October Round-Up: sorprese, incantesimi e apocalissi in 9/8

Nell’ottobre appena trascorso ho scritto meno, ma ho ascoltato parecchio e riflettuto di più… questo solo per dire che potrete attendervi diversi post nelle settimane a venire, che ci avviano alla fine del 2020. Sembra ieri che si inaugurava questa serie dei round-up mensili, piccoli riassunti di cose ascoltate/viste/lette nel corso dell’ultimo mese, e siamo già a ottobre: allora un lockdown si concludeva, stavolta (forse) un lockdown è alle porte. Cercando di alleggerire il tono, di seguito alcune cosine belle passate nelle mie cuffie nei 31 giorni del mese di Ottobre.

Ricominciamo dall’album collaborativo tra Tom Misch e Yussef Dayes (leggasi qui), senza dubbio una delle vette musicali di questo 2020, almeno per chi scrive. Tanto per chiudere in bellezza il discorso, i due hanno deciso di condividere con i fan anche questo piccolo EP, quattro tracce di bonus track prese direttamente dalle session del disco. C’è la chitarra mugolante di Can You Feel it, sostenuta da una sezione ritmica come sempre trascinante, coi bassi profondissimi di Rocco Palladino (buon sangue non mente) a incastrarsi perfettamente tra i colpi di Dayes; c’è Saddle, che riprende il groove della splendida Tidal Wave, contenuta nell’album principale, stravolgendone il mood: chitarra e basso compongono una sorta di oscura litania, un’elegia misteriosa e riflessiva; e c’è Tidal Wave Outro, che regala sempre alla stessa Tidal Wave (autentico fulcro emotivo/compositivo del disco uscito a Maggio), una piccola coda di space-soul, un fade-out affascinante e sperimentale. Chiude il percorso di questo brevissimo lavoro il soundscape tratteggiato in Seagulls, un crescendo antitetico alla dissolvenza di Tidal Wave Outro, scosso dal drumming di Dayes e cullato dai bassi di Palladino, accompagnato da strida di gabbiani in lontananza.
Se da una parte appare evidente come questo EP aggiunga poco a quanto di bello fatto sentire nell’album uscito a Maggio scorso, pur tuttavia diverte ascoltare questi germi di brani, idee in nuce che provengono dalle stesse session ma non hanno trovato la giusta sistemazione nella tracklist di
What Kinda Music. Queste bonus tracks si ascoltano inizialmente per spirito di completezza, ma va a finire che si apprezzano soprattutto per la ricchezza di suggestioni, che lascia intravedere anche un futuro luminoso di idee possibili e percorsi ancora tutti da affrontare. In questo caso poi al duo che firma il lavoro si aggiunge il terzo, Rocco Palladino con il suo basso (che comunque era già presente in diverse tracce dell’album), e di fatto questo è il vero e proprio work in progress di un trio dalle potenzialità enormi.

Cory Wong ha attraversato questo 2020 di pandemia globale mettendo in mostra una prolificità difficile da eguagliare: stiamo parlando di 4 album di studio (tutti recensiti su questo blog), 3 album live e un quinto LP pubblicato proprio pochi giorni fa, il 27 Ottobre, e intitolato The Striped Album (di cui, non abbiate timore, parleremo a breve con un po’ più di dettaglio), per un totale di 8 uscite in un anno. Non lasciatevi ingannare però dalla prolificità, perché quello che davvero rende eccezionale questa successione di uscite è la loro qualità, mai meno che altissima. Stiamo parlando di uno che è passato dal funk giocoso e brillante di Elevator Music for an Elevated Mood al jazz quasi ambient di Meditations (realizzato con il grande Jon Batiste), dalle chitarre acustiche in odore di country e racconti attorno al fuoco della doppia uscita di Trail Songs (Dusk e Dawn) per tornare infine a una sorta di funk del futuro, pieno di fiati e stratificazioni (come mai si erano ascoltate nella musica del nostro) e grondante groove, anticipato da questa meravigliosa gemma intitolata Design, realizzata col contributo vocale della magnifica Kimbra (che i più, in Italia, ricorderanno per il duetto di Somebody That I used to know di Gotye). Qui veramente sprecare parole appare quasi un delitto: ve la lascio da ascoltare con la promessa di riparlarne a brevissimo, nel contesto del nuovo LP. Vi basti sapere che io la ascolto a diritto dall’8 ottobre scorso, data della sua pubblicazione.

