnare soltanto 4 contributi, mentre le English Versions, la nostra beneamata rubrica di articoli scritti in lingua inglese per il nostro ampio pubblico anglofono, hanno fatto registrare addirittura 12 post, uno in più rispetto allo scorso anno. Peraltro 12 su 37 significa quasi il 33%, ovvero occhio che, nel giro di qualche anno, rischiamo di diventare un blog totalmente anglofono. Per quanto riguarda la Settima Arte, sono stati soltanto due (sigh) i post dedicati al cinema in questo 2024 e raccolti come sempre sotto la fantasiossima etichetta di Cinema (mi sforzerò di trovare un titolo migliore per questa rubrica: lo prometto ogni volta e lo avevo promesso anche per i post in inglese, ma tanto poi non lo faccio mai). Qui però spezzo una lancia a mio favore: avevo in canna tre recensioni praticamente già scritte sulla Trilogia X di Ti West (che avrebbero anche potuto confluire in un’unica, abnorme ed esagerata analisi collettiva) che non ho fatto in tempo a pubblicare prima della fine di quest’anno, e che troveranno spazio sul blog nelle prime settimane del 2025.
Sul fronte social, la nostra piccola ma agguerrita community Facebook ha visto un incremento di una o cinque unità, non capisco bene: contiamo adesso 79 mi piace e 83 follower, qualunque cosa significhi. L’anno scorso mi ero limitato a segnalare che eravamo in 78, quindi non so bene come commentare questi numeri. Fatto è che, se vi va dare un’occhiata e magari anche di unirvi, basta schiacciare l’iconcina di Facebook in alto a destra sulla pagina, oppure nella colonna sinistra del blog: potete stare tranquilli, limitiamo fortemente lo spam indifferenziato e inutile, non mordiamo nessuno e vi aspettiamo a braccia aperte! Ma ora bando alle ciance di circostanza, e tuffiamoci di testa dentro una tradizione che accompagna queste pagine ormai dal lontano 2014 (siamo giunti pertanto all’undicesima edizione), ovvero il best of musicale dell’anno che sta per concludersi!
Ed ecco a voi l’undicesimo 11 titolare della storia di Arcipelaghi!!
Copio-incollo come ogni anno la consueta premessa per i Cristiano Ronaldo della musica (ciao CR7!): qui non si fa a gara, non ci sono competizioni, non ce ne sbatte una beata minchia di chi sia il chitarrista (ovviamente metallaro) che sa fare gli assoli più tecnici e con la cascata di sessantaquattresimi più veloci e nitidi a 240 bpm, né tanto meno ci interessa distribuire pagelle. Astenersi narcisisti e drogati di competizione. L’elenco procede come di consueto per lo più a braccio, tipicamente a caso quando non regolarmente a cazzo. Come ogni anno, compilare questa “classifica” è sempre più difficile perché di dischi ormai tendo ad ascoltarne diversi (anche se a volte, con mio grande dispiacere, non riesco a recensirli tutti), e alcune rinunce sono molto dolorose. Cercherò di essere breve (ancora più del solito) specie considerando che ogni disco che citerò ha sul blog un suo post dedicato (al quale troverete rimando). In ogni caso, nell’eventualità che ci fosse qualcosa che mi abbia sconquassato i precordi più della media, non mancherò di farvelo notare (l’ho fatto anche lungo la normale programmazione mensile): di solito, come avrete capito, non sono avaro con le parole.
Mountainhead (Everything Everything)
Recensione completa qui: Humans of Late Capitalism
Considero gli Everything Everything una specie di “mia” scoperta, come ho raccontato più volte: si tratta di una band che seguo dagli esordi del 2011 (dai tempi della folgorante MY KZ, UR BF), e che ha intrapreso un percorso di crescita incredibile e (a ormai quasi quindici anni di distanza) apparentemente ancora inarrestabile. Quello che mi piace della band di Jonathan Higgs, Jeremy Pritchard, Alex Robertshaw e Michael Spearman è la capacità di coniugare il proprio pop-sperimentale (chiamiamolo così) con istanze e riflessioni mai banali: negli anni la band ha raccontato, attraverso la propria musica, la confusione politica degli anni ’10 e l’avvento dei populismi su scala mondiale (Get To Heaven e A Fever Dream), il rapporto dell’umano con la tecnologia e l’isolamento sociale post-pandemico (RE-ANIMATOR) fino all’avvento dell’AI (il magnifico Raw Data Feel). Con Mountainhead, uscito a inizio del 2024, Higgs e soci decidono di mettere in musica la società capitalistica e il suo inesorabile declino: l’album si basa sulla costruzione di una grande metafora del mondo tardo-capitalista nel quale viviamo, realizzata attraverso il racconto di una società distopica che ha eretto un’enorme montagna sul proprio pianeta per tentare un’ascesi mistica verso un livello superiore (di sviluppo sociale? Economico? Per fuggire all’orrore? Le interpretazioni possono essere molteplici). Per erigere quest’ambiziosa montagna gli umani hanno scavato una fossa altrettanto profonda, al fondo della quale vive una misteriosa creatura, un serpente dorato chiamato Creddahornis, la cui stessa esistenza minaccia la speranza di ascensione dell’intera società. Se vogliamo, Mountainhead propone una metafora adatta a raccontare il sogno (o l’incubo?) della crescita infinita che si accompagna naturalmente al delirio capitalistico. Musicalmente, le 14 tracce dell’album strizzano l’occhio al passato di Get To Heaven, condito da quegli elementi elettronici che avevano trovato ampio spazio nei due album precedenti della band: ma Mountainhead è soprattutto la cosa più vicina a un concept album che possa capitare di ascoltare nella contemporaneità della scena pop-rock. All’interno della sua struttura di “racconto”, alcune tracce emergono per ritagliarsi uno spazio assolutamente proprio: l’opening maestosa di Wild Guess, con la sua lunga intro strumentale (lungo per un pezzo dichiaratamente pop, s’intende); i singoli The End of the Contender e Cold Reactor (davvero irresistible); l’elettronica minimalista di R U Happy?; la splendida (e personale) Enter The Mirror, o l’immagine del tomorrow’s bacon che accompagna Dagger’s Edge (e rimanda alla memoria Supper’s Ready dei Genesis), o ancora il rock geometrico e sfavillante di City Song. La forza della musica degli Everything Everything è sempre stata quella di non sottrarsi alla complessità, ma scegliere consapevolmente di abbracciarla; non cedere all’istinto (umano, troppo umano) dell’iper-semplificazione, per percorrere coraggiosamente la via dell’analisi, della riflessione, della critica. Seguendo l’auspicio di David Foster Wallace (Really good fiction could have as dark a worldview as it wished, but it’d find a way both to depict this world and to illuminate the possibilities for being alive and human in it), Higgs e sodali riescono, coi mezzi della propria musica, nell’impresa di illuminare ciò che di umano rimane nelle (e può riemergere dalle) macerie della nostra società.
