October Round-Up: Retard the sun with gentle mist

In occasione del settantesimo compleanno di Ryuichi Sakamoto, Milan Records pubblicherà il prossimo 2 dicembre una compilation-tributo, intitolata A Tribute To Ryuichi Sakamoto: To The Moon & Back, composta da una serie di riletture di brani classici del repertorio del compositore giapponese, realizzate da un vasto parterre di artisti (comprendente tra gli altri due ben noti compagni di viaggi del pianista giapponese, ovvero Alva Noto e David Sylvian) e selezionate dallo stesso Sakamoto. Il singolo di lancio del lavoro, pubblicato lo scorso 5 ottobre, è la versione di Thousand Knives proposta da Thundercat, un nome ben noto su queste pagine: il buon Stephen Bruner prende il primo brano del primo album solista di Sakamoto, l’omonimo Thousand Knives pubblicato nel 1978, e rimaneggia le inquietudini elettroniche che attraversavano l’originale (by the way, questa è un’ottima occasione per riascoltarselo) con ampie dosi del proprio personalissimo funk-soul futurista. Particolarmente bizzarro (e brillante, e straniante) è l’effetto che fa sentir cozzare le melodie oriental-futuribili disegnate e compresse da Sakamoto dentro i 10 minuti di odissea acido-elettronica del brano originale con il groove rotondo e continuo che da sempre rappresenta il marchio di fabbrica delle bass lines di Thundercat (il primo brano che mi è tornato in mente ascoltando questa Thousand Knives è, manco a dirlo, Them Changescome sarebbe a dire che non la conoscete??). In qualche maniera, Bruner riesce a prendere la suite di Sakamoto e, nella metà del tempo della sua durata originale, a farla inconfondibilmente propria: la scelta di aggiungere un testo originale inglese rende ancora più personale questa rielaborazione, avvicinandola enormemente al tipico songwriting di Thundercat, e generando un ibrido affascinante che rappresenta il miglior biglietto da visita per l’intera compilation.

Di Chiara Cami (nome d’arte della romana Chiara Camillieri, classe 1998, youtuber per un po’, recentemente laureata in Giurisprudenza e da sempre con il sogno del cantautorato nel cassetto) ho già parlato qualche mese fa, in occasione della pubblicazione del suo singolo La Coinquilina, un piacevole brano di pop italiano con molti riferimenti internazionali (in primis quello, ampiamente dichiarato, a Taylor Swift) realizzato in collaborazione con 2o records, progetto della Arte2o Music Academy indirizzato a sostenere i giovani artisti musicali. Lo scorso 7 ottobre, Chiara Cami è tornata con un secondo singolo, Fragola, che conferma le già buone premesse e riesce a rendersi ancora più interessante del primo: tra chitarre anni ’90, un lavoro fine ed elegante sull’amalgama delle voci, un testo insieme malinconico e ironico (Ma non ho ancora un’opinione terribile di te/ Secondo me ce la possiamo fare), intriso di una leggerezza che è anche e prima di tutto un sinonimo di grazia, e una melodia estremamente ben scritta, Fragola seziona i resti di una storia d’amore organizzandoli dentro una trama chiaramente struggente e decorando il tutto secondo una delicata palette di colori autunnali. Nelle parole della stessa autrice, “Per guarnire, si consiglia di usare della frutta fuori stagione. Le fragole si prestano bene, essendo un frutto molto dolce che mal si combina con la freddezza di chi di ricevere amore non ne vuole proprio sapere.” Insomma, i riferimenti sono quelli giusti, la produzione è di alto livello e, come ho avuto modo di dire anche in precedenza, la voce di Chiara Cami è bella bella: il sogno del cantautorato sta piano piano uscendo da quel cassetto, e sicuramente il progetto di Chiara Camillieri merita di essere tenuto sott’occhio con la dovuta attenzione.