E il 14 Ottobre è uscito anche un nuovo EP del buon James Blake, i cui ultimi passi mi hanno convinto assai più di quelli fatti nel recente passato. Questo Before, breve EP di sole 4 tracce, vira decisamente verso l’elettronica, ma lo fa senza smarrire il gusto melodico che contraddistingue i passaggi più luminosi di Blake: apre l’up-tempo di Keep Calling, accarezzato dalla voce ultraterrena del buon James e capace di cullare dolcemente pur nella sua struttura ritmica serrata, prendendosi pause e creando spazio. La title-track inizia con pulsazioni sotterranee e un delicato gating sui bassi, densi e profondissimi, ma è ancora la melodia vocale di Blake a farla da padrona mentre canta di come ci si senta ad imparare cosa significa essere amati (I must be in pain ‘cause I’ve never needed anyone before/ Well nothing’s in vain, ‘cause I/ Well, nothing’s in vain, ‘cause I/ Well, nothing’s in vain, ‘cause I’ve never had it as good before), preludio a una coda strumentale puramente elettronica, tutta bassi e suoni alieni, distorti, con tentazioni quasi rumoriste. E allo stesso modo è stravolta e satura la tastiera che apre Do You Ever, un tipico loop di piano à la Blake appoggiato su ritmiche quasi da dance-floor, una giustapposizione minimalista contrappuntata perfettamente dagli archi arrangiati da Nico Muhly. Chiude l’organo ieratico di Summer of Now, una ballad che fa quasi da camera di decompressione per l’elettronica dance floor ascoltata fin qui, quasi un momento chill-out, e bastano poche righe delle liriche per capire che qui siamo su un altro pianeta, dove le considerazioni tecniche svaniscono pian piano e, a contare, resta solo il portato emotivo del brano:

I’m not the summer of 2015
But I can be the summer of now
Oh-oh-oh-oh
I’m not the summer of 2015
But I can be the summer of now
And if you should come through that rеvolvin’ door
I hope you’re bringing, I hope you’rе bringing somethin’ for me

Insomma, il buon James sembra aver ripreso il vizio di far centro ad ogni uscita, e questa è semplicemente un’ottima notizia.

Burial ha scritto quello che probabilmente è, per chi scrive, uno degli album più potenti del nuovo millennio, l’eccezionale Untrue, pubblicato ormai 13 anni fa (correva l’anno 2007): da quel momento, nessun altro LP è uscito dallo studio dell’ineffabile producer londinese (al secolo, William Bevan), se si esclude il recente Tunes 2011-2019, che però si limita a raccogliere in maniera antologica il lavoro frammentario di Bevan negli ultimi quasi tre lustri, fatto di numerosi EP e singoli, ed è di fatto una raccolta. Freddatevi, mi sa che per il prossimo LP tocca ancora aspettare: e però in questo suo remix di quella che sarà una delle tracce del nuovo album solista di Charles Webster (un altro che si fa vivo molto raramente, e infatti Decision Time, questo il titolo del nuovo LP, sarà il primo album dato alle stampe da un ventennio a questa parte dal leggendario producer britannico di musica house: chissà, magari tra perfezionisti si intendono) si tornano ad ascoltare quelle atmosfere piovose, oscure e notturne, da periferia londinese, che rendevano speciale proprio il meraviglioso Untrue. Se The Spell fosse una ricetta, la si potrebbe riassumere così: mettere vynil distortion a pioggia, aggiungere quel tipico drumming dubstep un po’ sghembo del miglior Burial, luminose aperture melodiche quanto basta, voci campionate vagamente angeliche ad accompagnare le poche frasi di Ingrid Chavez e, per chiudere, un’atmosfera malinconica e autunnale con un po’ di inserti concreti; lasciar scorrere nelle orecchie per 8 minuti rigorosamente a occhi chiusi e l’incanto è compiuto.