Recensione completa qui: A poem only barely says the thing halfway
C’è talmente tanta carne al fuoco in Night Palace, l’ultimo lavoro di Phil Elverum (prima mente dei The Microphones, ora meglio noto col moniker di Mount Eerie), che a cercare di seguirne le mille diramazioni si rischia di perdere la strada per tornare a casa: ci troviamo l’estetica lo-fi che ha da sempre caratterizzato la produzione di Elverum, la solita ecletticità stilistica, l’interesse per i mezzi espressivi della poesia spinto fino a proporre della vera e propria spoken poetry, l’attenzione predominante per la debordante potenza della natura (e Anacortes, campo base di Elverum e da sempre protagonista indiscussa della sua opera); ma anche, ancora, l’elaborazione del lutto per la scomparsa della moglie Geneviève Castrée, la ricerca sonica più spericolata e sperimentale, e un’attenzione nuova, ancora più profonda, alla tematica della de-colonizzazione (con tutti i riferimenti al movimento Land Back di cui Night Palace è disseminato). Siamo di fronte, soprattutto, a un’opera che si concepisce come opera totale, e come tale vuole essere esperita: un complesso, articolato e denso magma ribollente di ricerca sonora, spericolatezza poetica e immagine (basti pensare allo splendore dell’artwork che accompagna il lavoro). Lungo un’ora e venti di musica divisa per 26 tracce, Elverum esplora tanto l’indie-rock (Non-metaphorical Decolonization) quanto il noise (Writing Poems), la drone music (Co-Owner of Trees) e l’ambient (Wind & Fog); attraversa l’indie-folk con tracce come in Blurred Worlds o The Gleam, Pt. 3, e l’elettronica minimale (I Spoke With a Fish); flirta con l’electro-pop (I Walk) e abbraccia il post-rock (Myths Come True o Huge Fire), lo slowcore e il doom (Breaths); frequenta la ballad (My Canopy) e riesce ad ibridare il songwriting con la più pura forma di sound art, come nella memorabile epopea di I Heard Whales (I Think), spingendo la propria passione per la poesia alle estreme conseguenze con gli oltre dodici minuti di art-rock e autentica spoken poetry di Demolition. Nel mondo ideale che Elverum raccoglie in questa opera monumentale c’è tanta eeriness, nell’accezione fisheriana del termine: un universo parallelo e trascendente imbevuto un mistero intrinseco e affascinante, in qualche modo una proiezione fantasmatica di aspirazioni e sentimenti che emergono dal reale e dal quotidiano, in fondo l’idea cioè che tutto ciò che ci circonda, anche le cose apparentemente meno importanti, possano nascondere una profonda e inaspettata ricchezza di significati. Il sogno è l’infinita ombra del vero, per dirla con il verso di una poesia: ed è da questa frizione tra reale e fantasmatico, tra quotidiano e sogno, come se si camminasse lungo una linea d’ombra, che le composizioni di Elverum prendono forza e si gettano in profondità, per scavare dove pochi riescono anche solo ad arrivare. La grande capacità del buon Phil è quella di tenere insieme il percorso personale, intimista, con la dimensione collettiva: Night Palace si propone come una sorta di mappa, un atlante che tiene insieme un mondo di relazioni che va da quelle personali e famigliari a quelle sociali, fino ad abbracciare la Storia con la S maiuscola; si tratta del racconto della vita di Phil Elverum dentro un contesto che arriva fino alla Storia di una nazione, gli Stati Uniti d’America, nata dal genocidio e dall’espropriazione e occupazione delle terre dei nativi. Dal piccolo al grande, Night Palace opera come una poderosa lente d’ingrandimento che, sebbene non riesca a trovare una giustificazione al dolore (non ne esista una valida), sa inserirlo in un contesto più ampio, abbracciando l’intero corso della storia umana. Se vi sembra un progetto ambizioso, avete ragione: lo è. Ma io vi consiglio caldamente di ascoltarlo, perché contiene tante cose bellissime.