I couldn’t write you a love song
Something to sing out loud
I tried 100 harmonies
Guess I’m still trying now
But I can always play guitar
Try something new
And I hope I can carry out
What it means to me
When I’m next to you
When I’m close to you
When I’m near to you

Nello scorso Round-Up vi avevo parlato del singolo In Your Circle di Aaron Percy; nel mese di Ottobre appena concluso, il cantautore americano ha dato alle stampe altri due singoli, 100 Harmonies (uscito il 14 ottobre) e A War We Couldn’t Win (pubblicato il 28 Ottobre). In particolare il primo dei due, 100 Harmonies, realizzato ancora col contributo vocale di Judah Mayowa, con il basso di Seth Tackaberry e Jordan Rose alla batteria, si inserisce nello stesso filone di folk-pop acustico che caratterizzata In Your Circle: melodie cristalline, arrangiamento malinconico al punto giusto e un sound che, complessivamente, rimanda alla memoria i migliori episodi dei Kings of Convenience. 100 Harmonies è una canzone d’amore, di quelle che parlano di sentimenti tanto forti da non saperli esprimere, di quelle che tengono al caldo il cuore e lo difendono dal freddo che c’è là fuori.

(English Version) In the last Round-Up, I told you about Aaron Percy‘s single In Your Circle; during October, the American singer-songwriter released two new songs, 100 Harmonies (on October 14) and A War We Couldn’t Win (on October 28). In particular, 100 Harmonies share the same acoustic folk-pop vibes that characterized In Your Circle: recorded again relying on the same team (with the vocal contribution of Judah Mayowa, Seth Tackaberry on bass and Jordan Rose on drums), the song presents crystalline melodies, a melancholy arrangement and a sound that, overall, brings to mind the best episodes of Kings of Convenience. 100 Harmonies is a love song, one that speaks of feelings so strong that they cannot be expressed by simple words, one that keeps the heart warm and defends it from the cold that is out there.

Ormai avrete capito che qui di Lizzy McAlpine siamo innamorati (artisticamente parlando): la cantautrice americana, oltre a un Tiny Desk Concert che dovrebbe essere pubblicato presto, nel mese di ottobre ha registrato alcuni brani in acustico per le Salt Lick Sessions, che sono un contenitore facente parte dell’incubatore artistico Salt Lick, creato da un’organizzazione non profit che si occupa di accompagnare e sostenere artisti di varia estrazione nello sviluppo della propria carriera. Oltre a una riproposizione della bellissima All My Ghosts, tratta dal suo secondo album Five Seconds Flat (di cui vi parlavo assai ampiamente qui), McAlpine ha proposto una fantastica cover chitarra-voce del “classico” dei Wheatus (ma si tratta forse, lo confesso, dell’unica loro canzone che conosco) Teenage Dirtbag, pescata direttamente dal lontano 2000: sarà stata la voce della cantautrice di Philadelphia, una delle mie preferite di questi tempi, oppure quell’effetto da ballad attorno al fuoco che si viene a creare nel corso della performance, ma non vi nascondo che mi è quasi scesa una lacrimuccia al pensiero dei miei 16 anni. In attesa del Tiny Desk Concert, ancora un bell’esempio di quanto sia forte Lizzy McAlpine anche quando la sua musica si riduce ai minimi termini, voce, chitarra ed emozione: un’artista da seguire con grande attenzione.

(English Version) By now you should have understood that here we are in love with Lizzy McAlpine (at least, artistically speaking): the American singer-songwriter, in addition to a Tiny Desk Concert that should be released soon, recorded, during the last October, some acoustic songs for the Salt Lick Sessions. Salt Lick Sessions are part of the Salt Lick artistic incubator, created by a non-profit organization that takes care of accompanying and supporting artists of various backgrounds in the development of their careers. In addition to a reinterpretation of the beautiful All My Ghosts, taken from his second album Five Seconds Flat (on which I wrote very extensively here), McAlpine proposed a fantastic guitar-voice cover of the band Wheatus’ classic song, Teenage Dirtbag (year 2000, if I’m not going wrong). I don’t know if it’s been the voice of the American artist, one of my favorites these days, or that ballad-around-the-fire vibes expressed by the performance, but I almost got a tear at the thought of my 16 years (I’m terribly old!). Waiting for the Tiny Desk Concert, Salt Lick Sessions are a good example of how strong Lizzy McAlpine is even when her music is reduced to a minimum, voice, guitar and emotion: an artist to follow with great attention.