Il foxtrot è una danza di origine americana, la cui misura base è di 4 tempi (ovvero, si tratta di un quattro quarti, quattro movimenti per battuta). Pensando a questa ovvietà, ho sempre trovato ironico che la mia iniziazione al meraviglioso mondo delle scansioni ritmiche peculiari, più o meno irregolari, avvenuta ormai quindici anni fa quando ebbi la fortuna e il piacere di entrare nel duo prog già avviato da due amici (che divenne quindi un trio per poi trasformarsi, un annetto dopo, in quartetto), sia avvenuta grazie a un disco che si intitola proprio così, Foxtrot. Ovviamente i Genesis (e questo album) non hanno bisogno di presentazioni, e io tra l’altro sono probabilmente l’ultimo a poterle fare: però recentemente ho riascoltato questo lavoro, originariamente pubblicato il 6 ottobre del 1972, e ho pensato che in un Round-Up del meglio di ottobre dovesse starci per forza.
Partiamo dalla copertina, che ovviamente si ricollega alla scelta del titolo,
Foxtrot, “il trotto della volpe”. Realizzata dal fido Paul Whitehead (sarà l’ultima, dopo quelle, parimenti affascinanti, di Trespass, 1970, e Nursery Crime, 1971), la copertina rappresenta un’insolita scena di caccia alla volpe, uno dei classici passatempi dell’alta società/borghesia inglese, dalla quale Peter Gabriel, Tony Banks e Mike Rutherford provenivano e verso la quale non hanno mai fatto smesso di indirizzare ironie, sarcasmi, prese in giro e inglesissimi strali polemici (si potrebbe investire lo spazio di un unico post soltanto per commentare le arguzie contenute nel testo di Dancing with the Moonlit Knight, tanto per fare un salto avanti al disco successivo della band, ma lasciamo stare). C’è così una donna-volpe in abiti eleganti: la donna dell’alta società sarebbe la cacciatrice, nel rituale sociale della caccia alla volpe, che invece, in questo ribaltamento, diventa preda; e ci sono quattro cacciatori a cavallo, accompagnati da uno stuolo di cani da caccia, figure misteriose che sembrano richiamare quei Cavalieri dell’Apocalisse che torneranno nella traccia conclusiva del lavoro, la monumentale Supper’s Ready. Sembra che la volpe, astuta, sia riuscita a mettersi in salvo: ma sarà davvero così? La copertina è così ricca di particolari che a descriverli tutti faremmo notte, e soprattutto non potremmo aggiungere niente a quanto di interessante sottolineato altrove (vi consiglio di leggere qui). In ogni caso, ve la lascio nella sua interezza qui sotto, così potrete riempirvene gli occhi.
E poi, dicevamo delle scansioni ritmiche insolite. Il primo brano dei
Genesis che io abbia mai avuto il piacere di suonare è proprio l’opening di questo Foxtrot, la splendida Watcher of the Skies, che di questo uso disinvolto di tempi inusuali rappresenta un ottimo esempio: titolo preso in prestito da un verso di un poema di Keats (Then felt I like some watcher of the skies/ When a new planet swims into his ken), un intro monumentale di mellotron in 6/4 suonata da Banks, come una navicella aliena che piomba sulla Terra dalle profondità dello spazio, ed ecco atterrare il celebre staccato in 6/4 di basso (Mike Rutherford), batteria (l’immenso Phil Collins) e tastiere che prelude all’ingresso della voce di Gabriel, che recita un testo dal sapore fantascientifico influenzato dalla vista del Golfo di Napoli (ebbene sì, c’è anche un po’ di Italia in questo capolavoro) e da un romanzo del grande Arthur C. Clarke (Childhood’s End), il tutto su un travolgente poliritmo dove il riff passa a 8/4 e il mellotron resta a 6/4, inizio di un saliscendi emotivo che proseguirà per tutti gli oltre sette minuti di estasi totale del brano. La seguente Time Table è una composizione decisamente più piana, quasi classicheggiante, che in qualche modo lascia rimbalzare l’ascoltatore su un pop romantico e di gran classe (intendiamoci, siamo comunque parecchio in alto in termini di qualità) dopo l’epico inizio rappresentato dalla maestosità di Watcher of the skies, un condensato di rara potenza sonora e ricchezza compositiva. La pausa di Time Table prelude all’operetta comica di Get ‘Em Out By Friday, nella quale Gabriel interpreta diversi personaggi cambiando di conseguenza voce e intonazione: Get ‘Em Out By Friday, nelle parole dello stesso frontman, è “part social comment, part prophetic”, in parte critica sociale e in parte profezia. Il tema è la speculazione edilizia (che allora come oggi, evidentemente, era un bel problema in quel di Londra): ad ogni carattere impersonato da Gabriel corrispondono un tema musicale e un universo ritmico e armonico diverso, contribuendo così a costruire un patchwork composito, affascinante e ricchissimo, una specie di operetta teatrale in cui la scenografia la crea l’accompagnamento musicale. Can-utility and the coastliners si fonda su episodi di grande intimismo chitarristico, con Steve Hackett sugli scudi, che si chiudono in un crescendo d’insieme stordente, e racconta della leggenda di Canuto il Grande il quale, stanco dell’adulazione dei sudditi, volle dimostrar loro come la sua natura non fosse altro che umana: fece dunque porre il proprio trono di fronte al mare e lì ordino alle acque di arrestarsi di fronte ad esso, senza bagnarlo. Ovviamente non ebbe successo, e quel trono che affonda in mare vale come metafora pregnante della vanità delle cose umane. Anche Can-utility and the coastliners, come Watcher of the skies, fu in larga parte composta durante la tranche italiana del tour dei Genesis a supporto del precedente lavoro, Nursery Crime, e il testo del brano si deve allo stesso Hackett (e forse poteva suonare già ai tempi come una sottile critica rivolta a Gabriel, che tendeva, per così dire, ad avere un ego un po’ debordante, cui stava forse già stretto lo spazio condiviso coi compagni di band). A far tirare il fiato, in apertura di Lato B arriva ancora un brano centrato sulla chitarra acustica di Hackett, Horizons, un breve strumentale ispirato alla Suite No. 1 in G major, BWV 1007 per violoncello di Bach. Poi, dopo aver inalato una bella boccata d’aria, c’è spazio solo per tuffarsi dentro la monumentale Supper’s Ready, 23 minuti di pura apoteosi: anche qui, tanto per capirsi, non basterebbe un post a parte, dedicato a snocciolare tutto l’insieme di citazioni, idee, riflessioni, intuizioni contenute lungo i solchi di questo brano (vi lascio comunque un video “illustrato”, che trovate in fondo al post: evocativo, chiaro e pieno di suggestioni). Musicalmente, trattasi di una lunga suite in sette atti, il cui testo è un insieme di scintillanti giochi di parole, sferzanti ironie e citazioni a sfondo biblico/religioso: ogni atto è caratterizzato da un’atmosfera a sé stante, e descrive di fatto una stanza del racconto, successione di ambienti sonori sempre diversi. Si spegne l’ultimo sol basso di Horizons e la voce di Gabriel, accompagnata da un magico intreccio di tre chitarre a 12 corde (Banks, Rutherford e Hackett), compone un quadro di vita familiare, due innamorati che cenano insieme: comincia così il primo movimento della suite, Lover’s Leap. Il narrato prende le mosse da un evento realmente accaduto a Peter Gabriel, sua moglie Jill e il produttore John Anthony nella casa della donna a Kensington, e che Gabriel ricorda con queste parole:

Accadde una notte nella casa dei genitori di Jill a Kensington, quando tutti erano andati a letto… avevamo appena parlato con John… c’era questa strana stanza nella casa di Kensington. Lì non riuscivo mai a dormire. Era decorata in turchese e viola, che sono entrambi colori abbastanza alti nella gamma delle frequenze, e penso che fosse come una cassa di risonanza per quello che stava accadendo. Era notte inoltrata, eravamo stanchi, ecc… così era abbastanza facile per noi avere allucinazioni o qualcosa di simile. Non avevamo bevuto e non avevamo assunto droghe, ma c’era questa ragazza che era una vecchia fidanzata di John e che stava cercando di vendicarsi di lui, e si interessava di magia e di quel tipo di cose. Jill e io vedemmo delle altre facce in ciascuno di noi; in realtà io ero molto spaventato. Era quasi come se qualcos’altro fosse venuto dentro di noi e ci stesse usando come un punto d’incontro. La tenda sventolò del tutto, sebbene non ci fosse vento, e la stanza divenne fredda come il ghiaccio. Ebbi l’impressione di aver visto delle figure all’esterno, figure in bianchi mantelli, e il prato su cui li vidi non era il prato che c’era lì fuori. Era proprio come in un film horror. Stavo tremando come una foglia, e stavo sudando freddo. Jill all’improvviso divenne una medium, e iniziò a blaterare con una voce diversa. È molto strano quando qualcuno con cui vivi all’improvviso comincia a parlare con un’altra voce, e alla fine feci una croce con un candelabro e qualcos’altro e la sollevai verso Jill quando stava parlando con questa voce. E in un certo senso reagì come un animale selvaggio. John e io dovemmo immobilizzarla. Nel seguito della notte alla fine la calmammo, le preparammo una tazza di the, e provammo a discutere con lei. Poi si addormentò nel salotto al piano di sotto, ma né io né John chiudemmo occhio quella notte. Per fortuna da allora non è più successo, perché la cosa l’aveva terrorizzata.