Recensione completa qui: Someday I’ll be kinder to myself
Per la fortunata e frequentatissima serie “musicisti che seguo con grande attenzione dopo averli conosciuti assolutamente per caso” (chi legge questo blog con regolarità sa di cosa parlo), anche quest’anno Lizzy McAlpine compare con un suo lavoro nella lista dei miei album preferiti: era già accaduto nel 2022, all’epoca del secondo, bellissimo disco della cantautrice di Philadelphia, Five Seconds Flat (in occasione della promozione del quale mi ero per l’appunto casualmente imbattuto nella sua bellissima voce). McAlpine è tornata in questo 2024 con il terzo capitolo discografico, Older, pubblicato il 5 aprile e che è stato seguito, sei mesi dopo, da una versione estesa intitolata Older (and wiser) arricchita da 5 ulteriori tracce registrate nelle stesse sessions che hanno dato origine all’album (compreso il bellissimo singolo Pushing It Down and Praying, del quale ho parlato in uno dei miei RoundUp mensili). Older, pubblicato per RCA Records, è stato scritto e prodotto da Lizzy McAlpine a Los Angeles con il contributo di Mason Stoops, Ryan Lerman, Jeremy Most, Tony Berg, Taylor Mackall e Ethan Gruska. Fin dai primi ascolti traspare una sostanziale differenza rispetto al sound di Five Seconds Flat: Older suona complessivamente meno “pulito”, molto più materico e caldo, e infatti è stato infatti registrato largamente in presa diretta, microfonando la stanza e creando un’ossatura di base di ciascun pezzo con gli strumenti portanti (chitarre, piano, basso e batteria). La scelta di questa modalità produttiva, piuttosto lontana dalla ricercatezza del processo che aveva condotto a Five Seconds Flat si è resa necessaria dopo una prima fase di lavorazione “trial and error” della quale la cantautrice americana non era pienamente soddisfatta: la svolta nelle vicende produttive dell’album è da ricollegarsi a un live di Ryan Beatty a Los Angeles al quale McAlpine ha casualmente assistito (vedì a volte, la serendipità), restando colpita dalla compattezza della sua band di supporto. Nel tentativo di ricreare quell’impasto sonoro, McAlpine è quindi tornata in studio con la band di Beatty e ha condotto delle nuove registrazioni, arrivando a concluderle nel giro di un paio di settimane. Le migliori versioni sono state poi selezionate per le sovraincisioni, e il tutto è stato mixato ex post da Andrew Sarlo. Older è un disco di forti “tensioni”, a partire dall’immagina che lo accompagna in copertina e suggerisce l’idea di un mettersi a nudo: l’album è infatti profondamente intimista, e vibra di un calore tale (strumentale e, per estensione, ideale) che lo rende ancora più pulsante, vivo. Dentro ci sono tracce spaventosamente belle: l’opening affidata alla breve e intensissima The Elevator, Come Down Soon con le sue vibrazioni un po’ Aimee Mann, lo strepitoso gioiello pop-folk Movie Star; ma anche la melodia commovente di Staying, col suo ritornello abbacinante, e il folk dimesso di I Guess; la bellissima Drunk, Running (con Sua Maestà Pino Palladino a occuparsi dei pedali bassi), la title-track Older e March, dolorosa elegia dedicata al padre scomparso, fino alla conclusione affidata alla splendida Vortex, accompagnata da quei versi che (non a caso) scelsi per dare il titolo alla mia recensione (Oh-oh, oh-oh/ Someday I’ll be able to let you go/ Oh-oh, oh-oh/ Someday I’ll be kinder to myself). Older racconta di un percorso di crescita, di un amore difficile al quale si riesce a fuggire, degli errori nei quali ci capita costantemente di ricadere e di quegli appetiti nei quali cerchiamo di non indulgere quando ci rendiamo conto di quanto ci facciano male: dall’indie-pop sofisticato e molto prodotto di Five Seconds Flat, Lizzy McAlpine passa qui a proporre un folk intimista, sovente scabro e spoglio, impreziosito a tratti da orchestrazioni più ampie ma sempre molto materiche, ancorate alle vibrazioni degli strumenti. Older è un album fortemente suonato, nel quale spesso si sente letteralmente il legno delle chitarre, ma anche (soprattutto) le pelli dei tamburi; un album che, anche quando vede molte delle sue tracce svilupparsi lungo la direttrice del crescendo, non vuole mai cedere facilmente all’illusione catartica della musica pop, spesso ricca di una fanfara che suonerebbe quanto mai fuori luogo. È piuttosto un lavoro delicato, piegato su se stesso; dolente e pulsante, diretto e onesto. Dentro queste quattordici tracce si tocca molta carne viva e si respira una fragilità offerta con coraggio e naturalezza e per questo ancora più preziosa, perché tutti noi la conosciamo e la sperimentiamo (appartenendo di fatto a una dimensione di umanità, con tutti i suoi tradimenti, splendori e miserie). Lizzy McAlpine poi è dotata di una voce strepitosa, ma soprattutto di una capacità di scrittura che la rende una delle giovani cantautrici di questi anni da seguire con maggiore attenzione.
Fearless Movement (Kamasi Washington)
Recensione completa qui: Dance me to the future
L’influenza che su di me ha avuto un disco come The Epic, licenziato da Kamasi Washington e dalla sua incredibile band nel 2015, è francamente difficile da quantificare: mi ha sostanzialmente spinto, insieme a un paio di altri “incontri musicali” avvenuti in un momento nel quale mi pareva che non ci fosse molto altro per me, a ricominciare a studiare il mio strumento. Per sgomberare il campo da equivoci: Fearless Movement, album di Washington pubblicato lo scorso Maggio per Young, ha poco a che vedere con la torrenziale monumentalità di quel primo LP. Se The Epic era un mastodonte di quasi tre di musica per diciassette tracce divise in tre lunghe sezioni, Fearless Movement (che segna il ritorno discografico di Washington a sei anni da Heaven and Earth) è un lavoro più conciso, 12 tracce per circa un’ora e mezzo di musica, e incentrato sul tema della danza e del movimento, di una musica intesa come momento di liberazione che passa anche attraverso la mimica dei corpi, la vera e propria fisicità. Si tratta anche di un lavoro “fatto in casa”, nel senso di realizzato “in famiglia”: oltre ai sodali di lungo corso della West Coast Get Down (Miles Mosley al contrabbasso, Tony Austin e Ronald Bruner Jr. alle batterie, Ryan Porter al trombone, Cameron Graves e Brandon Coleman a dividersi tra piano e tastiere, Thundercat al basso elettrico e Patrice Quinn alla voce, con in più un intervento di Terrace Martin al sax alto), nel disco compaiono anche una melodia “scritta” dalla piccola figlia di Washington, Asha (Asha the First) e il flauto del padre del sassofonista, Rickey Washington, in The Visionary, The Garden Path e Lines in the Sand. Altro elemento distintivo, rispetto al passato, è rappresentato dall’ampia libertà creativa che il leader ha lasciato agli elementi della sua band: a differenza di quanto accadeva nei lavori precedenti, infatti, la composizione e la scrittura in Fearless Movement sono appannaggio di tutti gli strumentisti, e si incontrano quindi anche brani non scritti da Washington ma dai suoi collaboratori. Fearless Movement