Permettetemi un filo di sciovinismo, ma nel corso di Ottobre è stato pubblicato anche il singolo apripista del secondo album di Phomea, progetto solista del mio compare di vecchia data Fabio Pocci: Me and my Army, questo il titolo del lavoro, uscirà il prossimo 11 Novembre per Beautiful Losers, Beta Produzioni e Beng! Dischi. Come i più assidui tra voi forse ricorderanno, il primo LP di Phomea, intitolato Annie, uscito nel 2019, era stato una produzione MelaVerde Records: il progetto MelaVerde è un po’ naufragato, ma quello di Phomea è ben saldo in pista, e giunge al secondo episodio, caratterizzato da un concept piuttosto intrigante. Me and My Army non è infatti soltanto una semi-citazione o un modo di dire, bensì un manifesto programmatico che esprime accuratamente lo spirito del disco, nel quale ogni traccia è stata realizzata col contributo di diversi artisti (tra i quali Alessandro Fiori, Flavio Ferri, l’intelligenza artificiale J.B., autrice di tutti gli artwork e del brano omonimo uscito in anteprima a settembre scorso, e anche la nostra Francesca Ulivi, che i soliti di prima ricorderanno essere stata la splendida voce dell’ormai defunto progetto eoslab, del quale tra le altre cose questo blog era la casa ufficiale fino a qualche anno fa): tra questi artisti, lo scrivo con un po’ di imbarazzo, c’è anche il vostro blogger logorroico preferito, cioè io, che ha avuto il piacere di contribuire nientepopodimeno che al primo singolo ufficiale, Take Control, coi suoi bassi un po’ cicciotti. Il video di Take Control, realizzato da Federico Perticone e che trovate in coda al pezzo, ha avuto un’anteprima su Rumore (e su idioteq.com fuori dai confini nazionali) precedendo l’uscita del brano su tutte le piattaforme, avvenuta lo scorso 21/10. Vi risparmio un’analisi tecnica del pezzo, che mi troverebbe anche in un lieve conflitto d’interessi: vi basti sapere che Take Control iniziare a sposare le sonorità acustiche che già avevamo ascoltato in Annie con nuove, sotterranee inquietudini elettroniche, tracciando il solco nel quale si inseriscono i restanti brani della tracklist. Da parte mia, l’esperienza presso Heisenberg Studio di Lorenzo Pinto (anche co-produttore del lavoro con Fabio) è stata quanto di più divertente mi sia capitato di recente in ambito musicale. Dopo aver scritto e registrato la parte con il mio basso fretless, averla rimaneggiata per il mio adorato Epiphone Jack Casady (allego foto) e aver messo in cantiere di registrarla con un Fender Precision, la mattina delle sessions ci siamo ritrovati con due Fender Jazz Bass Fender e un Warwick e nessuno che avesse un’ottavatura decente, e allora abbiamo fatto di necessità virtù, optando per un sorprendente Eko MM (vedi l’allegra fotografia poco sopra). Come dicevo poco sopra, è stato divertentissimo registrare il brano (ho dovuto fare solo ottomila take, credo, prima di farne una priva di errori), e spero di essere riuscito a fare la mia parte nel renderlo speciale, mettendoci dentro qualcosa del mio modo di suonare. Ve lo lascio qua, così potete ascoltarlo: fatelo perché, bassi a parte, il brano perché è molto bello e soprattutto non perdetevi il lancio dell’album!

Per il capitolo “Anniversari da ricordare”