In qualche modo un’esperienza di trasfigurazione, di trasformazione fisica e psicologica: Supper’s Ready si apre allora, come scrivevo, con l’idillio amoroso, un ricongiungimento che rievoca una recente, profonda distanza (…And it’s hey babe, your supper’s waiting for you/ Hey my baby, don’t you know our love is true/ I’ve been so far from here/ Far from your warm arms/ It’s good to feel you again/ It’s been a long, long time, un quadro stravolto dalla visione raggelante di sei uomini incappucciati nel prato davanti casa, guidati da un settimo recante una croce alzata; i due amanti si trovano improvvisamente mutati in qualcosa di diverso, di altro, catapultati in un luogo lontanissimo, dove sono le due figure di un generoso contadino e di una specie di sciamano, capo di una religione intrisa di tecnica, a dominare la scena. Questo secondo uomo, che si presenta come The Guaranteed Eternal Sanctuary Man (da cui il titolo del secondo atto), è una sorta di pifferaio magico: governa il fuoco, con la sua forza distruttiva, e incarna le forze del Male, contrapposte al contadino e alla sua acqua, che dona la vita. La musica cambia ritmo, e gli eventi precipitano verso la guerra: è questo il tema del terzo atto, Ikhnaton and Itsacon and Their Band of Merry Men. Ikhnaton (storpiatura di Akhenaton, faraone egizio) e Itsacon (It’s a con, “è un truffatore”) sono due generali del Sanctuary Man, che guidano l’esercito delle forze del Male, nel quale i due amanti si imbattono: lo scopo dell’esercito è uccidere chiunque si opponga al Santuario del Fuoco, costringendo tutti alla resa. Come ogni guerra, anche questa lascia sul campo molte morti e molti feriti, e in particolare i due protagonisti si imbattono in un uomo, che si specchia nelle acque di un lago: è Narciso, sul cui petto sono state incise le parole “Human Bacon”, e che improvvisamente si trasforma in un fiore. In questo breve quarto atto della narrazione, intitolato How Dare I Be So Beautiful?, la cavalcata furibonda della battaglia si stempera in un duetto tra la voce di Gabriel e gli accordi del piano di Banks, tutti suonati in assolvenza: la trasformazione di Narciso nel fiore precipita il brano in un nuovo gorgo, cambiando ancora le carte in tavola e conducendo alla quinta sezione, Willow Farm, una carrellata surreale di giochi di parole in odore di Monty Python, personaggi del costume e della storia britannica (There’s Winston Churchill dressed in drag) e citazioni che rimandano alla copertina dell’album e ai lavori precedenti della band (Like the fox on the rocks/ And the musical box). Dal punto di vista musicale questo caleidoscopio di invenzioni letterarie, reso con elementi vaudeville, piccoli inserti di musica concreta, voci velocizzate e un uso esteso del mellotron, e inizialmente pensato come brano a sé stante, è lo snodo che rende l’intera Supper’s Ready completamente diversa da altre suite composte dalla band nel passato: una piccola pièce surreale, che non a caso Gabriel era solito “recitare” sul palco inguainato nel celebre vestito di scena del fiore. I due amanti, catapultati in questo universo parallelo e surreale, finiscono sotto terra (under the soil/ the soil/ the soil) e un interludio riflessivo, guidato dai pedali bassi e dall’organo prima, e dal flauto e dalla chitarra poi, collega Willow Farm alla tremenda e violentissima apocalisse evocata nel sesto movimento, Apocalypse in 9/8 (Co-Starring the Delicious Talents of Gabble Ratchet): i cavalieri dell’Apocalisse sferzano le terre, mentre il custode del Santuario, pienamente incarnatosi in un pifferaio magico, accompagna i suoi adepti nelle profondità della terra. Apocalypse in 9/8 restituisce l’atmosfera angosciante