va pertanto inteso come un’opera autenticamente collettiva, che incarna quei principi di comunità e vicinanza (umane e spirituali) che da sempre hanno animato la musica di Kamasi Washington. Nel disco incontriamo lo swing sfrenato e la potente spiritualità di Lesanu, che si apre con enigmatici versi in lingua ge’ez (un’antica lingua semitica parlata in Etiopia fino al XIV secolo), tanto quanto il roboante e caotico assolo di basso di un Thundercat in stato di grazia in Asha the First; i riferimenti alla pop culture della splendida cover di Computer Love degli Zapp di Roger Troutman e il funk black e groovy di Get Lit; l’ambient vagamente psichedelico di Dream State e la ballad jazz-pop di Together, impreziosita da uno splendido solo del trombone suonato da Ryan Porter; ma anche l’R’n’B della bellissima Lines in the Sand e a chiudere (ironicamente) il finale affidato a Prologue, brillante e massimalista rilettura di quella Prologue (Tango Apasionado) scritta da Astor Piazzolla e inclusa nel bellissimo album The Rough Dancer and the Cyclical Night (Tango Apasionado), riarrangiata per l’occasione da Miles Mosley. Per quanto Fearless Movement non presenti le caratteristiche di forte epicità e sacralità che si rinvenivano nei solchi di The Epic, l’album riesce comunque, nuovamente, a fotografare uno stato dell’arte, immortalando la vitalità di una scena musicale nel momento stesso in cui essa si sposta per proiettarsi verso il futuro. Nel far questo il lavoro si giova senz’altro della sua dimensione “collettiva” e corale, coinvolgendo le migliori menti della black music contemporanea (da Thundercat, da sempre ospite di lusso nei dischi del sassofonista, a Terrace Martin, da André 3000 degli Outkast a BJ The Chicago Kid, da Dwight Trible fino a mostri sacri come George Clinton, oltre ovviamente ai compagni di viaggio della West Cost Get Down) e liberando un’energia che si respira ovunque nella quasi ora e mezza dell’esecuzione. In fondo anche la scelta deliberata di ispirarsi alla danza come elemento emotivo ancora prima che fisico, al movimento inteso come concetto spirituale, al cambiamento come forza trainante di ogni spostamento del limite, permette di trasferire efficacemente questo afflato dentro dodici tracce che, a loro modo, sono tanto materiche quanto filosofiche, tanto tattili e fisiche (come fisica è quella tentazione di scuotere il capo o battere il piede a tempo) quanto cerebrali. Fearless Movement è un flusso inesauribile di prepotente gioia musicale, uno di quei dischi che riconciliano con l’essenza stessa della musica ma, soprattutto, un album con dodici bellissime canzoni da assaporare/ascoltare con attenzione/ballare/o-qualsiasi-altra-cosa-vogliate-fare mentre corriamo a perdifiato verso il futuro.
Recensione completa qui: Low Volume Disco-Pop-Funk
Tutta un’altra aria è quella che si respira nell’opera di Jack Stratton, votata a un’anarchia giocosa e assolutamente lo-fi. Da quando il deus ex machina dei beneamati Vulfpeck ha iniziato a promuovere una carriera solista scegliendo per se stesso il moniker di Vulfmon (la cui etimologia è stata già ampiamente discussa), Stratton ha attraversato tante fasi quanti sono stati gli album licenziati nei tre anni di attività (uno per anno): dapprima profeta della Gaia Scienza, dáimōn (δαίμων) ovvero essere ibrido, intermediario tra il divino e l’umano, tra il Low Volume Funk e l’infinita platea degli adepti nell’omonimo esordio di Vulfmon (2022); poi poeta beatnik, agitatore intellettuale e ribelle in lotta contro il conformismo (del mondo musicale) per Vulfnik (2023); e, infine, slegandosi quasi da se stesso, pura essenza e concentrato di pura musica (e di puro senso, significante che finalmente diviene simbiotico del significato che vorrebbe veicolare), incarnato dal “punto” bianco su sfondo nero che accompagna la copertina di questo terzo album, intitolato semplicemente Dot (2024). Se è vero come è vero che a volte il messaggio è il messaggero, questo è particolarmente vero per Stratton/Vulfmon: la musica è la sua gaia scienza, insieme mezzo e fine, linguaggio universale ed emanazione di un divino superiore, dirompente forza creativa e pertanto intrinsecamente caotica (solo il caos è generante), subdolamente sconclusionata, irresistibilmente divertente. Anche il passaggio più riflessivo della discografia di Vulfmon è sempre, in qualche maniera, un inno alla gioia: la gioia libera del comporre, del creare, dell’usare ogni sfumatura del linguaggio per comunicare uno stato d’animo, una sensazione, un’idea. La palette dell’artista, già di per sé sconfinata, ha saputo poi arricchirsi di album in album, aprendosi ben presto alla collaborazione: dai sodali dei Vulfpeck fino a tanti altri musicisti che hanno contribuito non poco a dar forma alle idee musicali di Stratton. In Dot tutto questo è sublimato dalle collaborazioni (non più casuali, ma apertamente sistematiche) messe in campo con lo spericolato (e stralunato) polistrumentista e cantante Jacob Jeffries (anche Little Yacov, in alcune delle sue incarnazioni) e, soprattutto, con Evangeline Barrosse, cantante e autrice californiana dalla voce potente e bellissima, musa ideale dell’amor fou vulfmoniano, perfettamente a suo agio nell’universo surreale, sgangherato e vagamente anarchico imbastito dalla fantasia picaresca del buon Jack. Ne esce un lavoro che è composto di dieci potenziali singoli: dal low-volume funk-pop di Got To Be Mine, benedetto dalla sezione ritmica composta da Joe Dart e Nate Smith e dalla vocalità eterea di Evangeline, alla posa da chansonnier che Vulfmon assume per la ballad Letting Things Go; dal’R’n’B giocoso e inventivo di Tokyo Night (con un memorabile solo del sax di Joey Dosik e un vasto assortimento di pentolame usato come percussioni) alla spericolato divertissement di It Feels Good To Write A Song (il lancio del brano sui social era Vulf is on a mission to rescue parents from baby shark…); dagli echi beatlesiani di Little Thunder al Vulfmix di Too Hot In L.A. di Woody & Jeremy, e dalla cover dei Beach Boys (Surfer Girl) al funk strambo della reprise di Nice To You (della serie Vulfmon incontra l’AI che incontra i Jackson Five), fino alle tentazioni dancefloor incarnate in Disco Snails e, a chiudere, un secondo Vulfmix, quello della bellissima Hit The Target, brano di Theo Katzman riletto attraverso il Juno di Dave Mackay e il sassofono filtrato del sempre impeccabile Eddie Barbash. Anche per Jack Stratton la musica torna ad essere intesa come veicolo principe del movimento, e in un certo sento Dot non è distante dalle aspirazioni di Fearless Movement, eppure si situa in un universo parallelo, totalmente distante e psichedelico: percorso da una sottile e pervasiva vena anarchica, quella che abbiamo imparato ad amare ormai dai tempi dei Vulfpeck, Dot è una specie di trattato sulla serietà da usare nel gioco, come se fosse un libro illustrato che insegna agli adulti a rimettere nel gioco la stessa seria applicazione che vi dedicavano da bambini. Insomma, la Gaia Scienza nella sua massima espressione.
