Nostalgia del futuro: Clockdust (Rustin Man, 2020)

Una patina di nostalgia, un bianco e nero velato di seppia, molto cinematografico e molto malinconico: questa l’atmosfera (quasi tattile, verrebbe da dire) evocata da Clockdust, il secondo disco in due anni firmato da Paul Webb, aka Rustin Man, che esce oggi a un anno dal precedente Drift Code e a 18 anni dalla prima fatica (Out of Season, in compagnia di Beth Gibbons), più di trenta anni dopo la fine dell’esperienza nei Talk Talk, vissuta insieme a Mark Hollis e Lee Harris. Proprio Lee Harris continua ad accompagnare il bassista anche in questo lavoro, come era stato per i progetti a nome .O.rang negli anni ’90: Clockdust è un album di ballad futuribili, ma provenienti da un futuro immaginario/immaginato con profonda nostalgia in un passato lontano, una contraddizione felicemente racchiusa nello splendido artwork, raffigurante uno scintillante carosello di sgangherati personaggi futuristici. C’è l’introduzione pianistica di Carousel Days, presto cadenzata dal passo orchestrale prodotto quasi da una stravagante orchestra giocattolo; c’è il folk ombroso di Gold & Tinsel e la straniante e notturna Jackie’s room, primo singolo estratto, riecheggiante gocce di psichedelia e art-rock coniugati con un senso dello spazio peculiare e del tutto cinematografico. Le chitarre blues che accompagnano Love turns her on vengono presto screziate da un’elettronica vintage e discreta (tutto il disco è attraversato dall’uso di strumentazione “inconsueta”, dall’eufonio al kokoriko all’okonkolo), mentre Rubicon Song imbastisce un affascinante gioco di specchi e rimbalzi che prelude alla splendida Old Flamingo, un jazz al rallentatore nel quale la voce di Webb si spinge in territori à la Robert Wyatt (come anche in diversi altri episodi della tracklist) per poi sposarsi a una fanfara che rimanda col pensiero a un’orchestrina da camera o, se preferite, a un carillon le cui pile stiano per esaurirsi. L’episodio cameristico di Old Flamingo lascia spazio a Kinky Living con le sue atmosfere da cabaret straniante (rievocate anche nel video, pubblicato oggi stesso) e poi al dub oscuro di Night in the evening, nel quale si torna ad ascoltare quel basso fretless che (personalmente) ho tanto adorato nei lavori dei Talk Talk, autentico padrone della scena, pietra angolare di una costruzione percussiva affascinante e stordente. Chiudono il disco i riverberi di Man with a remedy, stratificata ed elaborata costruzione ritmica che sposa con eleganza la tensione cantautorale e la sperimentazione sonora.
Disco enigmatico, stravagante e venato da una sottile inquietudine, coi piedi nel passato ma la testa nel futuro,
Clockdust è accompagnato per adesso da due videoclip di Edwin Burdis (per Jackie’s Room e Kinky Living), parte di un progetto più ampio (la video suite The Evening Rooms), che incarnano l’immaginario fortemente cinematografico di cui si nutrono sia questo lavoro che lo stile compositivo stesso di Webb (“I recorded and wrote like a filmmaker. My backing tracks created a backdrop, and I wrote my lyrics like a filmmaker writes dialog. Finally, I found suitable characters for my voice. I don’t find the subjects to sing about. They find me.”).
Questa terza fatica di
Webb come Rustin Man è un lavoro le cui atmosfere blandiscono, seducono e lasciano straniati: ogni volta che il disco giunge a conclusione avrete voglia di concedergli ancora un altro ascolto per poterne cogliere le sottigliezze compositive e, come per tutti i migliori lavori, questo ascolto finirà per svelare sempre nuovi dettagli. Clockdust è allo stesso tempo una collezione delicata e elegante di canzoni perfettamente tornite e un lasciapassare che conduce altrove la mente (e il cuore). Pervase da una malinconia romantica e fuori dal tempo, le nove storie raccontate da Paul Webb in queste tracce pensose e affascinanti meritano tutta la vostra attenzione, specialmente in tempi estremi come quelli che stiamo vivendo.

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