Pausa caffè psichedelica: Gravy in My Coffee (Woody and Jeremy, 2021)

A distanza di poco più di anno dal primo LP, Strange Satisfaction, Woody and Jeremy (al secolo Woody Goss, tastierista e una delle principali menti creative dietro al progetto Vulfpeck, e Jeremy Daly, cantante e paroliere) tornano con il secondo album, che come ben si sa è sempre il più difficile nella carriera di un’artista: ma laddove Strange Satisfaction pagava probabilmente una rigida divisione dei compiti tra Goss e Daly, che aveva portato il primo ad occuparsi quasi esclusivamente delle musiche e il secondo dei testi, in occasione della seconda uscita il duo ha deciso di sfumare nettamente questi rigidi compartimenti per abbracciare una forma di composizione maggiormente indirizzata alla sintesi e alla sperimentazione di linguaggi e generi, arrivando ad arricchire notevolmente la palette offerta all’ascoltatore. Se Strange Satisfaction appariva, a lungo andare, come una successione di quadretti che, per quanto pregevoli, sembravano potersi racchiudere tutti comodamente nel rigido confine di un funk-pop con testi stralunati e un po’ surreali, autoironici e basati molto spesso sull’aspetto non proprio da sex symbol di Daly, Gravy in My Coffee (questo il titolo del secondo album, pubblicato lo scorso 4 giugno) presenta una band che ha raggiunto una maggiore maturità, e che si propone con un lavoro che, pur nella molteplicità dei colori, offre una sensazione di completezza e auto-conclusività che il precedente album non sapeva restituire. Sicuramente un punto a favore dell’uniformità del lavoro e del suo maggiore spessore compositivo e strumentale lo fa segnare la creazione di una band, costruita allo scopo di sostenere il progetto: accanto a Goss (che si occupa ovviamente di tastiere e synth) e Daly si muovono stavolta le chitarre di Noam Wallenberg e Ben Joseph (che suona anche un po’ di tastiere), accompagnate dal basso di Andrew Vogt e dalla batteria di Packy Lundholm (che si concede di intervenire anche in alcune parti di chitarra). Alla band “stabile”, per così dire, si affiancano Reuben Garza e soprattutto Joe Dart, rispettivamente batteria e basso per due dei tre primi singoli estratti, Rolling in the Basement e My Old Bassist.
Proprio
Rolling in the basement apre il disco e palesa fin da subito una maggiore ricercatezza negli arrangiamenti rispetto al passato, come fosse la sorella più grande della trascinante Too Hot in L.A., ancora col basso di Joe Dart a scandire una piccola orgia di synth governati da Goss e il consueto testo stralunato di Jeremy Daly a incorniciare il tutto: quello che sorprende in questo primo brano è l’attitudine quasi garage, sporca e diretta, che viene rafforzata e riespressa con forza anche nella seguente, sincopatissima L.A. Drivers, e se He’s Cass McCombs costituisce un intermezzo giocoso situato da qualche parte a metà strada tra il funk e la psichedelia, ben presto il lavoro vira addirittura verso ispirazioni vagamente kraut come nella meravigliosa Distant Lands (che a suo tempo presentai con la frase When California meets Krautrock). Distant Lands sboccia come un instant flower tra i Can e il rock psichedelico, claustrofobica, ossessiva e piena dei formidabili intrecci delle chitarre graffianti di Joseph e Wallenberg, impreziosita dal basso continuo di Andrew Vogt e dalla performance vocale distaccata e autoironica di Daly. Closed Eyes è una ballad folk/psichedelica, delicata e ondeggiante, carica di nostalgia e disillusione (perfettamente racchiuse negli ultimi versi cantati da Daly, I’ve been asleep for/ asleep for one third of my life/ But when I’m awake/ I still got closed eyes), che, lo dico anche se sono certo che a qualcuno parrà assurdo, penso non avrebbe sfigurato affatto in un bel disco dei Mojave 3; la successiva Feet of a God farebbe invece una gran bella figura in un disco di indie-rock suonato bene (sono sempre più rari), ed ha la gran forza di creare un’atmosfera notturna e urbana, sognante e sospesa, una specie di post-wave dotata di un testo ancora centrato sulla nostalgia (Distant tears don’t chase your time away), e un finale dominato da un intreccio elegante e affascinante di synth. La titletrack, Gravy in My Coffee, è invece una specie di sgangherato haiku musicale, una fioritura di pochissimi secondi con un testo di nuovo puntualmente stralunato, che introduce allo pseudo-punk di My Old Bassist, dove torniamo ad ascoltare il basso di Joe Dart, Daly mescola copiose quantità di romantiche nostalgie e un po’ di sano non-sense (His face was quiet demonic/ Like from a santanic comic/ My old bassist My old bassist/ Yeah and so what he smoked crack/ He always had my back) e le chitarre sbertucciano il finale del brano con un po’ di distorsioni al calor bianco. La bizzarra Behold a Pale Rider oscilla tra una ballad sostenuta dall’organo e un episodio di lucida esplosione psichedelica, con Daly che volontariamente si adopera al sabotaggio dei ritornelli, trasformati in cassa di risonanza per vocalismi privi di senso logico, prima che il brano di disperda in un finale di echi e frasi ripetute ossessivamente, come un buffo corteo funebre sotto acido. La conclusiva She’s a stone va a pescare nel folk-rock più lieve per intrecciare una ballad romantica, accompagnata dalle tastiere e dai bassi profondissimi di Vogt: il testo di Daly sfiora l’ispirazione più apertamente poetica, senza rinunciare alle sue tipiche stravaganze lunari (She’s a closed or open door and/ She’s the untried size at the shoe store/ And she’s finding the right words for the metaphor/ Well she’s my changing life and/ She’s a simple butter knife and/ She’s a song written in the early morning), e mentre ci restituisce una commovente e sincera dichiarazione di dipendenza (The rich may move underground/ And the rest of us may not be around/ But I guess I’m so glad that I met you), si spegne lieve, insieme a questo album, nel silenzio conclusivo.