Recensione completa qui: all you children gathеr round/ we will dance together
Jamie XX (al secolo James Thomas Smith) è uno di quegli artisti al lavoro dei quali sono affezionato per ragioni decisamente extra-musicali: la scoperta di In Colour, il suo lavoro del 2015, non è stata tutta farina del mio sacco e non smetterò mai di essere grato a chi mi introdusse a quel mondo. A distanza di nove anni da In Colour, Jamie XX ha fatto ritorno in questo 2024 con un disco che più diverso di così rispetto al precedente era francamente difficile (a meno di licenziare un album di folk acustico, s’intende): In Waves si pone in ideale contrapposizione al suo predecessore, a partire da quella copertina in bianco e nero assolutamente minimale (ma resa vagamente psichedelica per l’effetto ottico generato dall’accostamento cromatico delle “onde” che la percorrono) che si oppone apertamente al ventaglio multicolore che accompagnava l’album del 2015. Però In Waves gioca anche con se stesso: a dispetto della monocromaticità evocata dal suo artwork, infatti, la palette sonora ricreata da Jamie XX è qui tra le più ricche che si possano ritrovare nella musica dance contemporanea, incarnata in una varietà di stili assolutamente spiazzante. Se In Colour ruotava intorno all’idea della forma-canzone, e alla sua declinazione attraverso un’estetica IDM, In Waves si concentra maggiormente sugli elementi ritmici e sull’aspetto dancefloor; se In Colour sapeva essere un album etereo, da ballare ma senza rinunciare a un certo grado di astrazione malinconica, In Waves appare fin da subito come un prodotto più fisico, direttamente legato a una certa estetica della club culture. Non a caso, lungo le 12 tracce che ne puntellano la scaletta, In Waves fa ampio ricorso al sampling, all’interpolazione di parti indipendenti ed esterne, concentrandosi più sulla variazione ritmica che sulla ricerca melodica, e mettendo in musica quel “dancefloor” universale inteso come spazio di comunità che l’autore stesso ha voluto evocare “ambientando” il release party dell’album in un club appositamente creato a Londra, il The Floor. Dentro In Waves trovano spazio tanto la deep house di Wanna quanto la UK garage di Treat Each Other Right, la ballad decostruita I Waited All Night (realizzata col contributo dei sodali dei The XX, Oliver Sim e Romy Madley Croft) e la house-funk di Baddy On The Floor; il dance-pop della splendida Dafodil e la techno berlinese (ibridata di ambient e house) di Breather; i versi di Nikki Giovanni (che accompagnano All You Children) e l’elettronica minimale di Falling Together che si sposa magnificamente allo spoken word affidato alla ballerina Oona Doherty. In un certo senso In Waves segue un percorso non lontano da quelli tracciati dai due dischi di cui abbiamo parlato poc’anzi (ciascuno a suo modo), Fearless Movement e Dot: un ritorno alla danza e al movimento come aggregatore e acceleratore dell’idea di comunità. Nelle 12 tracce di questo lavoro (che, mettendo un attimo da parte We’re New Here, album di remix del lavoro di Gil-Scott Heron licenziato nel 2011, potremmo definire album della maturità, o sophomore album) Jamie XX dedica un doveroso tributo al mondo del dancefloor e della club culture all’interno del quale ha condotto, negli anni, la propria attività discografica come producer: uno spazio del quale il giovane musicista inglese sa ancora intuire le potenzialità, giungendo ad auspicare che la fisicità e la comunione della danza possano rappresentare delle fondamenta sulle quali edificare un’idea nuova di comunità, universale e sfaccettata, ipertrofica e gioiosa (e giocosa: il riferimento al mondo infantile e il ricorso alla poesia Dance Poem di Nikki Giovanni, incentrata proprio sui bambini, non è in questo assolutamente casuale).