Siccome in questi Round-Up mensili si fa spesso, oltre a un sunto delle migliori uscite del mese appena concluso, anche un po’ di “storia”, rievocando dischi/brani in occasione dell’anniversario della loro pubblicazione, a questo giro tocca spendere due parole (ma proprio due, eh, sennò facciamo notte) su tre dischi che ho molto amato in periodo diversi della mia vita, e che hanno compiuto lo scorso mese 20 e 10 anni di vita: in realtà uno dei tre, il più recente, ha toccato il traguardo del primo decennio a settembre, ma siccome a volte mi distraggo e mi dispiace, volevo comunque parlarne un po’ qua (a dire il vero lo avevo già fatto nel vecchio Best of del 2015 in due diverse puntate, qui e qui). Gli album in questione sono Trust dei Low, originariamente pubblicato il 21 ottobre del 2002, ( ) dei Sigur Ròs, uscito giusto una settimana dopo, e infine Palindrome Hunches di Neil Halstead, che debuttò l’11 settembre del 2012. Come dicevo poco sopra, tre album importanti in tre momenti molto diversi della mia vita.
Ai
Sigur Ròs mi sono avvicinato quando l’ADSL flat era ancora un sogno proibito, grazie all’iPod (anch’esso fantascienza, ai tempi) di uno dei miei cugini “tedeschi”: sarà stato il 2003 o il 2005, probabilmente il brano che ascoltai allora veniva proprio da ( ) e ricordo ancora la promessa di mio cugino di mandarmi il disco per posta, promessa ovviamente del tutto disattesa. Poco male, non troppo tempo dopo alla musica dei quattro islandesi (Jón Þór Birgisson, meglio noto come Jónsi, Georg Hólm, Kjartan Sveinsson e Orri Páll Dýrason) ritornai da solo, e fra tutti gli album bellissimi (in particolare la triade Ágætis byrjun, ( ) e Takk… e la fantastica raccolta Hvarf-Heim del 2007), fu proprio ( ) il primo a rapire la mia attenzione, con i suoi panorami gelidi e la sua sospensione magica a metà strada fra il post-rock e l’ambient. Si dice spesso, della musica del quartetto islandese, che rassomigli da vicino agli spazi naturali dell’isola di provenienza: c’è da dire che anche la band c’ha messo del suo per diffondere questa voce, tra l’altro attraverso un documentario meraviglioso che vi consiglio di recuperare quanto prima se potete, Heima (in realtà su YouTube trovate parecchi spezzoni e anche questa versione pubblicata in modo presumibilmente integrale e quasi certamente non autorizzato). Di sicuro ( ) è gelido e insieme caldo come certi vulcani dai nomi impronunciabili che popolano la piccola isola del nord: è un album di un minimalismo estremo, che fa a meno di tantissimo (a partire da una lingua comprensibile, essendo integralmente cantato in vonlenska, linguaggio inventato dalla stessa band, fino ai titoli stessi dei brani, tutti mancanti e sostituiti da una serie di Untitled, differenziati con l’aggiunta di un suffisso numerico, ma al tempo stesso dotati di nomi d’uso ovviamente caratterizzati dal classico, difficoltoso spelling dell’islandese, roba tipo Popplagið, Samskeyti o Njósnavélin: sì, ho fatto copia e incolla) e al quale pur tuttavia non manca assolutamente niente, in termini di impatto sonoro e di trasporto emotivo. ( ) è un po’ una piccola odissea nello spazio: oltre 70 minuti di un suono magmatico, dominato dalle tastiere di Sveinsson e dalle distorsioni della chitarra di Jónsi, suonata con un archetto, una storia divisa evidentemente in due parti (con tanto di 30, lunghi secondi di silenzio a separare le prime quattro tracce dalla seconda metà del lavoro), i primi quattro brani caratterizzati da sonorità che la band definì “leggere e ottimistiche” (ma per le quali io userei piuttosto il termine di malinconiche) e gli ultimi quattro invece “rudi e malinconici” (qui concordo totalmente con la scelta dei termini). Di ( ) si è scritto e riscritto ovunque, quindi aggiungere qualcosa di nuovo è molto difficile: io vi invito, nel caso non l’aveste mai fatto, a riascoltare questi otto brani, e magari anche a cogliere al balzo l’occasione della riedizione/remaster che verrà pubblicata dalla band a novembre, con una scaletta arricchita da tre diverse versioni di un brano extra, Untitled#9, e da tre take alternative di altrettanti brani della tracklist originale. Se dovessi scegliere un’unica canzone da farvi ascoltare sarei molto in difficoltà, anche perché onestamente ho sempre percepito il flusso sonoro di ( ) come un unicum, e come tale mi piace continuare a pensarlo: per appagare anche la vista, oltre che l’orecchio, penso però sia ragionevole lasciarvi qui lo splendido videoclip di Untitled#1 (Vaka), realizzato da Floria Sigismondi e ambientato dentro un inquietante mondo post-apocalittico. All’epoca, per me, l’ascolto di questo album rappresentò la scoperta di un nuovo mondo, sotto infiniti punti di vista: e a risentirlo, mentre scrivo queste poche, inadeguate parole, sento ancora dei brividi lungo la schiena.