Mi capita poche volte, devo essere onesto, di restare tanto colpito da un disco dopo un singolo ascolto, eppure è quello che mi è accaduto dopo il primo ascolto di questo
Gravy in My Coffee: è evidente come Goss e Daly abbiano saputo superare la semplice “collezione” di piccoli brani minimalisti con testo stravagante che riempivano il pur interessante debutto di Strange Satisfaction per dare al loro lavoro un’inclinazione e una forma nettamente più mature, e deliziosamente peculiari. Le dieci tracce di Gravy in My Coffee disegnano un percorso personalissimo attraverso la nostalgia, la memoria e il senso di apocalisse imminente che già innervavano Strange Satisfaction, ma lo fanno con un suono nuovo, coeso, meno affidato all’improvvisazione e più alla sperimentazione controllata: Less fusion-cooking and more à la carte dining lo definiscono i due sulla loro pagina bandcamp, sottintendendo come in questo secondo episodio la capacità di esercitare un controllo preciso sul materiale sonoro sia nettamente superiore di quanto non fosse appena un annetto fa. In questo modo la ricchezza di ispirazioni, che spaziano per l’appunto dal funky all’indie-rock, dal folk alla psichedelia, viene frullata in maniera completamente originale e personale a produrre un risultato che è al tempo stesso sorprendente (specialmente se paragonato alla semplicità minimalista di Strange Satisfaction) eppure già profondamente riconoscibile, sia per quanto riguarda la forma che il contenuto di queste composizioni: a fare da ideale fil rouge tra gli universi paralleli di Strange Satisfaction e di questo secondo album resta infatti l’approccio personalissimo di Daly alle liriche che, per quanto in larga parte spogliato delle punte più grottesche, abbondanti nel primo LP, mantiene comunque intatta l’ambizione di parlare della precarietà della vita facendo appello a uno stile ibrido tra serietà, umorismo e teatro dell’assurdo ma aggiungendo al mix, in maniera più evidente rispetto al passato, anche una punta di malinconia. Così, accanto a brani che ricordano con nostalgia le feste clandestine nel seminterrato dei genitori (Rolling in the Basement), si incontrano cavalcate acido/psichedeliche piene di momenti di pura malinconia (Closed Eyes, Behold the Pale Rider), divertenti (e divertite) rievocazioni delle prime esperienze artistiche (My Old Bassist), delicatissime canzoni d’amore (She’s a Stone) e pure un brano letteralmente e apertamente dedicato al cantautore americano Cass McCombs (ovviamente, He’s Cass McCombs), la migliore incarnazione dell’idea romantica di artista non allineato. Di carne al fuoco ce n’è tanta, e le composizioni reggono magistralmente il colpo, disegnando un universo sonoro di riferimento tanto vasto (e, qua e là, apertamente citazionista) quanto affascinante, frutto anche della profonda sensibilità musicale di Goss, che sembra essere sempre, meravigliosamente in grado di portare qualcosa di sé dentro le esperienze musicali più distanti (dal funk dei Vulfpeck all’elegante leggerezza del suo A Very Vulfy Christmas, dallo splendido jazz suonato con May Erlewine in Anyway fino a questa strana musica tanto difficile da catalogare). E così finisce che ti ritrovi a pensare a quali strane soddisfazioni possa dare, qualche volta, versare un po’ di salsa nel caffè…

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