Rampen (apm: alien pop music) (Einstürzende Neubauten)
Recensione completa qui: The future will be disturbing
Siamo soliti associare l’improvvisazione, Intesa come prassi artistica e tecnica espressiva, a un contesto molto preciso, quello del jazz, ignorando vieppiù come numerose altre forme d’espressione (o, se vogliamo, numerosi altri “generi”) abbiano attinto (e attingano) in maniera molto proficua a questo stesso concetto: nel corso del 2024, a ricordarcelo, è arrivato il tredicesimo album di studio degli Einstürzende Neubuaten, dal sibillino titolo di Rampen (apm: alien pop music). In questo titolo Blixa Bargeld, Alexander Hacke, N. U. Unruh, Jochen Arbeit e Rudolf Moser tengono insieme in equilibrio i due elementi cardine della propria idea di composizione musicale: da una parte la Rampe, ovvero quella pratica di improvvisazione che la band mette in atto da sempre nei suoi live e che consiste nel suonare all’impronta un brano basandosi su alcune scarne indicazioni lasciate alla libera interpretazione di ciascuno strumentista; dall’altra il pop, quel pop “alieno” che spesso e volentieri, su queste pagine, ho definito neubauten-pop, ovvero la forma espressiva verso la quale Bargeld e soci hanno fatto evolvere la propria musica (che proviene, non bisogna dimenticarlo, dalla scena punk industrial berlinese degli anni ’80) nel corso dell’ultimo trentennio. Rampen (apm: alien pop music) raccoglie 14 delle migliori Rampen (improvvisazioni, dunque) sviluppate dalla band sul palco durante il tour di supporto ad Alles in Allem (del quale ho potuto assistere alla data di Bologna) riproducendole per la registrazione ai Candy Bomber Studio di Berlino. Alle 14 improvvisazioni selezionate (su 23) si è aggiunta, durante le riprese, una quindicesima traccia, Planet Umbra. Questo Rampen (apm: alien pop music) è poi uno di quegli album che cambiano completamente se li ascolti a basso volume o ad alto volume: il cammino attraverso il quale si snodano le 15 tracce di questo peculiare doppio LP sconfina spesso e volentieri in territori onirici, e la forte stratificazione sonora dei vari brani emerge più chiaramente quando il volume si alza. La ricchezza sinfonica delle produzioni degli Einstürzende Neubauten è sempre tutta lì, unita a una straordinaria profondità ritmica e a un’inesausta sperimentazione timbrica e armonica, capace di produce brani tanto spericolati e decisamente sui generis quanto, miracolosamente, orecchiabili (si potrebbe addirittura dire che alcuni siano definibili come catchy, che suona come una bestemmia ma resta il fatto che talune melodie, per quanto irregolari e assolutamente non canoniche, restano impresse a fuoco nella testa). Lungo questa ora e un quarto di musica di un altro pianeta incontriamo il crescendo angosciante di Wie Lange Noch?, la stordita e surreale filastrocca di Pestalozzi, il clima apocalittico di Before I Go, il terrorismo sonico di Isso Isso e la più stramba break-up song che potrà mai capitarvi di ascoltare, Besser Isses; ma anche la spettrale Everything Will Be Fine, che ricomincia laddove Beauty si concludeva, o la profonda riflessione sui limiti e le forme del linguaggio che attraversa The Pit of Language, Tar & Feathers e Gesundbrunnen, oltre al minimalismo ai limiti del mantra di Planet Umbra o alla ballad sghemba di Trilobiten. Le quindici tracce di Rampen (apm: alien pop music) sono una collezione di pop deturpato e dissonante, e rappresentano un po’ il negativo della musica che ascoltiamo ogni giorno, evocando una forza misteriosa e profonda che si agita sotto le macerie e le avvolge, una specie di musica della contemporaneità che ogni giorno viviamo, una musica del presente, che sembra provenire da un passato tanto cieco quanto tribale e proiettarsi in un futuro di forme esplose e significati impazziti. Come da consuetudine, gli Einstürzende Neubauten declinano la propria personale ricerca sonora nei termini di una sfida rivolta agli ascoltatori, conciliando le strutture accoglienti della musica pop con un senso costante di alterità, di qualcosa di alieno, strisciante e inquietante, espresso tanto nelle sonorità industriali quanto nei deliri vocali di Bargeld, voce-strumento per eccellenza, e plasticamente rappresentato dall’evidente frattura tra la prima e la seconda metà di questo doppio lavoro, che sembrano quasi opposte l’una all’altra, più diurna la prima e più umbratile la seconda, maggiormente ricca dal punto di vista concettuale, restituendo infine una visione quasi allucinatoria che abita territori sinistri situati da qualche parte tra il sonno e la veglia, il sogno e l’incubo.
Paseo del Bajo Vol. 4 (Sebastián Tozzola)
Recensione completa qui: Un’emozione che si danza
Un altro protagonista degli ultimi “best of” ospitati da questo blog è senz’altro Sebastián Tozzola. Sebastián è svariate cose: musicista fenomenale, clarinetto basso solista dell’Orchestra Filarmonica del Teatro Colón di Buenos Aires, bassista letteralmente spaziale, endorser di Ernie Ball Music Man e Ovcak Guitar (che produce anche un paio di suoi modelli signature a 6 corde). Soprattutto, con mio grande piacere, considero Sebastián ormai come un caro amico, e una figura di ispirazione: ho perso il conto delle cose che ho imparato ascoltandolo suonare, fin dalla prima volta che mi sono imbattuto in un suo video, nel quale suonava un meraviglioso Fender Jazz Bass made in Japan, fretless e armato con pickup Bartolini. Gli scrissi immediatamente, per sapere come riuscisse a tirar fuori un suono del genere da uno strumento che anch’io usavo ma dal quale non sapevo trarre niente di minimamente assimilabile a quello che ne sapeva trarre lui: ne è nata una corrispondenza virtuale, qualche chiamata su Google Meet e soprattutto (per me) un viaggio di scoperta dentro un mondo di sonorità e ritmi che non conoscevo affatto. Quel mondo è lo stesso che Sebastián riversa nei suoi album della serie Paseo del Bajo, giunta nel 2024 (pochi giorni fa, per l’esattezza, come sa bene chi frequenta questo blog) al suo quarto capitolo: Paseo del Bajo Vol. 4. Anche in questo album (come nei precedenti), Sebastián riversa tutti quegli elementi che vanno dal tango al bolero, dalla milonga al candombe fino al jazz per proporre un’esperienza sonora vicina tanto al pop (anche a quello cantato, nel quale l’artista si cimenta ormai da un paio di anni sia da solo che in collaborazione con musicisti come Manu Estrach) quanto alla musica latinoamericana tradizionale e a certi esiti di artisti come il nume tutelare Daniel Maza. Dentro Paseo del Bajo Vol. 4 ci sono brevi sketch espressionisti che mettono in mostra l’incredibile e fluente vocabolario del fraseggio di Sebastián, come i Microcandombe Nro 5 e Nro 6, o la Miniatura al Sol Nro 3, che apre la scaletta, e la Miniatura al Rio Nro 4, che la chiude; brani che coniugano le sonorità argentine al folk e al pop, come Cercar el Aire, Sueño Lejos o Cerca del Alba (dove compare, alla chitarra, anche il già citato Estrach); incursioni verso il funk e lo slap (35 Vueltas, P-Fanky) e piccole digressioni sul candombe (Cueto Guarilonga), senza dimenticare il confronto (ineludibile) con la tradizione del tango di Astor Piazzolla, affidata a Estudios tanguísticos: Nro 5. Personalmente, la cosa che amo di più delle composizioni di Sebastián Tozzola è il modo in cui uniscono la ricchezza ritmica a una profonda, commovente espressività melodica: il resto lo fa la tecnica di Sebastián sul suo strumento, che rende possibili cose che (per i più) non sono nemmeno immaginabili. In attesa di incontrarsi finalmente di persona (che il 2025 sia infine l’anno giusto?), lascio con piacere che Paseo del Bajo Vol. 4 occupi il posto che merita tra gli ascolti che più hanno segnato questo anno che volge al termine.