di fine dei tempi (e del mondo) sfruttando l’andamento minaccioso di un meraviglioso tempo dispari, un metrica in 9/8 inquietante e incombente sulla quale Banks sfodera un assolo prodigioso, che entra e esce dalla sezione ritmica (ne parla qui). È un’autentica apoteosi, con gli amanti costretti a fuggire da un mondo sull’orlo del baratro, un incubo a cuore aperto, un trionfo demoniaco della Morte. Un mondo in macerie (666 is no longer alone/ He’s getting out the marrow in your back bone/ And the seven trumpets blowing sweet rock and roll/ Gonna blow right down inside your soul) nel quale infine Pitagora, col proprio sangue, scrive le liriche di un nuovo brano musicale: ed ecco che l’Apocalisse si spegne nella melodia iniziale del brano, riportandoci al principio (And it’s hey babe, with your guardian eyes so blue/ Hey my baby, don’t you know our love is true/ I’ve been so far from here/ Far from your loving arms/ Now I’m back again, and babe it’s gonna work out fine). Il racconto riprende laddove si era interrotto, instillando il dubbio (ma proprio qui risiede il fascino dell’intero brano) che Supper’s Ready di fatto descriva nient’altro che la visione di un incubo, dipingendo in musica l’immagine allucinata (e allucinante) del terrore. Gli amanti sono di nuovo nella loro casa, mentre l’oscurità svanisce e le forze dell’amore sembrano trionfare sulla Morte (Can’t you feel our souls ignite/ Shedding ever changing colours, in the darkness of the fading night/ Like the river joins the ocean, as the germ in a seed grows/ We have finally been freed to get back home), rovesciando quanto mostrato solo pochi istanti prima, nel culmine apocalittico della discesa agli inferi: As Sure as Eggs Is Eggs (Aching Men’s Feet), l’ultimo atto, riprende il tema musicale della seconda sezione, The Guaranteed Eternal Sanctuary Man, cambiandone però il segno, e trasformando l’intreccio di organi e chitarre elettriche in un’apoteosi trionfale, un quadro luminoso, l’inizio di una speranza. Organo, bassi profondissimi e batteria accompagnano la visione della New Jerusalem, la Città di Cristallo che seguirà la sconfitta dell’Anticristo, il tutto descritto da un testo la cui potenza fascinatoria sembra presa di peso dalle Visioni poetiche di William Blake. Insomma, per farla breve (scrupolo ormai non più necessario, temo) i 23 minuti di Supper’s Ready sono 23 minuti che musica che stupisce, atterrisce e solleva: con ottima probabilità, una delle cose più belle ad esser mai state incise su nastro nella storia della musica pop-rock. Basterebbe questo a conferire Foxtrot nel posto che gli compete, che immagino sia qualcosa di simile a un Pantheon della musica popolare: 50 minuti e rotti di musica in equilibrio stupefacente tra la perizia strumentale dei suoi interpreti tutti (forse, in tutto questo delirio, ho parlato poco di quanto Phil Collins fosse un batterista fenomenale), mai ridotta a sterile virtuosismo (non state a sentire chi parla di questo, lasciatelo ascoltare la roba senza arte né parte che, probabilmente, ascolterà a giornate intere) e la sua ricchezza compositiva, armonica, lirica. Questo album dalla copertina curiosa, pieno di musica che oggi può apparire lontana (ma che invece, se la ascoltate attentamente, è ancora incredibilmente vicina), pieno di intuizioni, idee e cambi di ritmo, pieno di bizzarri tempi dispari, è stato il primo album progressive che io abbia ascoltato davvero, e mi fa soprattutto piacere riascoltarlo ancora, a distanza di tanti anni, e trovare, come ho scritto per tanti altri album nei mesi scorsi, che anche Foxtrot non ha ancora finito di dire quello che ha da dire.

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