Trust, dei miei amati Low, era uscito una settimana prima di (), ma io l’ho ascoltato diversi anni dopo: è stato per un bel po’ la colonna sonora di molti pomeriggi passati nella vecchia mansarda di casa dei miei a studiare, a guardare mio fratello giocare alla PlayStation, a leggere e a cercare una strada che fosse la mia. Il mio primo incontro coi Low è avvenuto, piuttosto canonicamente, attraverso il loro album d’esordio I Could Live in Hope (del quale parlavo qui); credo però che Trust sia stato il secondo album della band di Duluth che io abbia ascoltato per intero. Dentro le 13 tracce di Trust c’è tanta, tantissima musica che per me rappresenta l’essenza delle sonorità proposte da Alan Sparhawk e Mimi Parker (alla quale mi sento di mandare un abbraccio virtuale mentre combatte una battaglia ben più importante) nella loro ormai quasi trentennale carriera: quello proposto dalla band di Duluth (la line-up all’epoca era completata dal bassista originale Zak Sally) era un dream-post-rock in perenne bilico tra il silenzio e l’esplosione rumorista, uno zibaldone insieme intimo e collettivo di pensieri e umori in forma di strepitoso slow-rock. Ho sempre considerato importante il titolo di questo album: a poco più di un anno dagli attacchi di Ground Zero, non deve essere stato facile scegliere di usare un termine come Trust, fiducia, per intitolare un album, in un paese (ma forse in un mondo intero) che a questa fiducia aveva scelto consapevolmente di rinunciare, accettando di lasciarsi polarizzare nella stantia retorica del “con noi o contro di noi” che all’epoca (lo dico per i più giovani tra i miei lettori, che forse non ricorderanno) andava fortissimo, un po’ come oggi, perché dividere è sempre stato più facile che unire. Trust è quindi un disco di fantasmi, personali e collettivi: c’è dentro la tragedia della violenza, che sembra inscritta nel DNA stesso dell’uomo, ma anche il dolore personale, la battaglia contro la depressione e le dipendenze di Alan Sparhawk; c’è l’impossibilità di trovare sollievo nei luoghi comuni, in un’epoca nella quale la stessa speranza sembra scomparsa, e c’è il senso di sconfitta, la ricerca dell’amore, dell’umana comprensione, la volontà feroce di non arrendersi. But I want to believe/ Yes I want to believe/ ‘Cause there’s nothing as sad/ As a man on his back/ Counting stars: al resto pensano gli intrecci vocali dei coniugi Sparhawk, meravigliosi allora come oggi (e perché mai avrebbe dovuto essere altrimenti?), e un suono che è insieme continua reinvenzione e quasi testo inciso nella pietra, tanto riconoscibile quanto dinamico, in inarrestabile evoluzione. Seguendo la carriera dei Low nell’arco dei loro dischi si può leggere un’evoluzione che porta direttamente, inevitabilmente da I Could Live in Hope fino all’ultimo, bellissimo HEY WHAT: eppure, non potrebbero esistere due dischi più diversi tra loro, tanto lieve, guitar-oriented e smaccatamente slow il primo, quanto sperimentale, in bilico costante tra rumore e suono il secondo. Dentro questo percorso c’è la storia di un senso che si dimena per uscire, un fiume carsico che attraversa le 13 tracce di Trust come tutta la carriera della band: dentro questo album ci sono canzoni che mi hanno accompagnato per anni, come In The Drugs, e brani che nel tempo ho avuto la fortuna di ascoltare live in vesti sempre differenti (i Low sono in assoluto la band che ho ascoltato più volte dal vivo, il conto aggiornato dovrebbe essere 5, l’ultima pochi mesi fa a Bologna), come la bellissima Last Snowstorm of The Year, ma soprattutto c’è (That’s How You Sing) Amazing Grace. Ve la lascio qua sotto: partite da questo brano, e ascoltatevi tutto il disco.

[EDIT] Subito dopo aver terminato di formattare questo post per la programmazione, ho appreso la notizia della scomparsa di Mimi Parker. Inutile dire che non ho parole, né come questo faccia apparire assolutamente inutile e non necessario tutto ciò che è stato scritto giusto poche ore fa; lo so, non è inutile tutto ciò che di bello lasciamo dietro di noi, ciò che lasciamo agli altri, però adesso provo una sensazione strana. Io ho un po’ l’abitudine di sentire come amici tutti coloro che leggo o ascolto o la cui opera in qualche modo amo, anche se non ci sono veri rapporti personali: e la sensazione che provo è un po’ quella di aver perso un’amica. Posso solo dire che è un grande, grande dolore, e un enorme dispiacere.