Fabiana Palladino (Fabiana Palladino)
Recensione completa qui: A pop love story
La miglior musica pop (non credo di essere io il primo a dirlo) è quella che sa raccontare storie, parlando la lingua della gente comune e interpretando sogni, sensazioni, desideri: instaurando una connessione, per dirla in un giro di parole. Il 2024 ci ha fatto dono di un album che rispecchia alla perfezione questo precetto, un lavoro che, pur pescando apertamente da un’estetica (e da sonorità) che affondano negli anni ’80, sa aggiornare il proprio linguaggio ai dettami della contemporaneità: si tratta dell’album di debutto omonimo di Fabiana Palladino (figlia d’arte, non sto a dilungarmi tanto sapete già di chi stiamo parlando), pubblicato lo scorso 5 Aprile per XL Recordings e Paul Institute, etichetta di Jai Paul che non poco ha contribuito alla stesura di questi 10 brani di un pop d’altri tempi, profondissimo per vedute e soluzioni e soprattutto suonato con grandissima classe. Ascoltando Fabiana Palladino, la prima cosa che viene in mente è eleganza: a partire dalla copertina, minimale e giocata su toni e colori che rimandano tanto a Kate Bush (Hounds of Love, ispirazione dichiarata dalla Palladino) quanto alla pittura di Tamara de Lempicka, questo album è un lavoro di sconfinata grazia, splendidamente scritto e altrettanto magnificamente suonato. Alla resa sonora del tutto contribuisce non poco la qualità degli interpreti, e non sorprende (dati i natali) che Fabiana Palladino sia un disco letteralmente “fatto in famiglia”: lungo le 10 tracce, tutte scritte (e spesso anche suonate da sola) da Fabiana Palladino, ascoltiamo il leggendario basso fretless MusicMan Stingray del buon babbo Pino Palladino, ma anche il fratello Rocco (eccezionalmente alla batteria) e la sorella Giancarla (ai cori). Fabiana Palladino è arrivata a questo primo lavoro dopo una lunga gavetta come compositrice, songwriter e session musician (in particolare al piano) per artisti del calibro di Sampha, Jessie Ware e SBTRKT, e non sorprende quindi la naturalezza con la quale riesce a tenere insieme le sue molte ispirazioni (la già citata Bush, ma anche David Bowie, Joni Mitchell, Stevie Wonder e Aretha Franklin) senza mai suonare derivativa, ma piuttosto rielaborandole in maniera totalmente personale per metterle al servizio della propria volontà espressiva. Fabiana Palladino è il racconto di una storia d’amore, dal suo inizio alla sua conclusione: contiene il minimalismo electro-pop (Closer), il pop più smaccatamente debitore degli anni ’80 (da Can You Look in the Mirror? agli echi Depeche Mode di Deeper), tanto, tanto R’n’B (la bellissima I Can’t Dream Anymore, ma anche il primo singolo estratto, Stay With Me Through The Night), accanto a complesse ballad sintetiche (I care, oppure In The Fire) e splendide composizioni di pop più canonico ma non meno ambiziose, come la conclusiva Forever che si giova non poco del suono senza tempo dello Stingray Fretless del buon Pino e degli archi magnificamente arrangiati da Rob Moose. Fabiana Palladino è un disco che dura quaranta minuti e ci consegna un’autrice la cui penna è baciata da una grazia non comune, dieci composizioni esatte come poche volte capita di ascoltarne, un esercizio di grandissima musica pop costruita su un concetto tanto fondamentale quanto (sempre più spesso) colpevolmente dimenticato: la semplicità. La carriera solista di Fabiana Palladino non è che agli inizi ma è facile (e giusto) auspicarne un prosieguo luminoso tanto quanto questo sorprendente esordio.
The Fearless Flyers IV (The Fearless Flyers)
Recensione completa qui: Pushing the envelope
Dieci volte su dieci, chi registra un album live ci tiene a fartelo sapere, perché c’è tutta una religiosità attorno agli album che documentano le esibizioni dal vivo di una band (alimentata da riti, scorni, diatribe ecc): beh, 9.99999 volte su dieci, perché il restante 0.00001 volte può capitarvi di avere a che fare con la genialità irregolare di Jack Stratton, che accompagna il quarto EP della sua più celebre creatura (Vulfpeck a parte) alla dicitura Recorded Q4 2023 at the Blue Note NYC- “Not a live album”. La creatura di cui parliamo sono i The Fearless Flyers, combo larger-than-life composta da Joe Dart, Cory Wong, Mark Lettieri e Nate Smith, combattiva sezione ritmica d’assalto (alla maniera di certe espressioni teutoniche tanto caro allo Stratton feroce fan di producer come Mack) e truppa di eleganti funamboli, spericolati aviatori d’èlite impegnati a spostare il limite dell’inviluppo sempre un passetto più in là; e il disco di cui parliamo è il quarto EP della band, The Fearless Flyers IV, pubblicato a inizio anno e che segue i tre EP precedenti (e vabbè) ma soprattutto il primo (e per adesso unico) lavoro sulla lunga distanza, Tailwinds del 2020. Anzi, The Fearless Flyers IV fa di più, e nel breve (si fa per dire) spazio di sei vertiginose tracce, supera abbondantemente il minutaggio dello stesso Tailwinds. Nel parlare di questo disco, le metafore aviatorie si sprecano (e si sprecheranno): non è un caso che la band e Stratton abbiano deciso, nel rigoroso rispetto delle prerogative di questa squadriglia acrobatica, di dedicare ciascuna delle sei tracce ad altrettante storiche pattuglie acrobatiche, dai Blue Angels (pattuglia degli aviatori della marina americana) ai Thunderbirds (sempre americani, ma appartenenti all’aeronautica), dalla Patrouille de France agli inglesi Red Arrows fino ai canadesi Snowbirds e alle nostre Frecce Tricolori. Si tratta, come ovvio, di riferimenti voluti (e ben soppesati): è infatti totalmente inutile nascondersi come Wong, Lettieri, Dart e Smith siano de facto altrettanti virtuosi dei propri strumenti ed è quindi in generale lecito attendersi che un certo “sfoggio” di tecnica faccia parte del bagaglio minimo di questa squadriglia; eppure, come nel migliore dei voli in formazione, è l’insieme delle singole unità che crea il vero spettacolo, garantendo al solista la possibilità di ritagliarsi il proprio spazio nelle migliori condizioni di volo possibili. Dalla trascinante melodia di Blue Angels, accoppiata ad una strepitosa bassline del buon Dart, al funk spigoloso di Red Arrows; dalle complesse concatenazioni ritmiche di Patrouille de France alle varie sfaccettature di Frecce Tricolori; dal funk à la Wong della bellissima Snowbirds alle rigorose geometrie della conclusiva Thunderbirds, le altitudini raggiunte dalla band nel corso delle sue spettacolari evoluzioni sembrano sfidare tutte le leggi della fisica (e dell’ingegneria aeronautica, ma soprattutto dell’esecuzione e della performance: il suono dell’album è pazzesco, frutto tanto della clamorosa perizia degli interpreti quanto di uno straordinario lavoro tecnico di mix e ripresa compiuto da Miles Hanson e Noam Wallenberg, al punto che si fa fatica a credere che quel che si sta ascoltando sia stato davvero registrato dal vivo e in presa diretta). Però non bisogna lasciarsi stordire dagli effetti speciali, perché c’è ben altro rispetto al virtuosismo fine a se stesso: c’è lo sviluppo di un fraseggio, la ricerca melodica, l’interesse per le strutture armoniche; in generale, c’è un occhio di riguardo a tutti quegli aspetti della musica che vanno oltre la mera esecuzione tecnica. Segnalo anche qui (sommessamente) che la copertina di questo EP ricorda molto da vicino quella di Let It Be dei Beatles: casualità o dichiarazione d’intenti? Se conoscete un pochino Jack Stratton saprete senz’altro che non c’è niente di casuale nel suo modus operandi (sebbene ci sia molto di anarchico e apparentemente caotico). The Fearless Flyers IV ci mostra senza mezzi termini come dovrebbe suonare una sezione ritmica funky senza compromessi, a metà strada tra la macchina da guerra e la spericolatezza del gioco (infatti in passato parlavo di “gioiosa macchina da guerra”), ironicamente marziale (annessi e connessi della dimensione estetica della band si riferiscono, per celia, proprio a questo immaginario) quanto eversivamente inventiva, tanto quadrata quanto capace di imprevedibili, romantiche digressioni.
I Wish I Had A God (Hohnen Ford)
Recensione completa qui: Loud and quiet
E chiudo il mio undici titolare per questo 2024 con un’altra scoperta fatta per caso (ah, serendipity!), ovvero il secondo EP della meravigliosa cantante e cantautrice Hohnen Ford (al secolo Ella Hohnen-Ford, londinese). Seguo Hohnen Ford ormai da qualche anno, fin dagli esordi di Infinity EP (2022), e ho avuto anche l’occasione di intervistarla per questo blog (l’intervista è stata pubblicata proprio quest’anno, contestualmente al lancio del nuovo EP: la potete recuperare cliccando qua). I Wish I Had A God, secondo EP dell’autrice, composto da cinque tracce, è stato pubblicato ufficialmente per Young Poet, etichetta inglese che segue numerosi talenti estremamente interessanti nel panorama del pop contemporaneo (faccio un altro nome soltanto: Alice Auer, della quale abbiamo spesso parlato su questo blog), ed è accompagnato da una versione fisica in vinile che racchiude sia questo EP che il precedente (si compra qui, se volete). Hohnen Ford è un’autrice che ha un suono (e una scrittura) tutti suoi, assolutamente personali, in grado di tenere insieme tanto le armonie del jazz (dalle quali l’artista proviene, per background e studi musicali) quanto l’accessibilità del miglior pop: brani come Only Way Out, quasi reminiscente del minimalismo di artisti come Ryuichi Sakamoto, o la malinconica gemma pop Honest Mistake attingono a mondi sonori diversissimi tra loro, e rispetto agli esordi di Infinity Hohnen Ford arricchisce qui la sua palette espressiva appoggiandosi a un’intera band di supporto. Questa “nuova” dimensione d’insieme conferisce un’atmosfera totalmente diversa alle composizioni, come si può apprezzare ad esempio in Another Lifetime. La titletrack, oscillando delicatamente tra la ricchezza armonica del jazz e la nuda e scarna essenzialità delle migliori melodie pop, mette al centro del discorso una storia di profonda amicizia e il dolore della perdita: l’intero lavoro è infatti dedicato alla memoria di Imogen Moore-Shelley, scomparsa nel corso del 2023. L’EP si chiude con il mood ossessivo e vagamente oscuro di Skin Deep, per certi versi più vicina alle vecchie composizioni piano e voce dell’artista, sebbene con una ricchezza di colori diversa. La cifra caratteristica di I Wish I Had A God è quella di un calibrato, elegante e ricercatissimo intimismo: c’è una profonda e proficua attenzione per l’aspetto emotivo ed emozionale della melodia, il nocciolo pop di queste composizioni, coniugato in maniera brillante a un gusto elaborato per l’armonia (di chiara discendenza jazz), il tutto tenuto insieme da una voce che ha davvero pochi eguali nel panorama contemporaneo per semplice bellezza, purezza espressiva e intensità. Soprattutto, Ella Hohnen-Ford appare in totale controllo dei propri mezzi espressivi, sia in termini di scrittura che strumentali (al piano) e vocali, qualcosa di estremamente raro per un’artista così giovane. Non so cosa porterà in dote il futuro, ma questi due EP (insieme al lungo tour che sta conducendo in giro per l’Europa e il nord degli Stati Uniti) lasciano sperare che sentiremo presto parlare di Hohnen Ford anche su palcoscenici ben più ampi e prestigiosi di questa paginetta coi suoi venticinque lettori. Ad maiora, dunque.
Con questo si chiude il best of di questo 2024, e a me non resta altro da fare che augurarvi un buon anno e darvi appuntamento a breve per un ultimo post riepilogativo di quest’annata, dedicato principalmente a sua maestà il basso elettrico (altra tradizione avviata nell’ultimo periodo). Buon anno a tuttə!