E per concludere c’è il decennale di un altro album che per me significa molto, Palindrome Hunches del caro, vecchio Neil Halstead. Pubblicato originariamente l’11 settembre del 2012, anche Palindrome Hunches godrà di una ristampa speciale in questo mese di novembre. Per la maggior parte di voi, Neil Halstead non avrà troppo bisogno di presentazioni: già mente e chitarra di gruppi come Slowdive e Mojave 3, Halstead ha contribuito in maniera determinante a scrivere la storia della musica shoegaze a partire dagli anni ‘90. Pensate: c’è stato un tempo in cui gli Slowdive (e lo shoegaze) parevano essere davvero la next big thing, i tempi di Just For A Day (1991) e Souvlaki (1993), almeno finché la loro etichetta, Creation Records, non scelse di puntare tutto sul britpop e in particolare sugli Oasis, per timore del fallimento commerciale cui un disco apertamente sperimentale come Pygmalion (1995) sembrava inevitabilmente destinato. Storia della musica a parte, la storia personale sottesa al mio incontro con questo album credo di averla in larga parte già raccontata (come scrivevo poco sopra, in particolare qui e qui): per amor di sintesi (lo so, scritto da me fa un po’ ridere) diciamo soltanto che a Palindrome Hunches ci sono arrivato a grandi linee dopo aver visto il live di Mark Kozelek/Sun Kil Moon a Ferrara, il 7 giugno del 2015. Sul palco col buon Mark c’era infatti anche questo chitarrista un po’ accigliato e cappello-munito, che conoscevo già per gli Slowdive ma che non ricollegai immediatamente alla mia band shoegaze preferita (e ai tempi praticamente nemmeno bevevo, quindi proprio non ho scuse). Ripresi così ad ascoltare un po’ di shoegaze, iniziai a sentire qualcosa dei Mojave 3 e mi imbattei infine in Palindrome Hunches che, badate bene, è praticamente il disco di un cantautore: un grande autore di canzoni che mette in musica tante piccole storie, versi di altrettante poesie dalla grazia fuori dal comune. Palindrome Hunches è un album di pensosa gentilezza, che compone un quadretto fortemente rurale, di un folk umbratile e delicato: undici pezzi uno più bello dell’altro, delicati nella loro veste assolutamente acustica, costruiti sull’intreccio perfettamente dosato delle chitarre, di poche note sparpagliate del piano, di un violino dolente e di una voce che è strumento aggiunto, carica di sfumature intimiste che rimandano alla memoria, tra gli altri, il songwriting di gente come Nick Drake. Palindrome Hunches è un album monolitico, dotato di una sua delicata, adorabile compattezza, con un senso in sé: ci sono momenti più malinconici (Digging Shelter), altri dolenti (Full Moon Rising), passaggi distesi (Loose Change) e episodi più leggeri e cantilenanti (la meravigliosa titletrack, traboccante di una calda malinconia, oppure la splendida storia d’amore raccontata in Hey Daydreamer). È, come forse Excuse for Travellers o meglio ancora Spoon And Rafter, uno dei picchi del country-folk disegnato dall’artista britannico: per me, un ascolto che è stato d’ispirazione per tante di quelle cose che ne ho perso ormai il conto, compresa addirittura una poesia. Qualche tempo dopo ho cominciato a sognare cose strane, tipo Neil Halstead che mi fregava la ragazza dopo una cena delirante in un ristorante molto strano: però l’ho perdonato, perché il buon Neil al mondo ha dato solo cose belle, e questo disco è definitivamente una di quelle.

La poesia del mese, cui si deve il titolo del post, è di Robert Frost (immagino che non sia necessaria nessuna introduzione), e si intitola per l’appunto October. Si legge qui di seguito oppure cliccando qua. Ne esiste una bella traduzione di Silvia Bre inclusa nel volume intitolato Fuoco e ghiaccio, antologia dell’opera di Frost pubblicata da Adelphi a inizio anno.

O hushed October morning mild,
Thy leaves have ripened to the fall;
Tomorrow’s wind, if it be wild,
Should waste them all.
The crows above the forest call;
Tomorrow they may form and go.
O hushed October morning mild,
Begin the hours of this day slow.
Make the day seem to us less brief.
Hearts not averse to being beguiled,
Beguile us in the way you know.
Release one leaf at break of day;
At noon release another leaf;
One from our trees, one far away.
Retard the sun with gentle mist;
Enchant the land with amethyst.
Slow, slow!
For the grapes’ sake, if they were all,
Whose leaves already are burnt with frost,
Whose clustered fruit must else be lost—
For the grapes’ sake along the wall.

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